Assenze
di Gianluca Veltri
Nel romanzo di Nathan Englader “Il ministero dei casi speciali”, il padre di un desaparecido la cui colpa era ascoltare i Pink Floyd e leggere Marcuse, al culmine di vane ricerche, riflette: “Sono il padre di un figlio morto che non ha un cadavere su cui piangere. Questa assenza è sbagliata e ingiusta. Senza una tomba, il lutto non finisce mai”.
Assenze, a trentacinque anni dall’inizio del mattatoio argentino.
C’erano delle vite, e da un giorno all’altro sono scomparse, senza fare rumore. Le vite di 30.000 desaparecidos. Il 24 marzo del 1976 s‘insediò al potere la junta militare guidata da Jorge Videla, dopo anni di instabilità, golpe, turbolenze, insurrezioni, atti terroristici e crisi economiche. Tutto nel nome di Perón, il cui voltafaccia aveva spinto i montoneros verso la clandestinità. I grandi populismi carismatici sfociano sempre in grandi tragedie. Iniziò la guerra sucia, la guerra sporca, con la quale il laboratorio “antisovversivo” argentino si segnalò per la genialità dei metodi. Mentre apparentemente nulla accadeva, si rapivano i presunti oppositori, i dissidenti. Non solo montoneros e attivisti, anche i semplici riottosi, i loro amici. Hippy, studenti, padri e madri, giornalisti, maestri elementari, operai, i loro conoscenti e vicini di casa. Il sequestrato, incappucciato e ficcato in una Falcon verde senza targa – le strade notturne di Buenos Aires erano pattugliate dagli occhi lucidi di queste Ford sinistre – era condotto in un centro di detenzione clandestino (ne erano attivi più di seicento). Da quel momento la persona scompariva. Le forze dell’ordine negavano ogni coinvolgimento ai familiari che chiedevano affannose notizie. Si facevano scomparire i documenti, come se la persona non fosse esistita mai. Iniziavano le torture, sadiche, peggio dei nazisti, degne dei Conquistadores, sotto la protezione di CIA e vertici ecclesiastici. Nella maggior parte dei casi, arrivava la morte, anche questa originale: i detenuti, come rivelerà il giornalista Horacio Verbitsky nello scioccante libro-intervista all’ex ufficiale pentito Adolfo Scilingo, “Il volo”, venivano caricati su un aereo di linea e gettati ancora vivi nel Mar de la Plata o nell’Oceano Atlantico. Era una guerra, sì, ma non era stata dichiarata; e poi morivano da una parte sola. E per giunta, una delle parti era l’arbitro, erano coloro da cui i cittadini dovevano sentirsi protetti. Durò fino al 1983.
La mostra fotografica di Gustavo Germano dal titolo “Ausenc˙as” racconta con la forza primitiva degli scatti fermi alcune di queste storie. Le lascia immaginare. “Ausenc˙as” (la lettera “i” a cui è rimasto solo il punto, ˙, è il segno dell’assenza) è in giro per le nostre città, nelle ultime settimane è stata a Roma, Cosenza e Potenza. È un allestimento emozionante, di drammaticità pietrificata. Assumendo un punto di vista diacronico, la mostra propone quindici coppie di foto, aventi tutte un prima e un dopo. Prima del 1976, quando il terrorismo di stato si sarebbe impadronito delle vite degli argentini. E dopo: oggi, qualche anno fa. Tra allora e ora, nel confronto trentennale tra le foto, c’è un’assenza. Nelle coppie di istantanee manca sempre qualcuno, che prima c’era e nel frattempo è scomparso, sottratto alla vita, sua e di quelli a cui era caro. Desaparecidos prima che lo diventassero. Vite ritratte narrativamente. Parlano le fotografie, quello che raccontano e quel che non dicono, e c’è davvero poco da aggiungere. Si tratta di appena quindici coppie di foto: l’allestimento di Germano riguarda solo una manciata di desaparecidos, fotografati prima delle loro scomparse silenziose e violente, con le persone che facevano parte della loro esistenza. A distanza di tempo, Germano ha fotografato la loro assenza, cogliendo un momento delle persone che all’epoca erano in loro compagnia, negli stessi luoghi. Il succo dell’esposizione è in quel che non c’è, nel baratro che apre. In mezzo alle due foto, anni di vuoto da riempire, di assenza.
Moltiplicate quel numero esemplare ed esiguo di desaparecidos ritratti da Germano fino ad arrivare alla contabilità definitiva. Trentamila. 30.000. Le voci assordanti di quelli che non ci sono più. La folla dei loro volti, i sorrisi ignari, vite forti ma indifese. Quello che non sono diventate. Quanti scatti ne verrebbero fuori, quante ausencias. Ci vorrebbero 1.500 esposizioni così. Non sapevano cosa c’era ad aspettarli, mentre posavano al loro matrimonio, coi figli piccoli, in campagna, in salotto e in giardino, sorridenti. A pranzo dai suoceri, in villeggiatura. In un caso, lo scatto recente è privo di presenza umane: pura assenza. È la spiaggia deserta di “Tortuga Alegre”; il prima è una coppia, Orlando e Leticia, era il 1975. Tra le foto, c’è un prima e un dopo dei fratelli Germano. Il bimbo che sarebbe diventato fotografo – l’autore della mostra, Gustavo – insieme ai suoi tre fratelli, uno scatto vacanziero di fine anni ’60. Lui è il minore. Guillermo è il maggiore. Nello scatto successivo, Guillermo non c’è più, è diventato un ˙; restano tre fratelli, la loro ferita.
Gustavo Germano è all’inaugurazione della mostra. Ha la faccia di quelli che sono sopravvissuti: un misto di mitezza, senso di colpa, smarrimento, sofferenza incompiuta. Qualcuno ha detto che la generazione di chi era giovane in Argentina a cavallo degli anni ’70 è stata una delle più belle di sempre. Studenti, operai, ragazze, docenti. Idealisti, impegnati nel pubblico e nel privato. Facevano figli da giovani. Si mantenevano agli studi lavorando, credevano in una società meno egoista. Era una generazione informata e protagonista, cittadini attivi. Molti facevano gratuitamente scuola nelle villas miserias, le baraccopoli di Buenos Aires. I militari li odiavano. Quella generazione, poi letteralmente cancellata dalla faccia della terra, faceva paura. Non solo i 30.000 sepolti sotto l’oceano, di cui non si avranno mai notizie. Ma anche le famiglie, che non hanno avuto più diritto a una vita normale. Confiscati della verità, privati della certezza di un dolore, non consumato ma diluito per sempre. E quelli che sono fuggiti in esilio, come Gustavo Germano che vive a Barcellona, vite dimezzate e deformate da trauma, distanza e perdita.
Alla presentazione della mostra, a Cosenza, era presente anche Estela Carlotto, presidente della Associazione delle Abuelas de Plaza de Mayo, le indomite madri-nonne che fin dal 1977, in pieno nero regime, presero a manifestare coi fazzoletti bianchi in testa per esigere notizie sui loro figli scomparsi. Figli e poi nipoti. La battaglia delle donne argentine è stata l’unica voce di dissenso durante gli anni della junta. Estela è una donna forte e passionale. Ha perso la figlia Laura, ammazzata nel 1977, e il bambino di lei, Guido, partorito in prigionia, il nipotino che Estela non ha mai conosciuto, e che cerca da allora. La sua storia è raccontata nel libro “Le irregolari” di Massimo Carlotto (Estela è sua zia). Cento figli di desaparecidos, consegnati dai militari a coppie compiacenti, sono stati ritrovati nel tempo, ma ancora quattrocento ex-bambini (oggi ultratrentenni) vivono senza sapere che i loro genitori biologici sono stati sterminati nella guerra sucia. Coloro che essi chiamano “mamma” e “papà” li hanno avuti dagli aguzzini dei genitori. Vicende raccontate da Luis Puenzo e Marco Bechis (rispettivamente) nei film “La storia ufficiale” e “Hijos”, e da Elsa Osorio nel romanzo “I vent’anni di Luz”. Anche con questa menzogna colossale deve fare i conti la coscienza civile argentina. Con questa assenza. Di verità.
“Non credo che sia morto nessuno che avesse un’importanza tale da essere pericoloso. Oggi penso che non c’era nessun bisogno di ucciderli. Oggi le dico che fu una cosa atroce. Non posso dire che si trattassero di sovversivi. Erano esseri umani”.
(Adolfo Scilingo, ufficiale della marina militare argentina, in “Il volo” di Horacio Verbitsky)
[Pubblicato su Mucchio selvaggio n. 681, Aprile 2011]
Quando uno scompare nella crudeltà di una dittatura, raggiunge la storia del suo paese, ma lascia un labirinto di domande nella storia della famiglia. E’ il punto di una ricerca senza fine, un vestito a brandelli, un fantasma nella stanza di pranzo, nella camera. Il volto della giovinezza come un rimpianto. Davanti all’assenza si racconta la storia del passato con le foto: erano vivi, avevano una vita piena, di speranza, avevano amori, avevano corpi nel desiderio, avevano riso e lacrime.
Bell’idea!
Oggi quell’assenza è presenza.
Molti anni sono passati, questo articolo mi sembra vecchio di otto anni.
Non ho messo gli anni a caso. Andate/tornate in Argentina e vedrete.
Le Madres sono state partorite dai figli, e nessun argentino parla di assenze, ora.
Los desaparecidos estàn presentes!
Le assenze, oggi, sono altrove.
Saludos
Sono d’accordo con Julia, il pezzo poteva essere stato scritto non otto anni fa, ma anche ventotto (28) anni fa. Non per questo lo definirei “vecchio”. Del resto la mostra di Germano (che è argentino, e parla di “assenze”) è in tournée ora. C’è una parte dell’opinione pubblica argentina per la quale i desaparecidos non erano assenti neanche nel 1977. Per il resto, invece, le assenze ci sono e si avvertono ancora adesso, eccome. E le Madres saranno pure state partorite dai figli, d’accordo, ma resta un grosso buco nella memoria collettiva. Come negarlo?
Saluti.