[2] LE VIE DEI GRANDI CONVOGLI di Vaclav Janovič Dvoržeckij
[ ⇨ parte prima ]
Dmitrij Dmitrievič Šostakovič [1906-1975]
Opus 40 Cello Sonata No. 2 in D min [1934] I Allegro non troppo
Introduzione, traduzione e cura
di ⇨ Anna Tellini
Capitolo XII: Libertà-Schiavitù
E’ difficile descrivere le agitazioni e le ansie degli ultimi giorni. Anno 1937! Arrivano “fittamente” nuovi convogli sotto scorta. Inizia una nuova “ondata” di avvenimenti. C’è ansia… impossibilità di capire, le voci sono diverse: “fanno tornare quelli che sono liberati”, “non libereranno l’articolo 58”, “aggiungono nuovi termini, tolgono gli sconti di pena…”.
Signore! Né sonno, né cibo! Un giorno! Un’ora! Un minuto! sono come anni! Finalmente, chiamano: “Col bagaglio, sei libero!”
Voi avete mai sentito queste parole?! Ormai non ci credi… No! Non può essere!
Ho firmato. Ho ricevuto il PASSAPORTO! Quinquennale! Denaro, una razione di quattro giorni (l’ho detto, che sono felice!)… Firmare ancora.
E questo cos’è? “Meno cento”! Non si può, dice, abitare nelle grandi città, vicino al confine, vicino ai porti marini, nei centri industriali…
Ma dove abitare? Là, dove concederanno la residenza.
Il biglietto l’hanno dato fino a Kiev. Sono partito…
Come ho viaggiato? Come nella nebbia… Un torpore tale, come se non fossi io, come se tutto questo accadesse a qualcun altro. Mi stupivo soltanto, quando le guardie verificavano i documenti… Alcune volte prima di Leningrado. Leningrado, Mosca, Kiev, IRPEN’! A CASA!
Mio padre… Mia madre… I pini intorno al podere. Come sono cresciuti! Li ho messi a dimora io dodici anni fa. Qui mamma è venuta spesso, li ha innaffiati di lacrime… è cresciuto un bosco! Signore!!! Sono a casa!… Ecco i miei disegni degli attori del cinema: Mary Pickford, Gloria Swanson, Harry Piel. La collezione di banconote, libri, libri… Sfiorare… toccare. Mio padre è molto vecchio chissà perché… eppure, mi pare, non ha ancora 70 anni.
Libertà! Non ci sono abituato affatto, affatto… Dunque, puoi andare dove ti pare? L’ho fatto! Sono andato per la strada, sono passato per un campo, per un bosco, mi sono steso nell’erba, ho fissato l’eterno cielo azzurro, le nuvole vive, che si liquefanno. Mi sono alzato, ho camminato di nuovo. Sono andato avanti, senza scopo, senza guardia, senza scorta, senza sorveglianza, senza permesso!…
Di sera mia madre mi ha detto chissà perché sussurrando: “Qui, quando ancora non c’eri, sono venuti dei tipi, hanno chiesto…”. Hanno chiesto… Eccoli, i “brividi all’addome” che conosci bene! Senza permesso di soggiorno… Sì… Eccoli per te anche senza scorta…
Di notte sono andato in un campo, ho rubato della paglia, l’ho portata per un giaciglio, ho falciato dell’erba per la capra. Dovrei legare la capra su una radura al piolo – la corda non c’è… Aspettate, miei cari, miei familiari, tutto sarà, farò tutto!
Non ho fatto niente, assolutamente niente…
A Kiev il capo della direzione cultura mi ha detto che da noi non ci sono disoccupati, nei teatri invece per me non ci sarà più posto. Sono andato a Belaja Cerkov’, cento chilometri da Kiev, là è permessa l’iscrizione all’anagrafe. Mi sono proposto a teatro. Sono contenti. Sono andati all’NKVD a chiarire… Hanno chiarito… E’ possibile, ma… ma il regista non vuole rispondere di me: ha famiglia… A Irpen’ sono venuti di nuovo in mia assenza.
Sono andato a Bariševka. Mi sono sistemato a lavorare come meccanico in un’officina di riparazioni. Dopo un mese la padrona, dove affittavo un angolo, me ne ha privato: erano venuti dalla milizia. Sono tornato ad Irpen’: “Figlio caro, vattene! Qui chiedono di te in continuazione. Tutta Irpen’ sa che sei tornato. Hanno chiesto dove sei, ma io non lo so”.
Sono partito per Charkov. Là studiava nell’istituto di educazione fisica mia sorella, viveva nella casa dello studente. Andai dal capo della direzione cultura.
– Serve un attore?
– Certo! Ora vi presento al direttore e al primo regista di un buon teatro -. Telefonò: – Vi ho trovato un buon attore. Venite!
Vennero: il direttore Čigrinskij, il regista Mal’vin.
– Benissimo. Potete andare in tournée?
– Dove volete!
Sono andato. Aveva tutta l’aria che mi avesse raccomandato il capo della direzione cultura! Non mi hanno chiesto niente. Ed io non ho detto niente. Il teatro operaio-colcosiano n°4 (RKT-4). Lavoro!
Kupjansk, Debal’cevo, Doneck. Anna Karenina. Slava. Ricevo una paga! Vivo! Ai genitori non scrivo. Sanno che sto a Charkov, da mia sorella. Mamma ormai non piange. Là ha un nipote, Leopol’dik, di 5 anni, e la nonna il suo cuore l’ha dato interamente a lui – è una consolazione. Grazie a dio!
Passò un mese, arrestarono quello che mi aveva raccomandato. Mi invitò il direttore.
– Da dove venite?
Io raccontai tutto.
– Per amor del cielo, andatevene! Prendete due settimane di paga e andatevene.
Partii per i sobborghi di Mosca, fermata del metro “Insegnamenti di Il’ič”, là abitava una mia cugina, mi ospitò. Guadagnavo qualcosa nelle dacie. Riparavo i tetti, le staccionate, spaccavo la legna. Una volta ho messo il dito sulla carta geografica dell’Urss, cercando di puntare più in alto e più a destra, e sono capitato ad Omsk.
Come sono andato e come mi sono organizzato è impossibile dimenticarlo!… Nessun bagaglio, tutto addosso, denaro – tre biglietti da cinque in tasca, un biglietto per un vagone collettivo. Tre giorni nella cuccetta di sopra. La cugina mi aveva rifornito di alimentari per il viaggio. Niente da dire. Bene.
Il treno arrivò di notte. 30 sottozero. Portavo degli stivaletti, un cappotto “foderato di vento”, in testa un cappello…
La stazione è strapiena di passeggeri, non c’è da sedersi. Fino alla città, salta fuori, sette chilometri. Un tram. L’ultimo. Bisogna andare. Non c’è, si capisce, nessun indirizzo. Non importa: l’”angelo custode” aiuterà! Le pareti del tram sono coperte di uno spesso strato di ghiaccio. Le porte non si chiudono. I piedi gelano, bisogna pestarli tutto il tempo. Il tram è vuoto. Siamo arrivati.
Buio. Non c’è nessuno. In lontananza un lumicino. Di corsa là! Salta fuori che è una bettola! Non è ancora chiusa! Le sedie sui tavoli con le gambe all’insù – puliscono. In un angolo qualcuno dorme dietro il tavolo… L’inserviente al banco fa schioccare il pallottoliere.
– Chiuso! Chiuso!
– Un minuto soltanto! Permettetemi di riscaldarmi! Forse c’è del the?
L’avventore dietro al tavolino cominciò a rianimarsi.
– Amico!… Bevi con me! Tutti i parassiti mi hanno abbandonato! Ma che, non sono un uomo?
In generale, con lui ho bevuto e mangiato un boccone e sono andato a passar la notte da lui. Venne fuori che era il gestore della Casa del colcosiano. Non l’ho più visto, ma ho vissuto gratis in questa Casa una settimana intera! Ecco che miracoli fa l’”angelo custode”!
Ad Omsk mi registrarono, e mi presero al TJUZ 1, benché avessi raccontato tutto di me.
Ormai declamavo nel seggio elettorale:
Conosciamo gli uomini e i fatti li vediamo,
Ma la verità col cuore la sentiamo.
Per il cammino di Stalin, diritto come una freccia,
Noi tutti, come un sol uomo, votiamo!
Da “Insegnamenti di Il’ič” ricevetti una lettera. Salta fuori che ormai chiedevano anche là…
Nel teatro di Omsk ho lavorato molto e con successo. Ad Omsk mi sono sposato. Nel 1939 è nato mio figlio Vladislav. Ad Omsk avevano un buon atteggiamento nei miei confronti, ma… far amicizia con me era cosa non encomiabile, che devo dire, non particolarmente “prestigiosa” e priva di rischi… Di me sapevano tutto. Io non ostentavo niente, ma non nascondevo neppure. Nei questionari scrivevo la verità: “Provenienza sociale: nobile”. “Fedina penale: Commissione speciale dell’OGPU 2, articolo 58, condanna a 10 anni”. Ciò fa di te non un Eroe del Lavoro Socialista, non un decorato, ma un “nemico di classe non fucilato”, è evidente. Molti, soprattutto i dirigenti, la pensavano così: “Meglio che mi accusino di eccesso di vigilanza, che di assenza di senso di classe”. Tempi cupi. Era annunciato un “inasprimento della lotta di classe”, per questo agli “elementi estranei” si riferivano, per dirla eufemisticamente, in modo non molto benevolo.
Partii per Taganrog: sempre Siberia, Nord, freddo – tanti anni! E’ comprensibile il desiderio di riscaldarsi al mare del sud. Là ho lavorato un anno con successo! Mi chiamarono alla milizia, cancellarono il passaporto e ordinarono, in quanto “trasgressore della legge”, di andarmene dalla città in ventiquattro ore. “Mi sono scaldato”. Risulta che la città è diventata “chiusa”! Pensare che lavoravo bene, con successo, in modo interessante. Ero regista ed eroe a teatro! Che fare, grazie di non avermi messo dentro…
Il “trasgressore” ritornò ad Omsk. TJUZ, teatro del dramma. Di nuovo un lavoro interessante, creativo, successo, l’amata famiglia, possibilità di aiutare i genitori. Prospettive!
E d’un tratto la guerra! Sfollati, razione insufficiente, mercato vuoto. Genitori e sorella a Kiev, il legame è perso… Ma in teatro va meravigliosamente bene! Sono impegnato in tutto il repertorio:
“Mio figlio”, “Fiandra”, “Uriel Acosta”, “Kutuzov”, “La notte degli errori”, “Un ragazzo della nostra città”, “Primavera a Mosca” 3. Partner nuovi, magnifici: Vachterov, Jačnickij, Luk’janov. Il teatro Vachtangov è nel nostro edificio. I registi sono Simonov, Dikij, Ochlopkov 4. Gli spettacoli vanno in scena a giorni alterni: da loro Kutuzov– da noi Kutuzov, da loro la prima di Molto rumore per nulla, da noi la prima de La notte degli errori. E poi il circolo dei dilettanti, e anche a casa c’è molto da fare. Mia moglie è maestra di ballo a teatro e nella Casa dei pionieri. Vladik ha due anni. Era difficile, ma interessante e bello…
Abitavamo nel parco. Alla lettera. L’ex casa del governatore è la Casa dei pionieri, e nel parco della Casa dei pionieri c’è l’ex casetta del giardiniere del governatore. Una buona casetta, di due stanze, un piano, senza acqua corrente, con riscaldamento a stufa. Una stanza la cedemmo agli sfollati. La cucina era comune. A noi questo “appartamento” l’avevano dato perché guidavamo i circoli della Casa dei pionieri: drammatico e di danza. (Ricordo, facevo le prove di Sneguročka di Ostrovskij. La piccola Veročka: “Mamma! Voglio un amore! Un amore da fanciulla!”. La direttrice della Casa dei pionieri insorse: “Vietato”. Ora questa Veročka Michajlina è un’artista del popolo).
Ecco là ricevetti la citazione: “Lasciare la città in 48 ore”. La dirigenza del teatro si è agitata: il repertorio minacciato di fiasco.
– Andate, datevi da fare! Chiedete che non vi sloggino! (Ma loro non lo fanno: temono quel che ne potrebbe derivare).
A farla breve, scrissi una dichiarazione con preghiera di concedermi di restare in teatro. Ho preso, dico, piena coscienza di tutto, mi sono corretto, non lo farò più…
Ma bisognava partire. Per la provincia. Arrivare-recitare! Non sono stato capace di combinare le cose…
Vennero di giorno. In tre. Stavo lavando il bambino in una bacinella. Ordinarono di sedermi da parte. Perquisizione. Il ragazzino bagnato piange.
– Permettetemi di vestire il bambino!
Venne la suocera, portò Vladik in cucina. (Lo vedrò solo dopo 5 anni). Durante la perquisizione sparpagliarono tutti i libri, si impadronirono delle lettere dei genitori e delle fotografie… della moglie. Nuda. Aveva un fisico magnifico, quale doveva avere una ballerina, passata attraverso la scuola del teatro Bol’šoj. La fotografavo io stesso, avevo una “Fotokor”. C’erano molte pose, ma queste, “sconvenienti”, le conservavo in un libro. Presero anche quelle. Ho protestato: “Non avete il diritto! E’ una cosa personale, intima, non riguarda nessuno!…”. Poi il giudice istruttore coi suoi aiutanti ha guardato e riguardato queste pose, si è scambiato impressioni e annotazioni ciniche… Non ho potuto dargli un pugno in faccia – ero legato alla sedia. Potevo solo piangere per l’impotenza. E lo ricordo! Lo ricordo per tutto il tempo, per tutti gli anni di pene, tormenti, dolore – lo ricordo e non perdono! Non posso perdonare questa offesa! Se mi avessero battuto con un flagello di gomma per il fatto che avevo pronunciato una parola non russa, a loro incomprensibile – “riabilitano” -, si potrebbe perdonarli: sono degli ignoranti! E poi, proprio loro non ammettevano il non riconoscimento della colpa! “E’ una calunnia contro gli organi! Da noi non arrestano per niente!”. Per questo, se dichiaravi di non essere colpevole di niente era già pronta sia la condanna, che l’articolo… Tutto questo è barbaro, raccapricciante, doloroso…
Di nuovo l’articolo 58, di nuovo la “commissione speciale”, la differenza è solo nella condanna: la prima volta condannato a dieci anni, ora a cinque.
Di nuovo la cella di isolamento.
E, per quanto strano possa sembrare, di nuovo questo sorprendente sentimento di libertà interiore. A dispetto delle inferriate, le pareti, gli interrogatori, le false accuse, le minacce, i tormenti. Io tutto il tempo cercavo e trovavo in me la possibilità di osservare tutto questo appena appena “a parte”, di vedere la “mise en scène”, il “dialogo”, lo “sviluppo dell’azione”, di sentire me stesso nelle “circostanze date”.
Ma cosa vale la sola coscienza del fatto che tu stesso sei libero di disporre della tua vita! Libero di decidere se vivere o non vivere. Al recluso non danno una scelta del genere: confiscano la cinghia, le bretelle, tagliano i bottoni di metallo, tolgono le stringhe, mantengono l’illuminazione perenne, osservano attraverso lo spioncino, perquisiscono costantemente, non permettono di dormire di giorno, di notte molestano. E tutto questo, per quanto sembri strano, per privare il recluso della possibilità di suicidarsi. Ed ora immaginiamo che si sia riusciti (è inverosimile!) a nascondere da qualche parte, mettiamo, nella manica, nel polsino della camicia, le lamette da barba! Sì? Ciò creerà un esultante senso di indipendenza! E’ una sensazione di libertà illimitata! “Con tutte le vostre forze mi tenete in prigione e non sapete che io in qualunque momento, dipendente solo da me, posso liberarmi dal vostro potere e andarmene per sempre!”. Effettivamente io ero riuscito a nascondere qualcosa nel polsino della camicia: sulle scarpe un tempo c’erano dei gancetti metallici per le stringhe. Al momento del controllo i gancetti erano stati strappati. Uno casualmente era rimasto. L’ho tolto, raddrizzato, affilato sull’impiantito di cemento, l’ho nascosto e sono diventato indipendente. Cosa? Avevo molta voglia di morire? Niente affatto! Io volevo vivere. Ma non volevo che questo dipendesse da qualcuno. “Io!”. “Io stesso! Io voglio così! Io posso!”.
Mi muovevo molto – misuravo cinque, dieci chilometri al giorno. Lavoravo senza fallo. Come? Ad esempio, rammendavo i calzini. Un’occupazione? Oh, era una procedura complessa e interessante! In primo luogo, occorre trovare e conservare un “ago” – una lisca adatta. In secondo luogo, estrarre dei fili da questo stesso calzino, smagliando un po’ la parte superiore. Quindi il calzino si indossa su un cucchiaio di legno, poi con l’”ago” si fa un buchetto nel punto necessario, il filo con la punta lo passi con molta attenzione nel buchetto e lo tendi.
Poi la stessa cosa – al rovescio. E ancora… E ancora… Molte volte. E poi trasversalmente si costruisce una trama a quadrettini. Infine, dopo molti rimaneggiamenti, il classico rattoppo è pronto, di 5 centimetri per 5. E sono passati dieci giorni! Anche questa era una forma particolare di protesta, una forma di sfida: non era permesso lavorare. Il recluso doveva sentirsi tutto il tempo irrimediabilmente oppresso, solo, schiacciato, impotente, debole, colpevole di tutto, di qualunque cosa lo incolpasse il giudice istruttore! Sistema infernale di azione sulla psiche del prigioniero! Mentre qui, improvvisamente, c’è una persona sicura di sé! Si distrugge il sistema! Ciò aiutava a sopravvivere, a conservare la dignità umana, ad essere pronti ad affrontare qualunque difficoltà, qualunque imprevisto.
Quando, sei mesi dopo la fine dell’istruttoria e l’annunzio della sentenza della commissione speciale (cinque anni di lager), mi trasferirono in un “carcere di transito”, dov’erano raccolti più di un centinaio di zeki i più diversi, subito “interpretai” il ruolo dello starosta [rappresentante dei detenuti, N.d.T.] e non senza sforzi, s’intende, “afferrai il potere”. Mi sistemai sul tavolo (con due aiutanti di sotto)! – l’unico posto, dove si poteva giacere. Mentre tutti gli altri sedevano sul pavimento, schiena contro schiena, com’è abitudine.
A dire la verità, dopo dieci giorni, quando mi convocarono per un trasporto sotto scorta composto di ulteriori quaranta persone, ma poi dopo due ore mi fecero tornare per il solito “inadempimento” (o non erano bastati i mezzi di trasporto, o non c’era la scorta), il “potere” nella cella era stato già preso, e io sedetti sul pavimento ancora per una settimana, finché con il convoglio seguente non mi cacciarono infine in colonia.
Nel “carcere di transito” c’era la possibilità di far conoscenza con degli uomini. Per la maggior parte – intellighenzia. Attempati. Pedagoghi, ingegneri, militari. Molti tedeschi, evidentemente, dalla regione. Malati, sporchi, spaventati, affamati…
L’istruttoria non fu brutale, come un tempo. Furono ammesse persino delle “chiacchiere”. Il giudice istruttore “condiscese” a raccontare gli avvenimenti al fronte, in particolare la disfatta dei tedeschi sotto Mosca.
D’un tratto mi diede lettura delle deposizioni dei miei amici-attori. Tutti mi condannavano e calunniavano: “… diceva che sui giornali scrivono che in Germania distribuiscono cento grammi di burro, mentre da noi, dice, questo non c’è …diceva che il nostro comando inetto non aveva saputo organizzare la difesa …come ha potuto Stalin permettere l’inatteso attacco dei fascisti …diceva che al mercato non ci sono più patate…”. Ricordo che la sola Nadja Sacharnych, attrice del TJUZ, aveva detto solo bene di me. Il giudice istruttore mi scherniva: “Su! Leggi! E’ la tua amante, eh?”. E mi ha “affibbiato” la diffusione di “voci disfattiste” e l’“agitazione contro il potere sovietico”. Ma io mi sono meravigliato, a che gli serviva la testimonianza della Sacharnych? La lasciarono nel “fascicolo”. A che pro?…
Di tremendo durante l’istruttoria ci fu una cosa soltanto: la finestra alle spalle del giudice… La stanza è al quinto piano. Sedia, tavolo, giudice, e dietro la sua schiena una grande finestra. Ecco sono proprio là, dietro questa finestra, tutto il mio tormento e il mio dolore. Il giudice non sospettava nulla, l’ho privato di questa soddisfazione… Il fatto è che la “casa grigia” dell’NKVD si alzava come farlo apposta di fronte al giardino della Casa dei pionieri. Nel giardino – una casetta, nella casetta – una finestrella, e nella finestrella – una luce… Vedo – è casa mia! E’ la mia luce. Là c’è Vladik… Gli ho appena fatto il bagnetto in una bacinella…
Signore! Sopporterò anche questa prova! Bisogna vivere! Assolutamente bisogna vivere!
Capitolo XIII: gli ITLK 5 di Omsk.
1942. Lager. OLP-2 (Punto lager distaccato n° 2). Quadro usuale, conosciuto. Le stesse baracche, i tavolacci… Gli stessi controlli, cambi sentinelle, ritirate, “perquisizioni”. La stessa razione e la stessa brodaglia. Moltissime persone. Affollamento, sporcizia, freddo, fame. La zona è illuminata dall’elettricità, e nelle baracche – lanterne “pipistrello”, piccole stufe di ferro, tavolacci a tre piani, pagliericci. Gli uomini sembrano tutti identici, vestiti male, coperti di sporcizia in modo identico. Poche persone colte, pochi criminali. L’impressione che non si tratti neppure di uomini – “bestiame” abbrutito, privo di volontà. Non è d’uso chiedere: “Per cosa?”. Ed è così chiaro che qui non ci sono né assassini, né rapinatori, né in generale criminali – questi o li fucilano, o li tengono in un altro posto, qui è un lager di lavoro, “lavoro coatto”. Lavori comuni: scarico dei vagoni ferroviari, scavi sotto le fondamenta degli edifici, costruzione di depositi di ortaggi, strade, terrapieni, sistemazione dei tubi della fogna.
Nel lager ci sono molti tedeschi. (Nella regione c’erano delle colonie tedesche). Molti scansafatiche, “malversatori”. Erano in vigore severi ukazy sia del tempo di guerra, che del sette agosto – un ukaz in base al quale per la raccolta delle spighe piccole dopo la mietitura davano dieci anni! Servivano degli operai gratuiti. Deboli risultavano questi operai… La guerra, la fame susseguente. Nel lager solo parole d’ordine: “Tutto per il fronte!”. Ma di pane ne davano 200 grammi e la brodaglia – acqua e cavolo. Si gonfiavano per la fame. Si muovevano a fatica. C’erano moltissimi “scarti”, non erano capaci di sollevarsi dai tavolacci, morivano. La baracca dell’ospedale non conteneva tutti. Pellagra e scorbuto falciavano la gente. Non si faceva in tempo a portar fuori i morti. Cominciarono a “mettere agli atti” – lasciar andare i dochodjagi 6 in libertà, ma loro non possono muoversi! Non fa niente, purchè oltre il portone… I locali tuttavia talvolta li raccoglievano i parenti, ma i forestieri così rimanevano là, dove avevano fatto in tempo a strisciare, di loro ormai si occupava un altro servizio. E la crudeltà era giustificata dalla “situazione bellica nel paese”.
Accadeva che, andando al lavoro, una colonna passasse accanto a un deposito di ortaggi. I rimasugli di una patata marcia biancheggiano nell’oscurità per l’amido essiccato, tutti fissarono con avidità, arditi – uno, un altro – si slanciano, raccattano questo putridume, lo cacciano dentro le tasche, in bocca… Gli sparano addosso: “Indietro!”. La scorta esegue il suo compito: “Un passo a destra, un passo a sinistra – l’arma viene usata senza preavviso…”. Qualcuno rimase là, squarciato da una pallottola. Non fa niente – “mettono agli atti”. Anche questo è fronte, solo che ai loro cari il “telegramma” non lo inviano.
Il lager è non lontano dalla città, si vede la luce, si sentono le sirene delle officine. Per il cambio è presto – fa ancora buio. Tempaccio, pioggia. Dove si va oggi? Non si sa. Vanno in silenzio. Strascinano i passi, respiro pesante, tosse…
E all’improvviso dall’oscurità una voce femminile lontana: “Ko-olja-a”, e ancora:”Ko-o-o-olja-a!”, e ancora una: “Iva-a-an!”. Quello che va davanti ha alzato la testa, si è fermato:
“Ohi… Marija! Lei…”. E là: “Iva-a-an!” – “Ma-ša-a!”. “Interrompere le conversazioni!”. Sono andati oltre a trascinarsi nello sporco… E’ finito l’”appuntamento”. Ma arriva ancora: “Iva-an!” – “Ko-o-lja-a!” – “Že-e-enja-a!”.
Come vivono, là, le mogli? Come se la cavano? E i marmocchi? Visite non ne concedono, e le lettere le permettono solo dopo un semestre.
Sono arrivati. Scaricare laterizi! Bene. Scavare l’argilla bagnata è più difficile. Ma le gambe alle ginocchia si piegano con difficoltà – sono tumefatte… L’alba. “Comincia!”. “Davàj!”. Parola pesante, dolorosa questa: “Davàj!”. E si è radicata questa parola come un flagello tale nel nostro linguaggio, nella nostra vita di forzati! “Davàj!”. Con tutta l’oscenità del lager, con la bestemmia, attraverso tutti gli sterri e i disboscamenti, come appello al “radioso avvenire”: “DAVÀJ!”.
Qui c’è la garitta dell’addetto allo scambio, la stufa, il carbone c’è, fa caldo. La guardia ha permesso di andare a riscaldarsi. Hanno trovato un secchio, dell’acqua. Gli uomini hanno portato un cagnolino. Lo hanno attirato: “Cagnetto! Cagnettino!” – lo hanno vezzeggiato, carezzato col palmo, e… ucciso. Semplicemente: con la testa contro una rotaia. L’hanno scuoiato – e nel secchio! In cinque: uno cuoce, gli altri lavorano, a turno. Il sale l’hanno trovato dall’addetto allo scambio. L’hanno cotto, mangiato tutto in cinque e di brodo ne hanno mangiato mezzo secchio senza pane. Come li invidiavano tutti!! Che c’è? Con i cani bolliti, si dice, gli uomini curano la tubercolosi. E gli zeki affamati mangiano quel che vuoi! Gli zeki sono uomini anche loro!…
In tutto mi è toccato passare quattro mesi ai lavori comuni. Il ripartitore “ha trovato” me e mi ha mandato come disegnatore nell’officina Tupolev. Eravamo dieci là. Due soldati di scorta ci portavano quotidianamente in uno studio vuoto, dove disegnavamo vari dettagli su indicazione di un ingegnere senza scorta che veniva da noi raramente. Dal lager cinque chilometri. La passeggiata di due-tre ore era molto utile. Sul posto ci cuocevamo da soli una zuppa di “razione secca”. Non c’era verso che potessimo rispettare la norma – mangiavamo in due giorni tutto quel che era assegnato per dieci. Ma la kaša del mattino e della sera ce la davano nel lager, il pane pure. Vivevamo. Tupolev non l’abbiamo visto neanche una volta, il cognome dell’ingegnere-costruttore non lo ricordo, ricordo l’ingegner Otten, che anche lui veniva da noi. Era dello CAGI 7 , recluso già da quindici anni, ma nel lager di Omsk era venuto di recente. Ho lavorato come disegnatore per tre mesi, finché non ho organizzato una cultbrigata.
La cultbrigata centrale si è creata per gradi. Il KVČ talvolta promuoveva delle iniziative nel club. Che bisognasse dar lettura di una qualche ordinanza, o fare una relazione, ciò doveva finire sempre con un’attività artistica dilettantistica. Una volta mi sono prodotto in una lettura di Majakovskij e proprio allora ho adocchiato alcuni partecipanti. Kan-Kogan, il direttore del KVČ, mi ha elogiato. Ed io gli ho proposto di preparare un programma per l’anniversario dell’Ottobre. Fui liberato per una settimana da qualsiasi lavoro, scelsi gli interpreti, misi insieme un programma e cominciai le prove. Ivan Tuljakov, suonatore di armonica, Vitalij Bamnych, Lida Tarasova, Šešin: ecco il nucleo della futura cultbrigata. Dopo alcune esibizioni fortunate seguì l’ordinanza del direttore “sulla creazione di una cultbrigata centrale sotto la guida dello zek Dvoržeckij”.
Ci liberarono del tutto dai lavori comuni, assegnarono una baracca a parte, distribuirono un nuovo corredo, mi concessero di scegliere le persone da tutti i nuovi convogli, di comporre il repertorio e di agire.
E noi cominciammo ad agire. Cinque. Dieci. Venticinque persone! Riunii degli attori, dei musicisti, dei letterati, dei cantanti, dei danzatori (uomini e donne, giovani e vecchi), e, non per vantarmi, dirò che ho conquistato sia il lager, che la direzione. Ci elogiarono, incoraggiarono, premiarono e, certo, sfruttarono senza riguardo, ci inviarono in “tournée” in tutti i lager e le colonie della direzione di Omsk. Questo non ci disturbava. Eravamo necessari – questa è la cosa principale!
Ci esibivamo dappertutto con successo, ci aspettavano dappertutto. Questo mi procurava gioia, vedevo che la nostra attività alleggeriva la vita alle persone recluse.
Ci esibivamo nelle baracche, nei reparti, nei cantieri, sui campi durante i lavori agricoli, nei club, nei cambi, all’andata e al ritorno della gente dal lavoro. Sempre di più e di più mi sono introdotto nell’organizzazione dell’esistenza quotidiana dei reclusi. Loro lo vedevano, lo sentivano e lo apprezzavano.
Già dopo, quando la nostra brigata si era fatta più consistente, comparve “Zio Klim”. Ben presto diventò non solo il numero più popolare, ma si trasformò in un “richiamo”, come dire, diventò un “difensore”, un “simbolo di verità”. A “zio Klim” si rivolgevano per aiuto, minacciavano di chiamare “zio Klim”, aspettavano un suo intervento e un suo sostegno. Era un raëšnik 8), inventato da me sui temi attuali e cocenti del posto. Ogni volta ex novo. Di solito proprio nel finale dell’esibizione tiravo fuori dalla tasca una carta e dicevo: “Ecco ho ricevuto di nuovo una lettera da Zio Klim!”. E già nella sala applausi, strilli, risate… Comincio a leggere:
Buongiorno zeki, amici cari!
Siete degli uomini, non dei somari…
Presto a voi auguro la libertà,
In pochi ormai sono rimasti là.
Oltre la zona la fila c’è
Per venir da noi, chissà perché.
Male, si vede, là vive la gente,
Che qui si sta meglio le viene ormai in mente.
Ma penso – e ognuno di voi lo capirà:
Si vive male sia qui che là.
Che la guerra ci opprime quattr’anni son già!
Finirà la guerra – verrà la libertà!
[…………………………………………………]
Col tempo il mitico “Zio Klim” si trasformò in una persona reale: in me. Cominciarono a chiamarmi zio Klim, mi scrivevano lettere, si rivolgevano a me con reclami…
Gli aspri interventi critici dal palcoscenico (ai buffoni e ai commedianti tutto è permesso) aiutavano a migliorare da qualche parte il cibo, ad alleggerire il regime e così via. Io francamente mi astraevo dalla consapevolezza di trovarmi in un lager, di essere senza colpa alcuna, ingiustamente strappato alla famiglia, privato della libertà, del teatro… Io vivevo! Mi occupavo della cosa preferita. Credevo, vedevo che stavamo aiutando a superare il sentimento di disperazione, il senso di schiavitù. Rincuoravamo le persone e noi stessi acquisivamo un senso di libertà. Tutto per il fronte, tutto per la vittoria, sinceramente, compatibilmente alle proprie forze e possibilità!
Il lager si trasformò in due anni!
Furono create due baracche modello, portata l’elettricità, ottenuta la biancheria da letto, fatte stufe in muratura. Costruita ancora una baracca con l’infermeria. Apparvero medicamenti e dottori. Agli operai migliori al momento del cambio cominciarono a distribuire latte e pane supplementare. Ogni giorno suonava l’orchestra, io mi rivolgevo con dei discorsi:
“Amici! Compagni! I nostri figli, fratelli, padri si battono al fronte, versano il loro sangue, difendendo la Patria! Noi con il nostro lavoro siamo tenuti ad aiutare…” ecc. “Noi siamo reclusi, è una disgrazia, ma ricordate che la sventura più tremenda è la guerra! I nostri cari in libertà fanno anch’essi la fame, ma lavorano e offrono tutte le loro forze per aiutare l’Armata Rossa a battere il nemico…”.
In ogni situazione cercavo e trovavo la possibilità della creazione, la possibilità di un’attività utile – ciò mi aiutava a conservare la dignità umana.
Col tempo la nostra cultbrigata si rafforzò e si ampliò. Ci aiutavano il direttore del KVO e il capocontabile della direzione Mazepa, che creò un’orchestra d’archi di strumenti popolari. In questo non mi orientavo assolutamente, tuttavia imparai a suonare la domra-viola. Nel solo primo anno il nostro collettivo si esibì 250 volte nei club di diversi punti-lager, e, se permettete, altrettante nelle baracche, nei campi e nei cantieri. Fu in verità un lavoro colossale. Toccava comporre, provare, raccogliere materiale, leggere, scrivere molto. Dodici nuovi programmi l’anno! E bisogna ricordare che eravamo in un lager, che eravamo dei reclusi, legati, come tutti gli zeki, dal regime, dalle severe leggi del lager – verifiche, perquisizioni, ritirate, lavate di capo, scorte, ecc.
Mi era stata concessa la corrispondenza una volta al mese e la consegna di un pacco una volta al mese. Mia moglie mi mandava i libri e le miniature di teatro da varietà 9 che chiedevo. Visite non ci furono mai. Era un tormento sentire costantemente la propria impotenza, sapendo che facevano la fame, che Vladik era malato, che mia moglie, uscendo per il lavoro, chiudeva il bambino a chiave, che una volta lui aveva mangiato il sapone, che era malvestito, che nell’appartamento non riscaldavano. Il bambino aveva già cinque anni! Mi riuscì qui di cucirgli due costumi – uno bianco da marinaio (pantaloncini, giubba con spalline, berretto col granchio) e uno dell’armata rossa (pantaloni protettivi, giubba con spalline, bustina con piccola stella, piccoli stivali di tela incatramata e perfino una stelletta d’oro di eroe). Cucirono per noi un’uniforme, di materiale ce n’era molto, e i sarti con piacere soddisfecero la mia richiesta. Più difficile fu trasmettere tutto questo. Affrontò il rischio di aiutarmi lo stesso direttore del KVČ, Kan-Kogan.
Qui, ad Omsk, Kan-Kogan, Sof’ja Petrovna Tarsis, ispettore del KVČ, aiutavano molto. Ma in modo particolare Marija Vasil’evna Gusarova, ispettore del KVO, non solo riforniva costantemente la nostra brigata di letteratura, di materiale, non solo era la nostra protettrice nei momenti difficili, ma esaudiva anche le nostre frequenti commissioni e richieste, non sempre prive di pericolo per lei. Non si può dimenticare che il regime del lager vietava qualunque legame dei liberi salariati , direzione compresa, con i reclusi dell’art. 58.
Nella cultbrigata non c’erano persone cattive. Ljusja Sokolova – poetessa, attrice, scriveva molto su mio incarico: stornelli, “reprise” 10. La “commissione speciale” le comminò dieci anni per il verso: “Stalin è l’ombra, che ricopre il sole sulla Russia…”, o qualcosa del genere. E l’ex redattore della “Pravda di Omsk” (non ricordo il cognome, l’ho scoperto nel convoglio sotto scorta di turno, malato, gonfio, quasi cieco – aveva perso gli occhiali, i denti rotti, sporco, ammuffito: un incubo!) per tre mesi l’abbiamo nutrito, lavato, curato, vestito. Ottimo giornalista! Dieci anni – “commissione speciale”. Lui, guardate un po’, sosteneva che il patto con la Germania era un errore. E Vasilij Pigarëv! Uomo dall’enorme talento! Ingegnere. Dieci anni – “commissione speciale”. Dal 1937 era rinchiuso in diversi lager. Maestro a 360°, musicista, compositore, meccanico, inventore, attore. Quando io fui liberato, lui diventò direttore. Persona meravigliosa, buona, colta! A Taganrog gli era rimasta la famiglia… Matvej Fridman – musicista, suonava il sassofono in modo superbo, direttore della nostra orchestra… Ebbe cinque anni dalla “commissione speciale” perché una volta aveva sospirato: “Oh! Ma quando finirà!…”. Marysja Vojtovič, attrice polacca, nel 1939 era venuta a Leningrado a far visita ai parenti, rimase impantanata là, quando cominciò la guerra. Espresse indignazione e fu mandata a Išim, e di là nel lager per dieci anni per il fatto che aveva simpatizzato con i soldati polacchi internati. Imparò a parlare in russo. Magnifica attrice, cantante, donna affascinante. Da noi c’era anche un violinista dell’orchestra di Eddie Rozner 11. Succedeva che non ci stancassimo di ascoltare – fino alle lacrime… Gromov, magnifico interprete di romanze antiche, basso. Kolja Esin, artista del circo. Nadja Gorbačëva, Mickevič, Šešin, Lida Tarasova, Vanja Tuljakov – anima del collettivo, suonatore di armonica, un talento, compositore, lavoratore instancabile! Vitalij Bannych! Componeva ed eseguiva delle clownerie, partecipava alle danze, agli sketch, suonava la domra. A parte questo, Vitalij era un artista! Curava l’allestimento dei nostri “concerti”, disegnava i programmi di sala, scriveva le parole d’ordine, i manifesti, i giornali murali. Tanja Sugrobova, la Petrovskaja, Korčagin, Maša Škabura: ragazzi straordinari, i miei compagni di brigata!
Ma un lager è un lager. Ci trovavamo costantemente sotto la sorveglianza del plenipotenziario e del comandante. E ci mettevano in cella di rigore per “inosservanza del regime”, e le perquisizioni le organizzavano non di rado, e nei convogli sotto scorta ci spedivano, e alle prove non mancavano mai. Tutto c’era. Dopo la ritirata anche a noi non permettevano di spostarci sul territorio, di trattenerci nel club, alle donne di stare nella baracca degli uomini. In qualche modo riunii tutti e lessi La principessa sogno di Rostand :
Amo il mio sogno bellissimo,
La mia principessa dagli occhi chiari,
Sogno caro, confuso,
Lontano… 12
Ascoltavano i ragazzi, piangevano… Era già molto tardi. Irruppero gli operativi e portarono tutte le donne in cella di rigore.
Ci fu un altro caso durante un “concerto”. In qualità di conduttore annunciai: “In sala c’è il mio amico Saša Akčurin. Oggi è il suo compleanno. Gli dedico la mia interpretazione della poesia di Maksim Gor’kij Canto del falco:
Oh, falco audace! Coi nemici in battaglia ti sei dissanguato!
Ma tempo verrà, e le gocce del sangue tuo ardente
Come scintille divamperanno nell’oscurità della vita
E molti cuori audaci accenderanno
Con folle brama di Libertà, di Luce!
Subito dopo il “concerto” mi portarono in cella di rigore per cinque giorni! Saša Akčurin è un nemico del popolo! “Commissione speciale”, art. 58, dieci anni. Ma io a lui:
Anche se sei morto, nel canto degli audaci e dei forti di spirito
Sarai sempre un esempio vivo, un orgoglioso appello alla libertà, alla luce!
Neanche il direttore del lager Bondarčuk poté liberarmi: cinque giorni! Meno male che non mi aumentarono la pena.
E tuttavia portammo la luce in questo regno delle tenebre, grazie a dio! Accadeva: entriamo in una baracca, sporca, buia, fetida… Una lanterna al soffitto, il fumo di una stufetta, tanfo di pezze da piedi consumate. Ma le persone non si vedono. Stanno sdraiate, sedute delle ombre, un silenzio di tomba. Accendiamo quattro lanterne, l’armonica ha cominciato a suonare, una bella ragazza si toglie la giubba e resta con un abito chiaro scollato, ad alta voce intona “Ljubuška”. “Amici! Ragazzi! Non abbattetevi! Presto sarete liberi! Bisogna vivere! Ci aspettano in libertà, mogli, madri, amici!”. E le persone aprono gli occhi, le persone morenti si alzano, si risollevano, sorridono… Sono vivi! “Manca poco ormai! La guerra finirà – libereranno tutti!”.
“Non manca molto ormai!”. La guerra è finita. Non hanno liberato tutti, ma la mia pena è arrivata al termine.
E di nuovo la libertà! Libertà?
Sono finite le mie “vie dei grandi convogli”. Ma io ho continuato a sentire la nostra vita come un grande Lager, grande come tutto il nostro paese.
Con sorprendente successo abbiamo distrutto fino alle fondamenta il vecchio tradizionale sistema di vita, e abbiamo costruito il sistema dei lager.
E il gergo del lager, e la sfiducia reciproca, e il principio morale: “Prendi tutto quello che è mal custodito” e “Picchia l’altro, finché non ha avuto il tempo di picchiare te”. E ancora – parassitismo bestiale: “Diranno quel che occorre; daranno quel che occorre; manderanno dove occorre; decideranno come occorre… Taci! Aspetta! In caso estremo – chiedi. E sii grato!”.
«Sii grato per tutto! Sempre “grazie”!».
“Grazie al grande Stalin…”.
“Grazie al caro partito…”.
“Grazie al caro collettivo perché ci ha allevato e preservato…”.
“Grazie per la nostra infanzia felice!”. “Grazie per la nostra allegra gioventù!”. “Grazie per la nostra vecchiaia materialmente assicurata!”. (Vien voglia di dire: “Grazie per il posto nel cimitero”, ma questo al posto tuo lo diranno i parenti).
“Grazie!”?
Quando invece ogni uomo ha diritto a tutto questo.
Quando invece ogni uomo è una persona. Irripetibile!
Sono passati più di sessanta anni dall’epoca della mia condanna “per propaganda e agitazione controrivoluzionaria”, ma anche adesso sono pronto a condurre la stessa “agitazione” in nome della vera libertà e dell’emancipazione della persona.
E, in fede mia, sono pronto a percorrere di nuovo, se questo ci aiuterà, LE TAPPE DI UN GRANDE CAMMINO.
⇨ [1] LE VIE DEI GRANDI CONVOGLI di Vaclav Janovič Dvoržeckij
NOTE
- Acronimo di Teatr junogo zritelja, teatro del giovane spettatore.↩
- Acronimo di Ob”edinënnoe Gosudarstvennoe Političeskoe Upravlenie Sssr, Direzione politica unificata di Stato dell’Urss, creata nel 1923 “allo scopo di unificare gli sforzi rivoluzionari per combattere la controrivoluzione politica ed economica, lo spionaggio e il banditismo”, confluita nel 1934 nell’Nkvd.↩
- Opere rispettivamente di Pavel Antokol’skij (1896-1978); di Victorien Sardou (1831-1908); di Karl Ferdinand Gutzkow (1811-1878); di Vladimir Solov’ev (1907-1978); di Oliver Goldsmith (1730-1774); di Konstantin Michajlovič Simonov (1915-1979); di Viktor Michajlovič Gusev, (1909-1944).↩
- Ruben Nikolaevič Simonov (1899-1968), attore, regista, discepolo di Stanislavskij, dal 1938 al 1968 primo regista del teatro Vachtangov. Aleksej Denisovič Dikij (1889-1955), attore di teatro e cinema (“Aleksandr Nevskij” di Sergej Ejzenštejn), regista, discepolo di Stanislavskij, Nemirovič-Dančenko e Suleržickij, ebbe sulla scena partner del calibro di E. Vachtangov, M. Čechov e I. Moskvin. Nikolaj Pavlovič Ochlopkov (1900-1967), attore di cinema e teatro, regista, pedagogo, dal 1923 è interprete nel teatro Mejerchol’d, dal 1938 al 1943 è regista e attore nel teatro Vachtangov.↩
- Acronimo di Ispravitel’no-trudovye lageri i kolonii: campi e colonie di lavoro correzionale.↩
- «Dal verbo dochodit, “arrivare”: detenuto allo stremo delle forze, morituro. Nel mondo carcerario-concentrazionario il dochodjaga è l’ultimo degli ultimi». Voce “dochodjaga”, in Jacques Rossi, op.cit., p. 116↩
- Acronimo di Central’nyj aerogidrodinamičeskij institut, istituto aeroidrodinamico centrale, fondato nel 1918 su iniziativa e sotto la guida di N. E. Žukovskij, il “padre dell’aviazione russa”.↩
- Immancabile nelle fiere che si tenevano durante le settimane di Carnevale e di Pasqua, il “raëšnik” attraeva la folla con le “meraviglie” del raëk, una cassetta con due o più lenti d’ingrandimento sulla parete anteriore, nel cui interno scorreva, tesa tra due rulli, una striscia di ingenui quadretti con vedute di città o scene di avvenimenti storici, che accompagnava, con proverbiale facondia, con battute ridanciane e versi magniloquenti. (cfr. Ripellino, Del Teatro popolare russo, in “Ricerche slavistiche”, 1953/2↩
- Repertorio di satira e commedia, grottesco, parodia, divertissement, costituito da pièce in un atto e dalle cosiddette “piccole forme” (monologhi, couplet, numeri da circo, ecc), di cui, nella Russia prerivoluzionaria, furono maestri gli artisti del “Pipistrello”, a Mosca, e dello “Specchio ricurvo” a San Pietroburgo.↩
- Numero comico verbale, o pantomimico, tipico del varietà o del circo.↩
- Uno dei più grandi trombettisti bianchi del xx secolo, poliglotta, ebreo tedesco, nato a Berlino nel 1910, e lì morto in miseria nel 1976. Dopo l’iniziale successo, le sue origini e la musica “da negri” che suonava lo resero inviso ai nazisti. Si trasferisce in Polonia, da cui poi, travestito da ufficiale della Wermacht, tenta la fuga verso la Bielorussia, dove è incaricato di organizzare la prima orchestra nazionale jazz. Nel 1945 si esibisce sulla Piazza Rossa. Nel 1946 è arrestato, torturato, condannato sulla base dell’art. 58, trasferito in un lager siberiano e poi, su sua richiesta, alla Kolyma, dove organizza una “Gulag band”. Liberato nel 1954, dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia chiede l’espatrio. La sua musica fu proibita, le sue incisioni distrutte. Cfr. la pref. di Elena Dundovich a Natalia Sazonova, Il jazzista del Gulag. La straordinaria vita di Eddie Rosner tra Hitler e Stalin, Napoli-Roma, 2008.↩
- Atto primo, scena IV, de La princesse lointaine, dramma in versi in 4 atti di Edmond Rostand del 1895, rappresentato per la prima volta in Russia nel 1896. Così suona nella traduzione russa (1896) di T. L. Ščepkina-Kupernik.↩
I commenti a questo post sono chiusi
sempre emozionante. grazie orsola. grazie anna.
chi
Il freddo morso nel cuore. Ho l’impressione di sentire l’incontro tra l’orizzonte sognato- il caldo dei mari del sud- in un indescrivile verde
e il varco bianco, la stufa, il luogo chiuso. E nel gelo che mordeva il corpo, l’anima scappava. L’arte era un paesaggio entrato in nascondiglio.
Racconti che facevano venire emozioni, quando la fame attanaglio.
Una lezione di coraggio.
bellissimo
c.