Discorsi da bar
di Antonio Sparzani
la prima volta che andai ad Amsterdam, con un’amica, insistetti per cominciare la visita andandoci a sedere in un bar, con i tavolini all’aperto, dai quali si vedesse un qualche scorcio di città. Ma tu, dice l’amica, le città devi assaporarle? Sì, rispondo, così è il mio modo, stare seduti in un bar a guardare la gente come si muove cosa dice, i gesti, le occhiate, gli intercalari, i sorrisi, sentire i discorsi, scambiare banalità, o non solo banalità, così, con fare distratto, che sembra da nulla e invece.
O anche, com’è successo ad Amsterdam, quello di stare appoggiati al parapetto di uno dei tanti canali che attraversano tutto il tessuto urbano e guardare e chiacchierare con leggerezza, tanto che quella volta appunto mentre eravamo così appoggiati, vicini alla nostra Volkswagen rossa, un tipo comincia a farci segno da una finestra, ma come, proprio a noi, sì, fa quello con la testa ed il braccio, a voi, venite su un momento che beviamo una cosa, e poi tutto in inglese, o mezzo francese, perché di fiammingo noi non una parola, così come lui d’italiano, aveva visto la targa dell’auto e gli piaceva l’idea di attaccare bottone con degli italici propensi a perder tempo, e fu così che salimmo davvero, non c’era da pensar male, o comunque fummo fiduciosi e con ragione, chiacchiere e birra densa, sguardi e amicizia niente di scomposto, un ricordo molto piacevole da mettere nella cassetta delle cose da conservare volentieri, con cura.
Del resto cosa c’è di meglio del mettere in comune vicinanza e cibi e bevande, un rito dell’umanità vecchio come il mondo, mi immagino, ma non solo dell’umanità, le leonesse dividono ‒ e invitano i loro sfaticati maschi a dividere ‒ le gazzelle sbranate, noi dividiamo con vero piacere una buona bottiglia, o un buon tè, così come un buon pasto, che sono una specie di base per lo stare assieme.
Non sempre i discorsi da bar sono stati o sono quel che intendiamo ormai un po’ superficialmente con questa locuzione. Torno volentieri a parlare di questo chiacchierare, qui era Roma, il tavolino di un caffè di piazza Campo dei Fiori, all’ombra intensa del Nolano, intorno al quale io e altri amici abbiamo imparato non soltanto a conoscerci meglio ma anche a mettere in comune tante delle poche cose che sappiamo; perché anche la cultura è uno di quei cibi che amiamo mettere in comune, è una cosa bella da mangiare e condividere.
C’è un riferimento quasi ovvio al riguardo, ed è quello dei caffè viennesi e del loro non banale ruolo nella maturazione di quella straordinaria età della produzione letteraria, scientifica e artistica che fu la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Allo scopo di trasformare questo riferimento da stereotipo in oggetto di ricerca storiografica ‒ avvalorando così la mia passione per i discorsi da bar ‒ vi citerò una mezza pagina di un illustre storico statunitense della cultura europea, Carl Emil Schorske, che, nel suo Fin-de siècle Vienna ‒ politics and culture (Vintage Books, New York 1981, tradotto come Vienna fin de siècle ‒ la culla della cultura mitteleuropea, Bompiani 2004 (2ª ed.), libro per il quale prese il Pulitzer nel 1981), così scriveva:
« L’indole socialmente circoscritta dell’élite culturale viennese, con una sua inconsueta commistione di provincialismo e cosmopolitismo, di tradizionalismo e modernismo, offriva più che in altre grandi città un contesto coerente per lo studio dell’evoluzione culturale nel primo scorcio del ventesimo secolo. A Londra, a Parigi, a Berlino ‒ è la conclusione alla quale siamo giunti io stesso e i miei studenti nel corso di seminari in cui abbiamo esaminato ciascuna di queste metropoli intendendole come altrettante entità culturali autonome ‒ gli esponenti delle varie branche dell’alta cultura, fossero queste accademiche o estetiche, giornalistiche o letterarie, politiche o intellettuali, non si conoscevano tra loro, o quasi. Vivevano raccolti in comunità professionali, in stato di semisegregazione. A Vienna, invece, sino all’inizio del ventesimo secolo la coesione di questa élite si presentava molto forte. I salotti e i caffè erano istituzioni ancora assai vitali ove gli intellettuali di ogni categoria si scambiavano idee e opinioni, mescolandosi al tempo stesso a un’élite commerciale e professionale che andava fiera della sua cultura generale e della sua competenza in campo artistico. Per la stessa ragione a Vienna l’“alienazione” degli intellettuali da altri settori dell’élite, lo sviluppo a opera loro di una subcultura arcana, o di avanguardia, avulsa dai valori politici, etici ed estetici dell’alta borghesia, si concretarono più tardi che in altre capitali culturali dell’Occidente, ancorché si verificassero poi in forma più rapida e sicura. Molti fra gli esponenti culturali della generazione pionieristica di cui si tratta in questi saggi finirono con lo straniarsi dalla loro classe sociale parallelamente all’estrusione di questa dal potere politico: non da quest’ultimo e contro quest’ultimo inteso come classe dominante. Solo nel decennio che precede la prima guerra mondiale si ravvisa un preciso fenomeno di distacco degli intellettuali dall’intera società.»
E del resto basta leggere le memorie di Elias Canetti per rendersi conto di tutto quello che poteva passare nelle amabili conversazioni ai tavolini dei caffè e dei Heurigen viennesi. Soprattutto nel terzo volume (Il Gioco degli occhi, Adelphi 1985) questo aspetto è assai raccontato. Lasciatemi riportare qui cosa successe quando Canetti ricevette gli elogi di Musil per la recente pubblicazione del suo romanzo d’esordio, Autodafè (titolo originale die Blendung, “l’accecamento”, ma anche “l’abbagliamento”, “l’illusione”); l’antefatto è che Canetti, che aveva scritto il romanzo negli anni 1930‒31, aveva inviato una copia del manoscritto (“in tre grossi volumi rilegati in tela nera”) a Thomas Mann, che gliel’aveva subito restituita intatta “con una garbata lettera nella quale lo scrittore chiedeva venia spiegando che l’impegno era superiore alle sue forze”. “Fu un colpo molto duro. ‒ commenta Canetti ‒ Se non lo leggeva lui, chi altri avrebbe voluto leggere un libro così tetro?”
Questo ritardò naturalmente la pubblicazione del romanzo, che però venne finalmente pubblicato, quattro anni più tardi, nel 1935, con buon successo di critica. Ascoltate Canetti:
«Ora finalmente, nell’ottobre del 1935, il libro aveva visto la luce, e io avevo la ferma intenzione di mandarne una copia a Thomas Mann. La ferita che mi aveva inferto era rimasta aperta. Lui era l’unico che potesse guarirla [ … ] Mi rispose con una lunga lettera. Il suo carattere, la sua scrupolosa coscienza lo avevano spinto a riparare a quel ‘torto’. La sua lettera, dopo tutto quello che era successo, mi rese felice.
Nello stesso periodo il romanzo ebbe anche un’eco pubblica, molto pubblica, poiché nella Neue Freie Presse apparve la prima recensione. Era un articolo traboccante di elogi, ma firmato da uno scrittore che io non stimavo e che era difficile stimare. Fece tuttavia il suo effetto, poiché nello stesso giorno (o fu il giorno dopo?), quando entrai al caffè Herrenhof, 1 Musil mi venne incontro con una cordialità che non gli avevo mai conosciuto. Mi tese la mano e non solo sorrise, era addirittura raggiante, e ne fui tanto più colpito perché ero convinto che in pubblico non si permettesse mai un atteggiamento simile. Disse: « Mi congratulo con lei per il suo grande successo!». Aveva letto soltanto una parte del romanzo, ma se continuava così, disse, quel successo me l’ero meritato. Nell’udire dalla sua bocca quella parola, «meritato», fui preso da una specie di ebbrezza. Aggiunse altre osservazioni molto positive, ma preferisco non riportarle, perché forse, con la piega che presero poi le cose, Musil avrebbe anche potuto ritirarle più tardi. Furono parole che mi fecero perdere la testa. All’improvviso capii quanto avessi contato sul giudizio di Musil, forse non meno che su quello di Sonne. Ero inebriato e confuso, dovevo essere molto confuso perché, altrimenti, come avrei potuto commettere la più penosa delle gaffes?
Lo ascoltai fino in fondo e poi dissi subito: «E immagini un po’, ho anche ricevuto una lunga lettera da Thomas Mann!». Musil cambiò fulmineamente, fu come se con un balzo si fosse ritirato in se stesso, la faccia gli diventò grigia, era ridotto al solo guscio. «Ah sì!» disse. Mi diede la mano a metà, così che potei stringergli soltanto le dita, e si voltò bruscamente. Così fui congedato.
Il suo fu un congedo definitivo. Musil era un maestro nell’imporre le distanze, aveva una lunga pratica in quell’arte: se respingeva una persona, la respingeva per sempre. Nel corso dei due anni successivi mi accadde qualche volta di vederlo in mezzo ad altra gente, ma non mi rivolse mai la parola pur mostrandosi sempre cortese. Non si lasciò più attirare in una conversazione con me. Se qualcuno faceva il mio nome, se ne stava zitto come se non sapesse di chi si parlava e non avesse nessuna voglia di informarsi.
Che cos’era successo? Che cosa avevo fatto? Qual era la colpa imperdonabile da cui non poteva più assolvermi? Avevo pronunciato il nome di Thomas Mann nello stesso istante nel quale lui, Musil, mi esprimeva il suo apprezzamento. Avevo parlato di una lettera di Thomas Mann, una lunga lettera, subito dopo che lui, Musil, si era congratulato con me e aveva motivato le sue congratulazioni. Doveva supporre che io avessi mandato il romanzo a Thomas Mann, come a lui, con una dedica altrettanto piena di ammirazione. Non conosceva l’antefatto e non sapeva che il primo invio era avvenuto già quattro anni prima.» (ediz. it. pp. 315‒16).
Discorsi da bar, per l’appunto.
- al 10 della Herrengasse, pieno centro di Vienna, fondato nel 1918, divenne uno dei caffè letterari più frequentati della città nel ventennio tra le due guerre. Chiuso nel 1961.↩