In difesa dell’usignolo. E di una conchiglia.
Riflessioni su poesia ed esperienza, a partire da una recente antologia dell’Illuminista.
di Marco Mantello
Il tempo futuro è contenuto, tutto ma proprio tutto, nel tempo passato? E davvero il talento individuale deve per forza correlarsi a una data idea di tradizione, ora italiana,ora europea, ora occidentale?
Ora un’idea di talento individuale come perenne fattore di rottura rispetto ai fantasmi del ‘sublime aulico’ e del ‘naturalismo’, sulla base di un’inconfessata linea di continuità fra modelli di lirica pura, alla Valery e teorizzazioni della riduzione dell’io da parte di esponenti delle neoavanguardie storiche, nella cui opera si sommavano sovente il critico e il poeta; ora un’idea di talento individuale come fattore di accrescimento e continua ridefinizione a posteriori di una tradizione, in base a datazioni convenzionali e a grandi eventi, cui si collega lo studio testuale della lirica del ‘900, ovvero la ricostruzione di tendenze, quali l’assorbimento di istanze narrative e prosastiche, la tendenza della poesia a farsi prosa e del romanzo ‘ad aspirare alle condizioni di prosaicissima poesia’. Ora infine un’idea di talento individuale come riadattamento al presente, in chiave realistica e sperimentale, di forme e stili del passato.
Nel primo caso sembra davvero che talune rispettabili, quanto risalenti cristallizzazioni del ‘lirico’ novecentesco in parte confluite oggi, nella prefazione a una recente antologia di poeti degli anni 00, accompagnino la fondazione di presunti ‘canoni nuovi’, per la mia generazione e per quelle successive, quasi che una tradizione culturale, quella delle neoavanguardie storiche, pretenda di rigenerarsi sulle ceneri di un fantasma.
Penso all’avversione alla Antonio Porta per il poeta-io che ci racconta la sua storia, ‘parte di quella schiera di neo-crepuscolari che si fanno fotografare con il profilo un po’ appuntito sullo sfondo di emblematici fiumi’, alla simpatia per ‘la tendenza antirealistica della lirica moderna’, via Adorno, ai modelli alla Pound di ‘tradizione culturale’ come somma delle ‘novità’ e delle soluzioni di ‘discontinuità’ da qualche cosa.
Senonché ciò che un tempo era il ‘nuovo’, il supposto elemento di rottura, (per esempio Gozzano o Corazzini o Lucini rispetto a Pascoli e a D’Annunzio, secondo una linea di pensiero che accomuna, a mio parere, studiosi molto diversi come Anceschi e Sanguineti), una volta sottoposto all’inesorabile scorrere degli anni, tende a esaurire la sua forza dirompente. In una sola parola: negli anni 00 non si può scrivere come Gozzano. Gozzano era ritenuto nuovo allora. E i novissimi, quantomeno nelle teorizzazioni di Alfredo Giuliani e Antonio Porta, dovevano esserlo rispetto ai lirici nuovi, o ai neo-crepuscolari.
Nel secondo caso cui accennavo, alla Mengaldo, l’indagine sul talento individuale sottende la possibilità di una continua ridefinizione di un linguaggio del passato, irrimediabilmente e totalitariamente novecentesco, che l’irripetibile esperienza del poeta seleziona e rielabora, dandogli nuova vita. Qui non si impongono canoni. Semplicemente si manifesta l’esigenza di concentrare la ricerca sulla irriducibilità a sistema di un’esperienza storica, quella della poesia italiana del Novecento, vista nell’ottica della lirica europea e del suo strutturarsi come “modalità specifica di espressione e conoscenza, opposizione e utopia caratterizzata in rapporto alla nuova società borghese e alla crescita del capitalismo. Opposizione che può prendere per esempio le vie della conservazione, in forma simbolica o di mito personale, di situazioni antropologiche e comportamentali che l’onnipotenza livellatrice del capitale e della sua “cultura” ha distrutto o relegato ai margini della società” (ancora Mengaldo). Al di là del suo sottendere un’idea di ‘lirica’ come ‘categoria estetica’ identificata con la ‘poesia’ tout court, l’impostazione resta condivisibile nel metodo, e utile, per uno studioso di letteratura contemporanea che intenda ricostruire una tradizione culturale in chiave diacronica, e nondimeno lavorare sui testi, e sui singoli autori. Ma poco aggiunge e poco dà a quello che fanno i poeti, quando leggono letteratura, e scatta la famigerata facoltà mimetica. Dapprima un processo selettivo e del tutto sincronico, dove Dante e Apollinaire, Montale e Gregory Corso, Lucrezio e Robert Frost, diventano materiali come tanti altri, e comportano l’assimilazione mentale di ritmi, e suoni della parola, come del resto succede con la musica, o il rumore dell’acqua, o di una fila di auto sull’autostrada. Mano a mano che si va avanti nel tempo, qualcuno comincia a ragionare, o a sragionare sui materiali propriamente letterari, a prendere informazioni sulla loro origine e si chiede: che cosa sto facendo? Dimenticando tutto il resto. I contenuti, soprattutto quelli, il ruolo che assumono i contenuti, nel conformarsi della nostra voce. Se questa cosa vogliamo chiamarla poetica, nessun problema, basta che sia chiaro il punto. Nella prospettiva di chi fa poesia, non esiste a mio avviso soluzione di continuità fra l’assimilazione di un tono da camminata fra le macerie, alla maniera di: ‘I pace upon the Battlements and stare/on the Foundations of a House or where/Tree, like a sooty Finger, starts from the Earth’, lo scrocchiare delle ossa di un naso rotto, la visione di una foto d’epoca o di un quadro, la partecipazione a una guerra, un dialogo con il proprio capo, un internamento in manicomio, il ricordo di una scopata, o di un saggio di critica letteraria, la morte del proprio cane, la centrale nucleare di Fukushima e quella miriade di fatti, cose, persone e situazioni sparse, letti sui libri sui giornali, rivisitati a teatro o in un film, o vissuti in prima persona, cui si lega a livello mentale, quello che chiamiamo un processo creativo. In questa prospettiva, anche una riflessione su ciò che abbiamo propriamente letto di ‘letteratura’, nel corso della nostra vita, è cosa molto diversa da un adeguamento a priori, a una tendenza o a un canone imposti dall’esterno, a meno che ciò non sia, effettivamente, già accaduto, e ci abbia in qualche modo formati.
Ecco il farsi della poesia, dal punto di vista di chi scrive. Ragionare su questo, significa ragionare sulla possibilità che accanto a una Verfremdung del testo poetico dalle intenzioni o dall’inconscio del suo autore, che rende possibile un’autonoma attività di interpretazione e di inquadramento, ovvero di critica tout court, esista anche una Vermfrendung, uno stato di straniamento e di autonomizzazione dei testi di critica letteraria, non tanto dai loro autori, quanto dagli oggetti della loro ricerca. Di qui il rischio di un salto logico, e cioè del passaggio dalla comprensione e valutazione di un’esperienza (per esempio: la poesia ligure del XX secolo,la poesia fiorentina degli anni ’20, la poesia romana del 2000) all’attribuzione di un valore ordinante ai risultati della propria ricerca, che si muta in dover essere, in condizioni minime di ‘modernità’, in ‘canone’ per il fare poesia nel presente. Già questa presa di coscienza ci porterebbe molto lontano sia da modelli di ‘lirica’ come genere metastorico, di derivazione ottocentesca, sia da modelli di ‘ricerca della poesia’ imperniati sulla domanda anceschiana: cosa è la poesia?, cui si legano i rigorosi trascorsi dei Lirici nuovi e della Linea lombarda, sia da recenti, e piuttosto confusi modelli di ‘poesia di ricerca’ imperniati sulla testualità.
Quanto ai modelli di lirica come genere metastorico, è bene essere chiari in primo luogo sulla polisemia dell’espressione ‘lirica’. Per esempio, un autorevole critico del Novecento , Giacomo Debenedetti, accenna nelle sue lezioni a un ‘ritardatario romantico’ (Pascoli), rispetto all’idea di ‘Lyrisme’ come elemento caratterizzante la ‘poesia romantica’ europea. Si tratta di visioni darwiniane del XIX secolo di derivazione francese (Brunetière), fuse al pensiero di Lukàcs. Qui già assistiamo a una sovrapposizione fra un primato dell’Io, inteso come tematica soggettiva, personale, del componimento lirico, e un primato dell’Io inteso come ruolo, come funzione sociale del poeta lirico, sinonimo di poeta borghese. Quantomeno fino a Rimbaud e alla sua Alchimia del verbo, scrive Debenedetti, il poeta prova stati d’animo per tutti, affronta temi intimi all’ombra del potere ed è socialmente riconosciuto come ‘poeta’.
In tutte le epoche della storia, scrive invece Brunetière nelle sue lezioni del 1893, lo sviluppo del Lyrisme è connesso allo sviluppo dell’individualismo e l’epoca romantica si caratterizza, appunto, come epoca dell’individualismo. E’ curioso che in qualche modo, nella ricostruzione piuttosto generalizzante del critico francese, fosse la narrativa di Balzac, accanto alla poesia simbolista, a sottendere un fattuale recupero di schemi non lirici, collegati all’idea dell’impersonalità nell’arte e al principio classico, di imitazione della natura. Affiora inoltre un’ interpretazione di Baudelaire non del tutto distante, rispetto a quanto sosterrà, negli anni 50 del 900, Hugo Friedrich, a proposito di un Baudelaire primo poeta della modernità, o meglio di una lirica tanto più moderna nella sua struttura, quanto più tesa a rifiutare e a svuotarsi non solo di Lyrisme, ma anche di significati semanticamente e sintatticamente riconoscibili. Con la notevole differenza che Brunetière rappresentava, in base a un substrato filosofico positivista, ciò che era Lyrisme e ciò che non lo era nella poesia francese del XIX secolo, e che Friedrich invece ridusse la parola modernità a una linea di sviluppo di una Lyrik, sinonimo di ‘poesia’ come genere letterario’, e connessa da un lato a ciò che non è ‘soggettivo’, e di ‘senso comune’, dall’altro a un’idea di poesia ‘non realistica’, o meglio di poesia come ‘realtà a sé’.
A queste visioni si oppone a mio avviso quella di Benjamin, di un Baudelaire ‘lirico in età capitalistica’, di una dignità del poeta, di un suo ruolo sociale e di una sua estetica antiborghesi. Lasciando da parte l’interpretazione psicoanalitica di Sartre sulla persona di Baudelaire e il suo nichilismo incompiuto, che qui non interessa, ai limitati fini di questa indagine si tratta solo di riconoscere che già nell’ottocento europeo la voce del poeta moderno resta irriducibile a qualsiasi equiparazione di un Io, privato ormai dell’aureola, a figure nazional-popolari di poeta-vate. Concezioni dell’Io, e del suo rapporto con la ‘folla’, o con la propria ‘madre’, che nulla hanno a che vedere con un’ indebita equiparazione formale fra Lyrisme e lirico. Osserva Benjamin su Baudelaire:
L’apparenza di una folla vivace e movimentata, oggetto della contemplazione del flaneur, si è dissolta ai suoi occhi. Per meglio imprimersi la sua bassezza, egli immagina il giorno in cui anche le donne perdute, le reiette, si pronunceranno per una condotta regolata, condanneranno il libertinaggio e non ammetteranno più nulla che non sia il denaro. Tradito da questi suoi ultimi alleati, Baudelaire muove contro la folla; e lo fa con la collera impotente di chi si getta contro il vento e contro la pioggia. Ecco “l’esperienza vissuta” a cui Baudelaire ha dato il peso di un’esperienza. Egli ha mostrato il prezzo a cui si acquista la sensazione della modernità: la dissoluzione dell’aura nell’“esperienza” dello choc. L’intesa con questa dissoluzione gli è costata cara. Ma essa è la legge della sua poesia.
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A proposito di tempo passato e di concezioni del nuovo. Giacomo Leopardi tentò invano di conciliare un’idea tradizionale di poesia come imitazione della natura, e dunque dei classici dell’antichità, con un’idea che chiamerei di poesia dell’esperienza. Sul finire dello Zibaldone l’idea di natura tende in parte a coincidere, o forse a sovrapporsi, al pronome personale io. Il tutto sulla base di una mai rinnegata identificazione dell’oggetto dell’arte nella verità, o meglio nella sua ricerca. La ragione leopardiana resta pur sempre nemica della natura, e dunque della poesia.
Si tratta a mio avviso di un tentativo di attualizzazione della poesia ingenua, più che di un’adesione incondizionata a modelli di poesia sentimentale, laddove il rapporto immediato fra il poeta e la natura non è più ritenuto monopolio esclusivo di un classico latino, ma è legato invece al proprio vissuto, al proprio io, nel presente, e al trapasso dal momento imitativo al momento creativo, come carattere preminente del fare poesia.
Se è vero che contano i risultati, più che il provincialismo delle poetiche reputate ‘moderne’ in Italia, ai tempi delle Osservazioni di Lodovico di Breme sopra la poesia (per l’appunto) moderna o romantica, e se è vero che espressioni come ‘romanticismo’ e ‘ decadentismo’, ‘poeta vate’, e ‘suo negativo frustrato poete maudit’, hanno il difetto di creare i loro precursori ed epigoni di provincia, ovvero di fondare un immaginario collettivo da ‘poesia del passato’, nell’epoca che oggi chiamiamo ‘moderna’, credo invece che difendere , nel presente e per il presente, una poesia dell’esperienza, sia molto meno retrò di quanto sembrasse esserlo un Leopardi supposto precursore di una monolitica ‘poesia romantica’ e ‘soggettiva’, di fronte alle sane aporie del suo argomentare teorico, e alla irripetibile grandezza dei suoi fiori del deserto. Rovesciando il senso di un’acuta osservazione di Luciano Anceschi, possiamo benissimo leggere lo Zibaldone senza i Canti, ma l’esame delle intenzioni operative su cui il poeta lavorò nulla ci dice, da solo, sull’invenzione della sua poesia.
Specularmente, il discorso sull’immaginario collettivo da poesia del passato che viene a generarsi, ripercorrendo i possibili nessi fra ‘tradizione’ e ‘talento individuale’, potrebbe estendersi a numerose visioni generalizzanti, a partire dalle estetiche dell’ottocento europeo, e relative al modo di intendere le parole ‘lirico’, o ‘lirica’. Scopriremmo che numerose tendenze di epoca ‘romantica’, o ‘decadente’ europea, sono molto più votate alla ‘ragione’ di quanto possano sembrare, rispetto alla ‘vulgata novecentesca’ di Dino Campana poeta maledetto. O andando più indietro nel tempo, che l’esasperato formalismo di marca seicentesca secondo la vulgata dell’effetto sorpresa, resta ancora uno spettro , per alcuni critici italiani votati alla sistemazione del ‘nuovo’, ad esempio della musica rap, in categorie, laddove la sostanziale preminenza di una qualche forma metrica continua a implicare rivendicazioni di autonomia del poetico dall’altro da sé, affatto dissimili dal modo di intendere la ‘testualità’ come proprium del formato poesia cartacea rispetto al formato canzone (come specie di poesia orale).
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Non amo le decontestualizzazioni. E a una imperitura condizione umana preferisco una condizione storica, magari declinata al plurale, secondo coordinate di tempo e di spazio. Per cui discorrere oggi di poesia dell’esperienza significa o lasciare Leopardi alla sua epoca, ma non solo lui, oppure rivendicare una qualche rilevanza per il presente, a una sana e ragionevole discontinuità fra ciò che si scrive sulla poesia, e ciò che si scrive quando si fa poesia, pena il ritorno, negli anni 00, a modi di far poesia assolutamente rispettabili eppure (è bene che gli amanti dell’evoluzionismo lo sappiano) marcatamente romantici, alla Friedrich Schlegel.
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Il problema della discontinuità, e della conseguente centralità dell’autore e del suo modo di leggere la tradizione, rispetto a una tradizione filtrata dal critico, a cui il poeta si conformi, è stato colto solo in parte da Berardinelli, che nel 2004 scriveva:
A determinare il grado di presenza effettiva di una tradizione sono le modalità e le condizioni generali della lettura e la dinamica degli apparati della produzione e della riproduzione culturale (scuola, Università, editoria, comunicazione di massa). Il funzionamento di questa macchina della cultura ha la capacità specifica di suscitare o distruggere, attualizzare o seppellire, elementi e livelli di tradizione. Che se ne renda conto o no, l’autore opera all’interno di questo orizzonte.
E ancora, con toni generalizzanti, a tratti deterministici e inidonei a spiegare i diversi fenomeni di coazione interni alla cerchia degli autori stessi, ma anche con un gran fondo di verità:
La loro esistenza di docenti è legata a filo doppio all’esistenza degli autori. In un certo senso, e spesso proprio perché meno lo credono, essi sono scrittori: forniscono formalizzazioni verbali di alcuni loro fantasmi inconsci, trascrivendo in bella copia alcune loro ossessioni. Finché esisteranno nella scuola e nell’Università insegnamenti letterari, questi insegnamenti inoculeranno inoltre nella testa di una parte variabile dei discenti il brutto tarlo della coazione “creativa”.
Per me non si tratta, necessariamente, di coazione creativa. Può trattarsi anche di mimesi. E se è vero che la comunità della poesia si compone di autori che sono anche lettori, è vero anche che questi lettori non sono necessariamente degli idioti. Per cui una cosa è cercare di ricostruire, su un piano sociologico o psicanalitico, il punto di vista dell’autore a fini di critica letteraria, magari attraverso questionari, e altra cosa è rivendicare, in quanto autori e lettori, un proprio punto di vista sulla critica letteraria, e sulle sue eventuali pretese ordinanti.
Ancora: quando parliamo di ‘leggere letteratura’ (non solo poesia) in funzione dello ‘scrivere’, su un piano non estetico (che a me interessa poco), ma comunicativo e politico, parliamo in primo luogo di una situazione da ‘foro interno’, ‘individuale’, e in secondo luogo di una situazione dialogica, di uno scambio, che implica il confronto necessario con una realtà esterna. Parliamo, cioè, di processi creativi. E ancora: la capacità di un testo di poesia, o di teatro, o di un romanzo, di risvegliare una facoltà mimetica irriducibile all’imitare, o al nascondersi, non resta ferma nel tempo, non è un dato fisso e immutabile. Essa varia non solo da fruitore a fruitore, ma anche da momento a momento di una vita umana, prima ancora che al variare delle ‘epoche’. Non è affatto la stessa cosa leggere un testo in funzione del proprio scrivere poesia, o in funzione del proprio scrivere sulla poesia. Certamente non esiste, nelle nostre teste, una sorta di tendina, che ci permetta di separare con l’accetta le ‘modalità’ di fruizione de ‘Il vampiro’ di Baudelaire a quindici anni (anche se l’età delle innumerevoli adolescenze si è alzata, oggi, oltre i trenta), o da adulti che scrivono sul fist fucking, o su un paio di seni equiparati a bombe americane. Esistono solo diversi modi di utilizzare e inquadrare un testo, a livello di ‘ragione’, di ‘emotività’, di ‘valutazione e rappresentazione del reale’, di affinità o distanza da ‘cosa facciamo’, o ‘vorremmo saper fare’. Di qui la necessità di collegare uno specifico modo di atteggiarsi del rapporto fra letteratura e realtà, ai possibili nessi fra una certa idea di tradizione, in genere ‘trovata’, e il proprio talento individuale, ‘esercitato’, sulla base di una riflessione sui materiali effettivi, letterari e non, in ogni caso esistenziali, su cui si fonda una scrittura. E’ bene, come dicevo, che i poeti comincino a giudicare il lavoro dei critici, a non lasciarsi ridurre a ‘oggetti’ di ricerca, e difendano il proprio lavoro dalla sussunzione in tendenze, o canoni, che spesso nulla hanno a che fare con i contenuti effettivi di una scrittura. Se è vero che accanto alle analisi critiche testuali e atomistiche, esiste un problema a monte, di ‘inquadramento’ e di ‘inquadrature’ di un’esperienza in un contesto più ampio (le famose ‘tendenze’, gli innumerevoli ‘canoni’…), occorrerebbe domandarsi se effettivamente ci sia stato un apporto della critica letteraria del secondo novecento italiano, alla formazione e allo stile dei poeti operanti a cavallo fra i due secoli, oggi attestati fra i trenta e i quarant’anni secondo le solite, stantie scansioni generazionali. Penso ad esempio a quelle forme di conoscenza ‘simultanea’ ben definita nelle prime pagine del Secolo breve di Hobsbawn, e alle possibili sovrapposizioni, nella mente di un poeta di ‘oggi’, fra la lettura di una pagina di Pavese, una sequenza di film di Lars von Trier, innumerevoli quantità di manga giapponesi, Isolation dei Joy Division, la televisione o internet mai spente e quant’altro è successo fuori, o nella propria testa, in termini di formazione di ‘a priori’ per ‘linguaggi condivisi’ -verrebbe da dire: di inconscio collettivo. Penso al modo in cui Habermas ha ricostruito il problema dei rapporti fra consumo di cultura e formarsi dell’opinione pubblica. Si tratta, in altre parole, di riconoscere la relatività storica della parola ‘tradizione’, di non ridurla al suo etimo: quello che ti è consegnato, e che magari nemmeno comprendi, nelle forme in cui ti è inoculato dall’esterno, lo comprendi nelle forme, spesso disordinate, in cui lo utilizzi per scrivere. E questa è un’altra cosa, rispetto a modelli di autorità razionale cui adeguare la tua scrittura, perché appaia moderna.
Discorrere oggi di poesia dell’esperienza dal punto di vista di chi scrive poesia, significa inoltre riappropriarsi di espressioni distorte perché decontestualizzate, metastorici fantasmi di comodo come ‘lirico’, o ‘lirica’, talora connessi, a livello di critica, alla riproduzione di forme metriche del passato, e pedissequamente associate a contenuti fissi (pare che l’endecasillabo sia stalinista, se associato al tema della guerra; e che se scrivi della donna che ami, userai necessariamente la forma sonetto e la chiamerai Laura), talora correlati a più impegnative ma non meno totalizzanti definizioni di ‘lirica’ come sinonimo di componimento breve, a contenuto ‘personale’, contrapposta a ‘epica’, talora infine correlati a un’idea di poesia ‘pura’, ‘sonora’, priva di contenuti realistici, sul modello di un cimitero marino, o forse di un museo, e in contrapposizione a un rilievo di Eliot (riportato da Berardinelli) per cui la poesia ‘non può discostarsi troppo dalla lingua quotidiana che noi stessi parliamo, e sentiamo parlare’. Non può, aggiungo io, distaccarsi del tutto dalla ‘realtà’, e divenire mondo a sé, prima ancora che linguaggio a sé. Linguaggio a sé lo è già di suo, a prescindere da qualsiasi speculazione filosofica, sempre di marca eliotiana, sull’unità o meno dell’anima e da identificazioni a mio avviso troppo marcate fra espressione di una personalità ed espressione di emozioni personali.
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Tornando alle voci nostrane, non mi fermo ai ‘lirici nuovi’, alla supposta rottura dei ‘novissimi’, alla c.d. poesia dei mezzi o alla palese tendenza di molta neoavanguardia storica a debordare in quello che Pasolini chiamava a ragione, classicismo. Ne ho anche per eventuali, ancorché improbabili riedizioni da laboratorio del poeta sentimentale e per il cultore della poesia civile, asciutta e secca, talora retorica, e per le stesse, inattuali, e velatamente classiste contrapposizioni pasoliniane fra uno stile popolare, “non realistico, parassitario, debitore di una istituzione stilistica superiore e mutuata dal processo storico”, e una poesia realistica, “prodotto di individui colti, che discendono alle classi inferiori assumendone modi e atteggiamenti con effetti parodistici”.
Certamente letteratura e poesia ‘civile’ possono essere intese ancora oggi in senso sperimentale, come un mezzo per esprimere in modo critico la realtà, più che per mettere la realtà in condizione di esprimersi da sola. Penso inoltre che ogni dissociazione forzata, programmatica, fra il ‘fare linguistico’ e ‘l’essere nella vita’ alla lunga si risolva o in mera ‘protesta letteraria’, o in ‘arte per l’arte’. La sola preminenza del significante, la ridefinizione dei generi come fini o risultati accidentali della propria opera, certificati da qualche pronipote di Jakobson, non implicano affatto che siamo di fronte a qualcosa di ‘significativo’ e non vedo perché debba accordarsi maggiore preminenza a un’arte concettuale, rispetto a un’arte del reale. Ogni forma letteraria, peraltro, non ha un’uguale rilevanza, per il semplice fatto di assolvere a questa sorta di ruolo di medium con la realtà storica, sull’esempio del cinema neorealista. Esiste anche un problema di selezione della realtà, di sua trasfigurazione in un testo letterario. E c’è un problema di autonomo impatto delle forme, di uno stile, del linguaggio in cui la realtà è espressa, in quella data opera, sulla nostra scrittura. Per la poesia, può trattarsi, certo, di risolvere con Pasolini il problema del rapporto con la tradizione, sul piano preminente dello stile, ovvero del modo in cui una pagina rappresenti contenuti magari identici. Oppure, come io credo, di ritenere insufficiente un mero richiamo a cristallizzazioni delle forme di un passato da riadattare all’oggi (la terzina delle Ceneri di Gramsci), quando le cose migliori con le quali confrontarsi stanno proprio nell’invenzione di qualcosa di personale, a livello di contenuti, e di selezione di una realtà, che si riversa sulla forma, e la condiziona, la conforma, nella sua apparente immutabilità (la terzina della Religione del mio tempo). Quello che voglio dire è che i due termini, riadattare e inventare in funzione di uno stile, di una voce riconoscibile, di una personalità, non sono affatto autoescludenti, quando parliamo del punto di vista di chi legge poesia, in funzione di un proprio processo creativo.
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Scriveva Franco Fortini nel 1962 (il contesto era il dibattito su letteratura e industria, ma credo che il passo rappresenti, almeno in parte, ciò che penso sulla necessità di fare poesia civile, oggi, e sui rischi inevitabilmente connessi a questa scelta):
I gestori della cultura industriale e progressista già da tempo hanno veduto nel mio colorito qualcosa che li ha dissuasi dalla tentazione di fidarsi di me. Oggi vorrei che il mio -il nostro, amici- fosse un pallore ancora più innaturale, procurato -e impreciso. Vorrei non aver più occasione di transigere con gli infocati, o stanchi intellettuali della mia età; con quella parte di me che gli assomiglia. Vorrei perciò saperli salutare, riverire al bisogno, adulare; con perfetta menzogna. Non è facile. Come certe agitazioni sindacali, coloro che nelle lettere si propongono fini simili sono già previsti nei bilanci del potere; ricercatissimi, quindi, come selvaggina di pregio. Facile, invece, confondersi coi peggiori cialtroni del ribellismo protetto o con stravaganti ritardatari. Tanto da far pensare che scrivere non si debba più; o non più pubblicare.
Specularmente ai rischi del fare poesia civile (solo a sapere cosa si intenda, poi, con quest’espressione), esiste il rischio che il pallore sia internato in un recinto e basti a se stesso come pura ‘autonomia del poetico’, di un suo strutturale, talora programmatico e compiaciuto Parnaso.
Ancora Fortini, su Officina, nel 1959, a proposito di un notissimo libro dell’epoca che tentava una ricostruzione unitaria di due secoli di poesia da Mallarmé a Eliot e Pound, fondandola tutta sul ‘gioco di una vuota trascendenza’, e sulla ‘svalutazione del reale’:
L’errore di aver creduto possibile un discorso sulle strutture della lirica moderna senza inquadrarlo in quello dello sviluppo delle forme letterarie (conseguenza della distinzione non dialettica fra poesia e letteratura e della identificazione surrettizia di poesia e lirica) e isolandolo dal complesso della storia e della cultura, non è un errore casuale, ma è conseguenza di un metodo e di una tendenza: (…) c’è senza dubbio nel Friedrich una simpatia per la protesta antirealistica e antistoricistica nella quale crede di poter identificare l’elemento comune a tutta la lirica moderna. Gli iniziatori di quei modi ed i poeti più recenti gli appaiono contestare tutti gli elementi della comunicazione, com’egli dice, ‘normale’; e così pago, crede di poter affermare che la poesia moderna si definisce solo negativamente, proprio perché non vuol vedere quali siano i contenuti di quella e che cosa tal poesia voglia comunicare e comunichi.
Forse le osservazioni di Fortini sul libro di Friedrich, sebbene ispirate a diverse visioni sistematizzanti allora in voga (Lucàks, Auerbach), possono essere lette ancora oggi come un monito, quanto ai possibili impatti repressivi della critica della poesia sulle forme e i contenuti della propria scrittura. Che si tratti della pretesa di rinnovamento di una tradizione di lirica pura, di poesia realistica e popolare, o del rinnovamento fintamente ecumenico di una tradizione da neoavanguardie storiche che pretende di farsi museo, rispetto a un permanente ‘epigonismo lirico’ (cioè a un vago sinonimo di poesia del poeta, soggettiva e autoreferenziale), o ancora di un tentativo di attualizzazione dell’estetica hegeliana, da cui desumere modelli metastorici di una forma ‘lirica’, o di ritorni a un passo di Leopardi dedicato ai ‘mondi’ per superare, oggi, il Lyrisme ottocentesco, si delineano visioni sistematizzanti dei c.d. anni 00. Visioni saldamente ancorate al passato, ancorché talune di esse dichiarino la loro incompatibilità con alcune forme di ‘già sentito’ e non con altre, ovvero con il fatto che oggi, un autore di trent’anni, viva e scriva in modo più vicino a Salvatore Toma, piuttosto che ad Amelia Rosselli (ed escluse ovviamente le pure e semplici imitazioni, che sono altra cosa, rispetto alle somiglianze stilistiche).
Ora visioni oggettivanti, perché meramente oppositive al ‘fantasma’ del ‘lirico’ associato a un ‘ego’, più che a un ‘io singolare proprio mio’, ora tentativi altrettanto discutibili di ridefinizione della sua essenza, che sfociano in riedizioni della critica sociologica dell’individualismo capitalistico (Mazzoni), ovvero in un’audenistica, e forse più interessante, nel suo restare peraltro elitaria, riscoperta di una individualità necessaria e prodromica all’atto dello scrivere, che in qualche modo si fa visione politica, rivendicazione di un ‘esserci’, connessa al fare poesia, oggi, in un paese di individui massificati e spersonalizzati (Inglese).
Le cose non cambiano, se dalla sociologia e dall’estetica passiamo a talune analisi testuali dell’ultimo novecento italiano. Come nel caso di Enrico Testa, che in parte svaluta quella che resta a mio avviso una possibile linea di discontinuità fra il Caproni critico dell’egorrea epidemica e promotore/autore del ‘poema’ a più voci, e il Caproni di Res amissa, che scriveva epigrammi a proposito della sua morte (‘Già ho toccato la meta?/Sono già anch’io, sul pianeta/soltanto uno dei suoi tanti/-smarriti- disabitanti?’), o faceva sovente rimare ‘io’ con ‘Dio’, sul finire dei suoi ‘versicoli’.
Qui a una condivisibile valorizzazione delle tendenze di poesia ‘narrativa’, o meglio incentrata sul superamento del paradigma eliottiano delle tre voci, e sulla possibilità di tessere in poesia un racconto e di far coesistere personaggi o voci diverse, all’interno di un unico testo, si associa una discutibile direttiva di annullamento di un Io (tanto per cambiare, e spregiativamente) ‘lirico’. Per qualificare questo ‘Io’ antagonista della ‘tendenza’ narrativa, ritornano i soliti, velati fantasmi di comodo attinenti a visioni romantiche, o idealistiche, del ‘lirico’ sinonimo di ‘soggettivo’, ‘narcisistico’, ‘intimo’, ‘nazional-popolare’ e abbinato alla forma interna della confessione, o del diario. Come se tessere in poesia un racconto secondo schemi narrativi in cui entrino in gioco altre voci, o voci interposte, cosa degna quanto tessere un monologo ispirato a se stessi dove a parlare siamo noi, fosse a priori incompatibile con la rielaborazione in versi di una propria personalissima esperienza. A tratti leggendo critica letteraria sembra davvero che mentre il genere ‘romanzo’, per essere valutato moderno, debba assorbire istanze ‘liriche’ da Proust in poi, l’andare della poesia verso la narrativa, o il teatro, o la prosa, debba implicare la totale disidentificazione dei contenuti, e delle voci narranti, su un piano meramente linguistico. La domanda allora è: perché la poesia deve? Non mi si risponda, adesso: perché già è.
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Lasciando da parte il mondo del premio Viareggio, o del Montale, e i tentativi dottrinari di ridefinizione del ‘lirico’ cui accennavo, dove spesso si identificano impropriamente quello che Pagliarani chiamava a ragione il kind lirico, la categoria psicologica, con il genere lirica, la tradizione stilistica, a me sembra che oggi esista il rischio di una programmatica e tendenziale scissione fra contenuti della poesia e contenuti dell’esperienza, che a tutto porta tranne che alla tanto agognata ridefinizione dei generi.
I generi, spesso, si ridefiniscono da sé, e non è detto che i risultati siano buoni per il fatto presunto della ‘rottura’, ovvero, per dirla con Anceschi, del “definitivo e radicale chiarimento di una trasformazione sollecitata da forze da lungo tempo attive” o ancora dell’innovazione più o meno studiata rispetto al passato. La realtà, invece, non si racconta affatto, da sola. Ecco la desertificazione della propria individualità artistica ed esistenziale, in un esserci di settore e in un dover(ci) essere. (In)significanti. Se non si appartiene a qualcosa. A livello di stili, e di riconoscibilità della propria voce, quale essa sia, siamo di fronte al rischio di un graduale e inesorabile spersonalizzazione dell’esperienza poetica non tanto in ‘gruppi’, ‘aree’, ‘perimetri’, quanto in atomistiche individualità collegate a un ‘senso comune’ della poesia del passato, spesso privo di buon senso. La costruzione di un senso dell’oggettività ‘moderno’ perché meramente ‘antilirico’, o ‘neolirico’, come marchio di fabbrica dell’essere parte di una koinè. E il risultato di tutto questo, sul piano delle scritture, è il pericolo di una resa incondizionata e graduale al manierismo, all’indistinguibilità del timbro, al gelo del non esprimersi mai, in prima persona, che si usi o meno il pronome ‘io‘.
Non solo e non tanto il ‘potere corporativo’ e le accademie con le loro istanze ordinatrici, quanto le ‘poetiche’ a priori, i ‘tratti caratterizzanti e comuni’, le ‘induzioni’ del ‘canone’ e della ‘tendenza’, che disvelano curiose idee di privacy, il non partire mai da se stessi, il non esporsi mai, quasi che una poesia del Sé non possa essere rappresentativa dell’Altro, quasi che il momento ‘lirico’ non possa convivere in uno stesso testo con una pluralità di voci, con il manierismo del citarsi addosso, con modelli teatrali di ‘io personaggio’ o col toccante finale della Ragazza Carla, quasi che sia da respingere in blocco l’idea stessa di un romanzo in versi, dove si parta dal proprio vissuto, e quasi che l’assenza di soluzione di continuità fra poesia e prosa non fosse già un dato che si perde nella notte dei tempi, fino a risalire alle Mosche del capitale di Paolo Volponi, e a quello splendido dialogo fra la luna e un calcolatore.
Perdita di contatto, dunque, con la realtà esterna al ‘poetico’, laddove esso diviene realtà a sé, prima ancora che linguaggio a sé.
O si induce, in quanto critici, un dover essere del verso degli anni 00, o meglio la ‘testualità’ di una poesia degli anni 00, dall’analisi atomistica di un gruppo di autori, i cui tratti caratterizzanti sembrano dover essere, per esigenze interne alla propria ‘ricerca scientifica’, contigui a quelli di alcuni poeti dell’ultimo Novecento (penso a un saggio di Paolo Zublena, che cita a piene mani da un analisi linguistica di Testa dedicata a poeti novecenteschi, da cui si è recentemente desunta una nozione di ‘poesia di ricerca’ con relativo ‘canone policentrico’ per gli anni 00). O al contrario si finiscono per sovrapporre una poetica e una poesia in uno stesso testo, magari pretendendo di rinnovare un imperituro genere ‘lirico’ di derivazione romantica, o leopardiana. La lirica dei mondi (Mazzoni) e delle sostanze ur-nassiriache (Casadei). L’io seduto a scrivere che ha composto numeri di cellulare e accarezzerà i figli al risveglio, e che può specchiarsi in un personaggio a scelta (ancora Casadei), fino a discendere appunto, ai trascorsi di Officina e Verri, alla parola, ‘sperimentale’, che in qualche modo univa più di ‘popolare’ come chiave di lettura condivisa delle esperienze di verso libero più disparate, risalendo a oggi, anzi a un mese fa, a un dibattito piuttosto feroce svoltosi su questo sito letterario, a proposito della recente antologia dei Ricercatori curata dall’Illuminista, e della prefazione del suo curatore.
Qui espressioni come ‘disseminazione dell’io’, ‘poesia fuori del Sé’, primato della ‘testualità’ sulla ‘performance’, sono contrapposte da un lato a ”epigonismo lirico’, dall’altro ai poeti da ‘slam’ e , mi pare di capire, a eventuali riedizioni delle muse incollate o del gruppo ’93, ai fini della creazione di un ‘canone policentrico’. Si pretende di inglobare nelle dizioni ‘poesia di ricerca’ e ‘testualità’ tutto ciò che non è giudicato ‘narcisistico’, ‘individualizzante’, ‘egocentrico’, attinente alla figura metastorica del poeta-vate. Dietro l”intento di fornire una rappresentazione pluralistica dello stato dell’arte, si presentano ora soluzioni risalenti ai primi del ‘900, quanto al criterio ad excludendum dell’emersione sociale e all’estromissione della figura del ‘vate’ da una supposta idea di poesia degli anni 00, ora visioni già ampiamente comprovate dalla grande critica, quanto al superamento di una lirica romantica ridotta a lirica borghese, sul solito modello del un poeta specialista qualificatissimo nel mondo della sensibilità individuale e nel mondo delle emozioni individuali. In quest’ultimo senso, e ferma restando la linea di continuità fra autori come Rimbaud e Montale, nell’ottica di una più generale ricostruzione degli elementi peculiari all’ermetismo italiano alla luce dell’esperienza europea, soprattutto francese, a partire da Mallarmè, la dialettica montaliana fra un ‘soggetto-poeta’ che scompare in elenchi di cose che accadono, e un ‘uomo-soggetto empirico’ che permane in chiave soggettiva e al contempo universale, è stata risolta da Debenedetti in una visione del poeta ermetico irriducibile al personaggio del poeta, e assimilabile a un luogo dove si registrano eventi, ‘al di fuori di ogni rapporto sentimentale e autobiografico con l’Io, che né è ‘teatro’, ma anche ‘tramite’. Siamo in pieno 900 letterario.
Nel primo senso (emersione sociale e fantasma del poeta-vate), ricordo che la prefazione di Papini e Pancrazi all’antologia ‘Poeti d’oggi’ risale al 1920. I curatori del ‘nuovo’ e ‘moderno’ di allora, oltre ad avvertire che gli esclusi avrebbero brontolato di un’antologia dove si riporterebbe per definizione il proprio gusto (anche questa, lo ammetto, è una nemesi storica, rispetto ad alcune delle critiche cui è andato incontro il curatore dell’antologia dell’Illuminista), chiamano la loro epoca ‘post-carducciana’ e ‘post-dannunziana’, specificando di essersi concentrati su quegli scrittori che hanno cominciato a lavorare o sono stati meglio conosciuti nei primi due decenni del secolo XX, ed escludendo, dunque, anche Pascoli dal loro senso del ‘nuovo’.
Forse da questo breve excursus emergono le ambiguità di una preteso canone degli anni 00, associato a imperiture istanze censitorie e ordinanti, laddove si continua a parlare, oggi, di ‘suicentrismo’, di ‘poeta-vate’, di ‘emersione’, e soprattutto di ‘poetese’ e di ‘epigonismo lirico’, sul modello speculare e contrario, della prefazione di Berardinelli a ‘Il pubblico della poesia’, quanto ai casi di ‘epigonismo neoavanguardistico’ allora inclusi. Ecco a me pare che pretendere di fondare oggi, a livello di critica della poesia, un ‘anti-poetese’ per via puramente oppositiva a un fantasma di comodo, cui si aggiunge la novità dell’estromissione di forme di neoavanguardia performativa, ovvero imperniate sull’oralità, sia non tanto e non solo un’operazione di “retroguardia”, quanto una riduzione dell’altro da Sè a metastorico mito di Narciso. Verrebbe da dire: povero Sandro Penna. Addirittura se fosse vissuto ed emerso negli anni 00, e avesse preteso di scrivere: ‘Io nella rada seguivo un fanciullo incantato/solo di sé, fra rare luci. Io solo/tenevo il fanciullo sospeso nel mondo’, sarebbe stato escluso da un’antologia di Novecentisti a oltranza. Non credo se ne sarebbe lagnato più di tanto. Basterebbe dare un occhio alle condizioni pietose del suo letto, e poi rileggere quei versi, per capire che il provincialismo culturale di questo paese, oggi, e i suoi vati-letterati pubblici, trovano sfogo al massimo in città bibliche. Si tratta allora di rilevare, come fece a suo tempo Mengaldo con Sanguineti, i rischi di una convivenza di poesia e di critica a circuito interno, cioè di elementi di un fare letteratura e di uno scrivere di letteratura, decisamente egocentrici, nel loro proporsi come circolo ermeneutico per il futuro, ovvero a livello di ‘comprensione’, prima ancora che di ‘valutazione’, di una supposta e insondabile poesia degli anni 00. Dalla pretesa di rappresentare obiettivamente una situazione si scivola, in altre parole, verso la pretesa di fissare regole ordinanti per il futuro, in una sorta di riedizione critica di Humpty Dumpty, e di Alice nel paese delle Meraviglie.
Il paradosso di tutto questo è che ti obbliga, ti costringe all’antitesi. Devi per forza affermare che i canoni e le tendenze, ovvero il supposto sgretolamento della logica del genere (Giovannetti), il concepire “l’antologia” e appunto “il canone” come forme della “Tradizione” con la T maiuscola, e cioè come criteri per fissare un ordine e una gerarchia nel “Tempo”, e costruirci magari il ‘Sistema’, sottendono da un lato chiavi di lettura di un secondo Novecento che partirebbe dai primi anni ’50, dall’altro la discutibile tendenza a dissociare l’analisi di un’esperienza, ad astrarre il ‘sistema’ dalla sua presunta origine storica, e a costruirci modelli ordinanti per il ‘dopo’. Ecco i canoni e le tendenze della c.d. Postmodernità, non hanno mai prodotto, di loro, un solo poeta degno di questo nome nel secondo Novecento. Non credo che ne produrranno per gli anni 00, ancorché attenutati da un ecumenico policentrismo.
Credo invece che in tempi di pace perpetua e di “centro-sinistra della poesia italiana”, non siano la riduzione dell’Io, né il seguire le cose (o meglio le loro flessibili definizioni astratte), né il costruire regole, cui una scrittura debba adeguarsi per non apparire già sentita, almeno quanto il “canone” novecentista che così la giudichi, a poter assumere un rilievo.
Sono invece il rappresentare criticamente la realtà, con forme e contenuti irripetibilmente connessi alla propria voce e al proprio modo di rileggere una tradizione, sono i tentativi di esprimere condizioni storiche, più che umane, anche e soprattutto attraverso l’oggettivarsi del personale, massificato vissuto, sono gli standards, i luoghi comuni e quelli feroci, le situazioni che si ripetono uguali a se stesse, quelle che generano ‘com-passione’ in senso etimologico, e al contempo l’impossibilità di ‘sentire insieme’, dalla morte del compagno di banco alle pistole puntate al G8, a consentire che nella propria voce, o nella piana prigione di un decasillabo o di un settenario, rifluisca tutto ciò che ne era tenuto fuori da qualche divieto.
Accanto all’immagine rassicurante di una croce rossa su cui sparare, modellata sul mito di un poetese da studi scolastici secondari o da famigerata poesia natalizia, esiste forse un altro genere di poetese, affatto mitico. Lo si impara più tardi, talora nelle università, ideale simbolo di un’età adulta dove si smette di essere ‘giovani poeti’. E si diventa ‘poeti in carriera’.
Mi ero ripromesso di non parlare degli autori selezionati dall’Illuminista, alcuni dei quali ho peraltro recensito e letto in tempi passati. Il problema è a monte e non riguarda loro. Non mi interessa dimostrare che alcuni di questi poeti sono difficilmente distinguibili l’uno dall’altro quando leggono in pubblico i loro testi. Non è questo il problema. Il problema è nelle premesse ‘teoriche’ su cui l’antologia dei Ricercatori mi pare fondata, e cioè l’eterna lotta fra lirismo e antilirismo, con l’aggravante di risolversi in una professione di non poetica, in un ibrido a metà strada fra la militanza e la pretesa descrizione di un status quo dell’emersione sociale. Parafrasando alcune pagine di Pedullà (Walter), i retaggi di una tradizione e di un metodo di conoscenza e incardinazione del presente, oggi denominati poesia di ricerca, stabiliscono che “alcuni temi o metri o suoni sono” (anzi devono essere) non tanto, o forse non ancora, “impoetici”, quanto non meritevoli di attenzione alcuna. L’unica certezza, il marchio doc, l’elemento unificante alcuni degli autori selezionati dall’Illuminista, sembra essere dato da una disidentificazione, che sovente deborda nel cervellotico, nella teorizzazione della ‘poetica’, o dell’ ‘esperienza’, contestuale al ‘fare poesia’ e talora, presso quegli stessi autori, raggiunge risultati di valore (Zaffarano, Giovenale). Il modello di poesia di ricerca si pone, da un punto di vista sociologico, come espressione di un ‘mondo a sé’; da un punto di vista estetico, come mero sentimento dell’antisoggettivo, più che dell’antilirico; da un punto di vista linguistico, come ricerca, da parte del critico, di eventuali costanti, idonee a generare a posteriori la testualità. Si pone, infine, come un insieme piuttosto disordinato di voci poco propense a parlare dei fatti propri e tendenzialmente concentrate, salvo eccezioni, a modulare il proprio significante all’interno di modelli culturali degnissimi, ma certamente non ‘nuovi’ alle neoavanguardie storiche (Frene, Ventroni, Pugno, Riviello, la stessa Elisa Biagini).
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“Ascoltatemi tutti quanti. Io e i miei cacciatori stiamo sulla spiaggia vicino a una roccia piatta.
Se volete aggregarvi alla mia tribù venite a trovarci. Forse posso accettarvi. Forse no”.
Si fermò e si guardò intorno. La maschera di colore lo proteggeva dalla vergogna e dalla voce della coscienza, così poteva guardarli tutti in faccia. Ralph stava inginocchiato presso i resti del fuoco come un corridore pronto allo scatto, la faccia mezza nascosta dai capelli e dalla fuliggine. I Sammeric facevano capolino tutti e due da dietro una palma ai margini della foresta. Un piccolo urlava, scarlatto nel volto tutto rughe, presso la piscina, e Piggy stava in piedi sulla piattaforma, la conchiglia ben stretta tra le mani.
W. Golding, Il signore delle mosche.
Così l’usignolo si strinse forte contro la spina, e la spina gli toccò il cuore. (…) La voce dell’usignolo si faceva più sottile, e le sue piccole ali cominciarono a battere, e una pellicola gli calò sugli occhi. Sempre più tenue si faceva il suo canto, e lui si sentì soffocare da qualcosa nella gola.
Oscar Wilde, L’usignolo e la rosa.
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Ecco quello che voglio fare, adesso, è difendere la conchiglia. Sì esatto difenderla da tutti gli -ismi che ho dovuto ingoiare scrivendo questa specie di pamphlet. Fino a rottura occhiali e a pallore estremo, tanto da un preteso postlirico che si contrappone a una ritornante liricità, quanto da un nuovo manierismo, radicalmente asoggettivo ed eccezionalmente lirico, nel suo porre le certezze di una sintassi o di una testualità eternamente ‘nuove’. Quello che voglio fare, inoltre, è difendere l’usignolo, e non solo dal suo spirito autodistruttivo, o dal mito stesso della sua purezza. La gratuità e la libertà del gesto di scrivere una poesia, le aspettative di una generazione di ‘ragazzini di provincia’ che credono a quello che leggono, cercando di essere coerenti, e scrivono di ciò che ‘vivono’, pronti a diventare carne da macello, o a essere inglobati in uno dei tanti sottoboschi, o a divenire poeti di loro stessi e dei loro cani da difesa. Davvero non si sfugge alle istanza evoluzioniste, ordinanti e sistematiche di qualche funzionario della parola? Quale deve essere il contributo della critica al processo creativo? E soprattutto: deve esserci per forza, questo contributo? E’ qualcosa con cui ci confrontiamo a posteriori, rispetto alla nostra formazione culturale effettiva, al confronto con l’altro da noi e al personale, irripetibile rapporto con una ‘tradizione’ in termini di suo studio e uso a fini creativi? O è qualcosa che non avendo di certo formato una generazione al di fuori di pochi adepti, pretende di imporre un poetese degli anni 00, come pura operazione a circuito chiuso? La risposta a queste domande è il problema stesso del ‘potere’, all’interno di un mondo di nicchia, dove alla sacrosanta assenza di logiche di mercato suppliscono ancora, e almeno in parte, i curricula e i gruppi, e cioè le condizioni stesse di sopravvivenza di una critica letteraria degli anni 00.
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E. TESTA, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo novecento, Roma, 1999, pp. 17-32, 100-105 e 143-157
E. TESTA, Introduzione a Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di Enrico Testa, Torino, 2005, pp. XVII ss
L. VETRI, Anteguerra e secondo novecento, in L. ANCESCHI, Le poetiche del novecento in Italia,Venezia, 1990, pp. 297-31
O. WILDE, L’usignolo e la rosa, in O. WILDE, Il principe felice e altre storie (trad. it.), Milano, 1980, p. 51 s.
W.B. YATES, The Tower (1928), in W.B. YATES, La torre, Milano 2004, p. 84
P. ZUBLENA, Frammenti di un romanzo inesistente. La narratività nella poesia italiana recente, in Il canto strozzato, a cura di G. Langella e E. Elli, Novara, 2004, pp. 255 ss
P. ZUBLENA, Come dissemina il senso la poesia “di ricerca”,
in http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/speciali/poeti/zublena.html
testo copiato e salvato.
grazie.
si, marco, dacci il tempo di leggerlo con calma questo saggione, per poterci eventualmente esprimere in merito…
madonna quanta fatica per esprimere una critica basata su caratteristiche piuttosto evidenti. wow! sembra dirla lunga sul “clima” in cui si trova a scrivere questo intellettuale e autore marco mantello. peccato.
maman
Natalia grazie a te per averlo copiato e salvato
Certo Andrea, leggetelo con calma e speriamo che ne nasca un dibattito costruttivo.
per ora sono arrivato a un quinto del testo, e ho da dire solo questo: che a mio avviso nessuno ha espresso il “poeta-io” più del citato Antonio Porta: come il pugile esprime se stesso nel suo modo di combattere (chi può negarlo?), non intenzionalmente, ma inesorabilmente. espressione involontaria, non autocompiacente, ma totale. nella passione etica del cimento corpo a corpo con quel mostro-puttana che è il linguaggio c’è, a mio avviso, anche oggi, il massimo del lirismo possibile, il più commovente e disperante
Su Porta: questo forse conferma le possibili discontinuità e le sane incoerenze fra lo scrivere sulla poesia da parte di un autore e il suo fare poesia, andando avanti nella lettura del testo il tema ritorna…