Smettiamo di chiamarla «letteratura della migrazione»?
A proposito di un romanzo di Igiaba Scego (e non solo) (1)
di Daniela Brogi
1. Cominciamo con un esempio, e partiamo da una definizione che in un contesto europeo sembra scontata, ma che in Italia invece è ancora percepita come inconsueta, tant’è vero che si tende a non usarla: non è famigliare. Ecco la definizione: Oltre Babilonia(2) è un romanzo scritto da un’autrice afroitaliana, ovvero da una cittadina della lingua italiana, che non usa più l’italiano come strumento per comunicare, o per testimoniare la propria storia – come nei primi libri di autori migranti usciti negli anni Novanta(3); e neppure si tratta di un impiego dell’italiano inteso precipuamente come maniera retorica, marca di letterarietà, ovvero praticato in quanto lingua eterogenea (:“altra lingua” di un’”altra cultura”), come dal Medio Evo in poi è accaduto a molti scrittori che hanno usato l’italiano per l’espressione dell’amore (magari componendo un sonetto petrarchesco); tutti scrittori, in ogni caso, che si sono cimentati da outsiders con l’italiano: per limitarci a qualcuno dei tanti esempi, potremmo citare Montaigne, Byron, Pound(4). L’italiano usato da Scego invece, come quello di molti altri autori contemporanei, è una lingua attraverso la quale stare dentro la propria storia, dentro la propria identità. Detto in altro modo: la lingua italiana non è più un espediente comunicativo, o una scelta letteraria, ma una condizione di esistenza.
Considerata poi – al confronto con altri paesi come Inghilterra, Germania, Francia – l’età relativamente giovane dei flussi migratori che soltanto a partire dalla fine degli anni Ottanta hanno iniziato a trasformare l’Italia in un paese abitato e mandato avanti da gruppi etnici differenti, occorre subito precisare che per molte ragioni Oltre Babilonia ha una qualità letteraria che mantiene qualcosa di acerbo, per così dire, diverso dai successi ormai consolidati di opere come The Buddha of Suburbia (1990) di Kureishi, Kanak Sprak (1995) di Zaimoglu, o White Teeth (2000) di Smith. A maggior ragione però vale la pena di parlarne: perché se lo merita l’opera, e perché se lo merita la critica letteraria, così troppo spesso tenuta lontano dalla realtà che più la riguarda.
Sono necessarie però due premesse.
Prima premessa. Da qualche anno in Italia, per definire autori di origine straniera (Scego è nata a Roma nel 1974 da genitori somali fuggiti in seguito al colpo di stato di Siad Barre), si usa l’espressione “scrittori italiani di seconda generazione”. Questa definizione funziona almeno a quattro livelli.
In senso sociologico, perché indica appunto la generazione dei figli di non italiani (ovvero figli di genitori venuti ad abitare in Italia: la precisazione non è superflua perché risolve la confusione con i casi di autori cosmopoliti[5]).
«Scrittori italiani di seconda generazione» vale inoltre in senso linguistico, e volendo anche psicolinguistico: questi autori, infatti, appartengono a un contesto di plurilinguismo, piuttosto che a una situazione di generico multilinguismo o poliglottismo, e questa particolarità crea nuove situazioni non solo di natura linguistica in senso strettamente tecnico. Il bilinguismo, o il trilinguismo, fan sì che a parlare contemporaneamente lingue diverse – e tra di esse la lingua che spesso è stata ed è nemica: usata come forma di dominio, di discriminazione e di respingimento –, a parlare tutte queste lingue non sia soltanto la vita pubblica, ma anche la vita interiore, vale a dire, per esempio, anche la fantasia, o la memoria, e perfino – o soprattutto – il dolore. E tutto ciò non può non comportare modi diversi di relazione con il mondo(6).
Al tempo stesso, la categoria “scrittori italiani di seconda generazione” vale in senso culturale-formativo: per i figli degli immigrati l’italiano non è più una lingua imparata lungo la strada materiale e simbolica dell’integrazione, ma una lingua appresa a scuola(7) – come si racconta nel doc appena uscito di Loy e Cederna Una scuola italiana.
Questo terzo ordine di ragioni, assieme ai primi due, spiega pure il quarto possibile valore dell’etichetta: scrittori, appunto, italiani di seconda generazione, ovvero individui che usano l’italiano non più soltanto per sopravvivere e comunicare, ma con l’ambizione di una forma letteraria. Lo scarto tra la prima e la seconda generazione, da questo punto di vista, funziona anche rispetto al patto narrativo, al contratto comunicativo stabilito dai testi, perché essi non sono più destinati a un interlocutore modello chiamato principalmente ad ascoltare una testimonianza drammatica, ma prevedono un destinatario disposto ad apprezzare la qualità letteraria delle opere.
Scrittori italiani di seconda generazione allora? In realtà, a più di un decennio di distanza dall’uscita del primo romanzo di uno scrittore di origini straniere cresciuto in Italia (Verso la notte bakonga, 1999, di Jadelin Mabiala Gangbo[8]), l’espressione stona; in un paese dove, secondo il ventesimo rapporto sull’immigrazione presentato nel dicembre 2010 dalla Caritas, i figli degli immigrati costituiscono già un terzo della popolazione sotto i trent’anni, c’è qualcosa che ormai fa problema nella definizione “scrittori italiani di seconda generazione” che, se ci pensiamo, per molti aspetti potrebbe diventare un’espressione anche difensiva; e offensiva, svalutativa, perché rischia di mantenere l’autore così indicato in una condizione di second class citizen – per usare il famoso titolo di Buchi Emecheta(9) -, e in ogni caso rischia di ridurre il soggetto a oggetto: depositario di un’identità eteronoma, cioè tutta vissuta e ricostruita da un altro piuttosto che autodeterminata e autodefinita. Il rischio, in altre parole, è quello di riprodurre un modo discorsivo e mentale che, sia pure con le migliori o più inconsapevoli intenzioni, rafforza un’idea di integrazione come processo a senso unico (: ci integriamo nella misura in cui tu impari ed assimili la mia lingua e la mia cultura, ovvero ci integriamo nella misura in cui io ti incorporo), piuttosto che come scambio. Dove per scambio si intende incontro e incrocio di traiettorie(10), ma, soprattutto, si intende anche un’idea di conflittualità come premessa per il reciproco riconoscimento: è proprio da qui, credo, che si potrebbe scommettere sullo scatto di un arricchimento di civiltà. Proviamo a dire afroitaliani dunque, o araboitaliani, come anglopakistani o turcotedeschi. Proviamo a uscire dall’incommensurabilità di principio tra le letterature e le identità sancita appunto dalle delimitazioni.
Seconda premessa. Di fronte a una produzione editoriale ormai così vistosa, le istituzioni culturali e l’accademia italiane hanno reagito e stanno continuando a reagire o con un atteggiamento prevalente di pacifica indifferenza – al punto che, di fatto, le cattedre di Postcolonial Studies sono pressoché assenti – oppure con un atteggiamento di acritica apertura: creando banche dati, dibattiti (soprattutto online), definendo la situazione nei termini del “fenomeno delle scritture migranti”, ovvero di una realtà accettata aprioristicamente, senza essere davvero discussa. Non si tratta, naturalmente, di due modi di agire sovrapponibili: nel secondo caso sono state prodotte occasioni di elaborazione e di confronto molto significative e per più di un motivo anche eroiche, considerate le resistenze continue provenienti dall’habitat circostante, formato da un contesto ideologico non di rado razzista, e da una situazione politico-economica che procede al ritmo continuo dei tagli finanziari al mondo della cultura. Malgrado ciò, è lecito il dubbio che tanto la chiusura autodifensiva quanto l’apertura incondizionata possano talvolta diventare due logiche discriminatorie parallele, che si confermano come egemoniche nel momento stesso in cui riproducono, ora per via dell’esplicito respingimento, ora per via dell’amichevole umiliazione, il pregiudizio di un’estraneità irriducibile (e nominabile soltanto se la si recinta[11]).
Come fare, allora, a smettere di difenderci? La risposta è difficile e certamente richiede tempi di riflessione e competenze ben superiori a quelli offerti in questa sede. Intanto una prima, debolissima, misura d’igiene potrebbe consistere nell’eliminazione della parola “fenomeno” dal vocabolario critico. Un altro, faticoso, rimedio può essere quello di sottrarsi, sul piano della critica testuale, alla facile ipocrisia politically correct (spesso abbellita dalla sociologia), per cominciare piuttosto a smetterla di volerci stare simpatici (: nel senso della condivisione di un pathos) ancor prima di esserci conosciuti, e discutere piuttosto anche del valore letterario di questi libri, sollecitando un dialogo intorno a questioni testuali (che non vale mai come semplice sinonimo di linguistiche). Senza mai dimenticare, d’altra parte, che anche l’argomento di una produzione letteraria di qualità non sempre così significativa, può diventare un alibi per non occuparsi di testi che non mettono in gioco questioni puramente letterarie, nel senso retorico del termine, ma conflitti enormi per il riconoscimento dei diritti umani (lo spiega benissimo il libro appena uscito di Rastello[12]), ovvero contraddizioni fortissime della politica italiana in materia di immigrazione(13). Tant’è vero che, come spesso ci ricorda Amara Lakhous(14), o come si racconta nel documentario 18 ius soli a cui sta lavorando Fred Kuwornu(15), molte persone nate in Italia non hanno ancora il passaporto italiano.
2. Oltre Babilonia: riecheggiando nel titolo le espressioni usate da Bob Marley in una famosa intervista rilasciata a Ed McCormack per «Rolling Stone» nel 1976, il titolo del romanzo di Scego presuppone al tempo stesso il superamento della posizione di Marley (: tornare a casa in Etiopia e lasciare questa Babilonia(16)) perché casa, ormai, è, anche se a fatica, il luogo dove si sta, dove si abita la propria storia (Italiani per vocazione è, non per nulla, il titolo di un’antologia di autori migranti curata proprio da Scego nel 2006(17); La mia casa è dove sono è il titolo dell’ultimo lavoro dell’autrice[18]).
Nel testo di Oltre Babilonia ricorrono cinque aspetti che non solo caratterizzano il romanzo di Igiaba Scego, ma, più in generale, si pongono come elementi ricorrenti nelle narrazioni provenienti da esperienze di migrazione. In primo luogo – e in questo caso il discorso ovviamente vale soprattutto per le autrici – la prevalenza di una trama per così dire “matrifocale”, ovvero la presenza di una storia recuperata da una voce femminile(19) che svolge il filo della memoria di sé attraverso le storie di altre donne, secondo un incrocio tra esperienza presente e vicende passate riattivate dal ricordo. Un procedimento che in certi tratti potrebbe ricordare Beloved, di Toni Morrison.
Accanto a questo primo tratto, la coralità, sia della trama che dei punti di vista narrativi: come i libri di Ghermandi, Farah, Smith, Ndiaye, per esempio, il romanzo di Scego è composto da biografie multiple narrate da punti di vista mobili. Sono biografie separate dalla Storia e rimesse accanto da una scrittura che vuole parlarci di una realtà non solo esistita, ma percepita a più livelli. Da qui derivano altre due costanti: la partenza e la separazione come ingranaggi del plot(20); e l’uso della struttura investigativa come dispositivo privilegiato di organizzazione del racconto: l’attenzione del lettore, come quella dei personaggi, è indirizzata alla ricerca e alla scoperta(21).
Un quinto motivo che ritorna, infine, riguarda la forte importanza che, sul piano dell’organizzazione dei materiali narrativi, acquista la prospettiva testuale dello spazio (Oltre Babilonia è ambientato tra Italia, Tunisia, Somalia e Argentina). È proprio lo spazio, infatti, ora inteso come madre patria d’origine, ora come nuova patria acquisita, ora come luogo di passaggio, ora come zona di conflitto o di incontro tra una storia e l’altra, a costruire, di pari passo con lo svolgimento del racconto, il mondo di significati e la temporalità stessa costruiti dalla storia. Gli spostamenti tra i tanti luoghi coincidono con il lavoro progressivo di individuazione e presa di consapevolezza; l’arco spaziale profilato dalle storie ne definisce, al tempo stesso, l’arco narrativo, ed entrambi formano il ritratto più completo delle vite rappresentate: quello attraverso il quale i personaggi potranno finalmente riuscire a vedere il mondo e, ciò facendo, vedere se stessi, un po’ come nell’Epilogo di El hacedor (1960), di Borges, dove «un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».
3. La ricostruzione dell’identità attraverso il rapporto con la lingua madre, col passato, e con le scissioni. Questo è il centro di gravità dei significati di Dopo Babilonia. E delle forme che li organizzano. Il testo infatti è costruito attraverso una struttura a cornice, con un Prologo e un Epilogo (gestiti da uno dei personaggi: Zuhra Laamane, la “Negropolitana”, che vive a Roma, e decide di scrivere su dei quaderni la propria storia). Prologo ed epilogo inquadrano otto blocchi narrativi. In ciascuno di essi si alternano (seguendo il medesimo ordine) cinque storie intitolate coi soprannomi dei rispettivi protagonisti, che sono: la Nus-Nus – che significa la «mezza mezza» in lingua somala; la Negropolitana; la Reaparecida; la Pessottimista; il padre (unico personaggio senza il maiuscolo enfatico). Man mano che scrittura e lettura procedono, i personaggi si incontrano e le rispettive biografie si incrociano e si completano a vicenda. La Nus-Nus è Mar, una giovane di madre argentina (Miranda: la Reaparecida) e padre somalo. È nera e vive a Roma, come la Negropolitana, ma le due donne non si conosceranno nella città dove abitano, bensì a Tunisi, in una scuola di arabo, dove si incontrano le lingue più diverse. A questo grumo di etnie, di destini, di parole e perfino di colori (il motivo dei colori è molto importante in Oltre Babilonia, e di nuovo fa risuonare Beloved), si mescolano anche le storie segrete che arrivano dal passato e dalle terre di origine di Mar e Zuhra – Buenos Aires e Mogadiscio – per iniziativa delle loro madri, Miranda a Maryam, che attraverso i loro racconti mettono fuori, potremmo pure dire partoriscono il proprio passato come memoria da consegnare alle figlie (il dialogo tra generazioni è un altro tema chiave della scrittura migrante). Accanto a queste quattro voci vi è poi quella di Elias, padre di Mar e Zuhra, doppiamente straniero perché le due ragazze non sanno di essere sorelle.
La trama, dislocata in vari luoghi, traduce formalmente l’idea che la ricerca delle radici non può avvenire in un unico spazio, e che un luogo da solo non basta a garantire un’identità permanente. Occorre riprendere strade che arrivano da molto lontano e non seguono mai percorsi lineari ma, come le lingue a Babilonia, si confondono. Prendiamo il caso di Zuhra: che comunica in somalo con la madre che non parla italiano, parla romanesco quando scrive e quando pensa, si è laureata in letteratura brasiliana, e oltre a sapere l’inglese e lo spagnolo si è messa a studiare l’arabo. La condizione di Zuhra non equivale a una banale scissione tra la lingua che si parla fuori e la lingua che si parla a casa, ma è una compresenza complessa di codici che oltre alle parole, oltre alle voci, fanno inteagire pezzi di identità altrettanto diversi(22).
Tra l’altro, questa circostanza così reale produce, nel passaggio alla rielaborazione letteraria, un mondo narrativo affollato di doppi – e di nuovo non si tratta di un motivo riguardante soltanto il romanzo di Scego. E così in Oltre Babilonia avremo due ragazze – piano piano si scoprirà che sono due sorelle; due madri che raccontano due storie di esilio, due dittature, eccetera.
Ancora un motivo che rende interessante il romanzo di Scego è poi il fatto che le identità in gioco non siano soltanto quelle meticciate riconducibili alle singole vite dei personaggi, ma anche quelle dell’Italia. Oltre Babilonia infatti racconta bene, senza che la narrazione soffochi la vicenda nella morsa di una dimostrazione (rischio che in altri casi invece si affaccia), una storia che, malgrado le molte celebrazioni in corso per il centocinquantenario dall’Unità, si fatica ancora oggi a riconoscere, ovvero che l’identità nazionale, intesa come mappa retorica, ideologica, memoriale, delle idee e delle situazioni che fanno made in Italy, è stata ed è tuttoggi il prodotto di pesantissime rimozioni. E così, come il brigantaggio meridionale, l’adesione consapevole al fascismo, o il razzismo(23), per limitarci a tre esempi, l’emigrazione e il colonialismo rappresentano due capitoli tanto fondamentali quanto dimenticati della storia italiana. Quanti sanno, o sapevano; quanti hanno mai riflettuto o ricordato – rispondiamo con sincerità: basta farlo con noi stessi – che tra il 1913 e il 1952 in Italia è esistito il Ministero delle Colonie? Basterebbe del resto, a confermare questa attitudine alla denegazione, la totale mancanza di popolarità e di interesse critico che contraddistingue uno dei romanzi italiani più belli – e più ignorati – del secondo dopoguerra: Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano(24). In Oltre Babilonia Miranda, Zuhra, Mar, Maryam, come i personaggi di molti altri libri afroitaliani, ci ricordano invece, attraverso il racconto delle proprie esistenze, che i fili che uniscono l’Italia all’Africa si sono intrecciati molto molto tempo fa, per esempio all’epoca dell’imperialismo in Somalia, Etiopia, Eritrea, Libia(25). E che gli Italiani, come tanti altri popoli, come la famiglia di origine della Reaparecida, hanno sempre migrato, e non sono stati solo un popolo di brava gente(26), più umano, più civile e più buono.
4.
Sul piano testuale, la nuova lingua delle scritture afroitaliane può offrire, almeno nei casi migliori, il vantaggio dello svecchiamento rispetto a una certa idea di scrittura letteraria diffusa, oltre che da certe istituzioni, da certe stanche forme di antagonismo e di eversione formale a tutti i costi che rischiano paradossalmente di produrre orientamenti stilistici ancora più scolastici e claustrofobici. L’italiano infatti diventa in un certo senso una lingua per così dire più internazionale: circostanza tanto più significativa in un paese in cui molti italiani stanno sempre più regredendo a un uso del dialetto come lingua non più percepita come strumento privato e famigliare, ma indifferentemente usata nella comunicazione pubblica. Al tempo stesso, l’italiano può divenire una lingua più espressiva, più attaccata alla vita reale con due conseguenze che, nella lunga durata, potranno portare a risultati qualitativi non ancora facilmente prevedibili.
La prima di esse consiste nell’uso di un italiano più semplice, meno ricco, ma d’altra parte anche più pulito, per così dire, cioè meno colonizzato dall’enfasi della tradizione (dove per tradizione si intende pure la retroguardia convinta di essere avanguardia), o dal vizio molto radicato, non solo in letteratura, di una sintassi pomposa.
La seconda conseguenza riguarda l’uso di un italiano che, nei casi di mescidamento multilinguistico, asseconda funzioni espressive piuttosto che retoriche: la lingua diventa sempre più un impasto di tante culture.
Un’altra risorsa attraverso la quale l’italiano è rivitalizzato consiste nell’immissione di lemmi provenienti dalla lingua parlata nella propria famiglia d’origine. Di questa lingua si trattengono soprattutto termini dai contenuti identitari (riguardanti il cibo, la religione, il sistema parentale, i codici sessuali), come rivelano anche i glossari spesso riportati in appendice, e come conferma pure la ricorrenza di dettagli polisensoriali quando si tratta di raccontare vicende legate al mondo magico-infantile del passato. Altre volte invece la parola intraducibile indica le esperienze legate a stati d’animo emozionali e memoriali; oppure si tratta di un repertorio risalente a esperienze di racconto legate a modalità orali – «wallahi billahi» ad esempio, è l’intercalare con cui Zuhra, per via di ripetizione, scandisce il discorso nel Prologo di Oltre Babilonia(27).
Da tutto quello che si è osservato sin qui, derivano conseguenze stilistiche significative, che ancora una volta confermano quanto la letteratura, tanto sul versante creativo quanto sul versante critico, non sia mai un’esperienza unicamente retorica e autoriflessiva, ma trascini un modo complessivo di stare dentro la realtà e la storia. Così, l’italiano diviene una lingua – e una cultura – reinventata dalle nuove esperienze di migrazione e dai conflitti per il riconoscimento che stanno dietro alle parole. È c’è poco da indignarsi, o da simulare indifferenza: non si tratta infatti di una situazione di emergenza – malgrado in Italia si tenda per lo più a percepirla così – ma di un dato di fatto. Appena i sentimenti e i punti di vista meno puri o meno subalterni legati a questo tipo di vicende sapranno – o potranno – uscire allo scoperto per trovare cittadinanza nei territori del racconto, allora sarà molto più frequente, a mio parere, incontrare delle grande narrazioni (e il discorso riguarda anche il cinema). Forse, anche quando la rabbia e la capacità di rappresentare sentimenti meno simpatici – come il sarcasmo di certi racconti di Kuruvilla(28) – conquisteranno spazio, senza avere continuamente la necessità di negoziarlo, si scriveranno e si leggeranno libri più belli.
Intanto, si può osservare – si può provare ad non aver paura di osservare – che anche gli autori italiani di origine straniera incontrano di solito la difficoltà incontrata da ogni autore che intenda raccontarci bene una storia. Si tratta della difficoltà dello stile, vale a dire di un concetto di espressione distante il più possibile dal semplice atto della trascrizione indifferenziata, e vicino a un’originalità consapevole e capace di ristabilire nuove combinazioni tra realtà e linguaggio. Forse saremo davvero liberi di integrarci quando chi produce e chi discute queste narrazioni uscirà una volta per tutte dal cantuccio protettivo delle definizioni e dei sentimenti a statuto speciale.
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NOTE
1) Una prima versione di questo articolo è appena uscita in inglese in Afroeuropean Configurations: Readings and Projects, edited by Sabrina Brancato, Cambridge Scholars Publishing, 2011.
2) I. Scego, Oltre Babilonia, Donzelli, Roma 2008. Scego ha esordito nel 2003, vincendo il premio Eks&Tra di scrittori migranti con il suo racconto Salsicce (apparso in Impronte, Besa, 2003, poi ripubblicato in G. Kuruvilla, I. Mubiayi, I. Scego, L. Wadia, pecore nere, Laterza, Roma-Bari 2005); prima di Oltre Babilonia sono usciti La nomade che amava Alfred Hitchcock, Sinnos, Roma 2003; Rhoda, Sinnos, Roma 2004; nel 2007 ha curato assieme a Ingy Mubiayi la raccolta Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano, Terre di Mezzo, Roma 2007. Presso Rizzoli è da poco uscito La mia casa è dove sono.
3) Al 1990 risalgono tre uscite rivoluzionarie: Chiamatemi Alì di Mohamed Bouchane e Carla De Girolamo (Leonardo, Milano); Immigrato di Salah Methnani e Mario Fortunato (Theoria, Roma); Io, venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano di Pap Khouma e Oreste Pivetta (Garzanti, Milano); sono tutti casi di “four-hands writings” (e nel medesimo anno esce pure l’antologia poetica Responso, di Arnold De Vos (Cultura duemila, Ragusa). Al 1991 risale La promessa di Hamadi (De Agostini, Novara 1991) del senegalese Saidou Moussa Ba (in collaborazione con Alessandro Micheletti), a cui si aggiunge Nassera Chohra con Volevo diventare bianca, a cura di A. Atti di Sarro, (e/o, Roma 1993). Nel 1994 esce Lontano da Mogadiscio, di Shirin Ramzanali Fazel (Datanews, Roma) e Princesa di Fernanda Farias De Albuquerque (il libro ha ispirato la canzone di De André e un film di Henrique Goldman). Nello stesso anno nasce il concorso Eks&Tra, che fa emergere nuovi autori. (Tahar Lamri, che è stato il primo vincitore del concorso letterario Eks&Tra, pubblicherà nel 2006 I sessanta nomi dell’amore, Fara Editore). Nel 1995 esce il libro di Mohsen Melliti, I bambini delle rose (Edizioni Lavoro, che del medesimo autore aveva già pubblicato, nel 1992, Pantanella – canto lungo la strada). Nel 1999 Portofranco pubblica la raccolta di racconti Il Sole d’Inverno di Muin Masri e il romanzo Verso la Notte Bakonga di Jadelin Mabiala Gangbo, mentre esce per Bompiani il romanzo La Straniera di Younis Tawfik, a cui seguirà Abdel Malik Smari, Fiamme in Paradiso (Il Saggiatore, 2000) e Ron Kubati, Va e non torna (Besa). Per una ricostruzione ulteriore cfr. l’articolo di A. Pallavicini Qualcosa viene da lontano postato sul Blog «Nazione Indiana» (https://www.nazioneindiana.com/2003/12/10/qualcosa-che-viene-da-lontano-1/); il dossier di P. Ellero scaricabile dall’indirizzo www.maldura.unipd.it/masters/italianoL2/Lingua…e…/Ellero_4_12.pdf; e il Repertorio bibliografico ragionato sulla letteratura italiana della migrazione (1989-2008), a cura di C. Montaldi e G. Romano, in «Moderna», XII, 1, 2010, pp. 123-204 (importante soprattutto perché dà un quadro completo della bibliografia critica italiana sull’argomento); S. Brancato, From routes to roots. Afrosporic Voices in Italy, in «Callaloo», 30, 2 (2007), pp. 653-661; Ead., Afro-european Literature(s): a New Discursive Category, «Research in African Literatures», vol. 39, 3, 2008; T. Lamri, Pillole di letteratura migrante in italia, pubblicato nel maggio 2010 sul blog minimum & moralia (http://www.minimaetmoralia.it/?p=2393). Dal 1997 Armando Gnisci ha messo su una Banca Dati degli Scrittori Immigrati in Lingua Italiana (http://www.disp.let.uniroma1.it/basili2001/).
4) Per riflettere su questi aspetti possono essere utili: la nuova edizione di T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari-Roma, Laterza 2011; La questione della lingua per gli immigrati stranieri. Insegnare, valutare e certificare l’italiano L2, a cura di M. Barni e A. Villarini, Franco Angeli, Milano 2001; M. Vedovelli, L’italiano degli stranieri. Storia, attualità e prospettive, Carocci, Roma 2002; ID., Prima persona plurale futuro indicativo: noi saremo: il destino linguistico italiano dall’incomprensione di Babele alla pluralità della Pentecoste, EDUP, Roma 2010; F. Brugnolo, La lingua di cui si vanta Amore. Scrittori stranieri in lingua italiana dal Medioevo al Novecento, Carocci, Roma 2009. Ma si veda anche Eteroglossia e plurilinguismo letterario. I. L’italiano in Europa, Atti del XXI Convegno interuniversitario di Bressanone (2-4 luglio 1993); II. Plurilinguismo e letteratura, Atti del XXVIII Convegno interuniversitario di Bressanone (6-9 luglio 2000), a cura di F. Brugnolo, V. Orioles, Il Calamo, Roma 2002.
5) Come Agota Kristov, per citare un solo esempio tratto dalla letteratura odierna, oppure, nel caso italiano, autrici come Helena Janeczek, o Anilda Ibrahimi.
6) Per le implicazioni psicanalitiche di questa differenza cfr. J. Amati Mehler, S. Argentieri, J. Canestri, La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicanalitica [1990], Cortina, Milano 2003. In traduzione inglese: The Babel of the unconscious: Mother Tongue and Foreign Languages in the Psychoanalytic Dimension, I.U.P., 1994.
7) Cfr. A. Gnisci, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, Meltemi, Roma 2003; Nuovo planetario italiano. Geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa, a cura di A. Gnisci, Città aperta, Troina 2006.
8) J. Mabiala Gangbo, Verso la notte bakonga, Lupetti, Milano 1999; Id., Rometta e Giulieo Feltrinelli, Milano 2001; Due volte, e/o 2009.
9) B. Emecheta, Second-Class Citizen, Allison & Busby, London 1974. Utilissimo, per decostruire i pregiudizi naturalizzati sottesi al razzismo comunicativo, è il libro di Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997.
10) Recupero il titolo, e non soltanto, del libro di Geneviève Makaping, Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi?, Rubbettino, Catanzaro 2001.
11) Cfr. anche gli spunti contenuti, oltre che negli studi già citati, in L. Strappini, Voci di dentro e voci di fuori nella letteratura italiana, in Plurilinguismo multiculturalismo apprendimento delle lingue. Confronto tra Giappone e Italia, a cura di S. Ferreri, Sette Città, Viterbo 2009.
12) L. Rastello, La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, Laterza, Roma-Bari 2010.
13) Non per nulla molti studi sulla scrittura di migrazione citano come punto di partenza e di svolta, come data-trauma, il 25 agosto 1989, quando Jerry Essan Masslo, rifugiato dal Sudafrica, fu trucidato da una banda locale a Villa Literno. Cfr. T. Ben Jelloun, Villa Literno, in T. Ben Jelloun – E. Volterrani, Dove lo stato non c’è, Einaudi, Torino 1991.
14) A. Lakhous, Divorzio all’islamica a viale Marconi, edizioni e/o, Roma 2010.
15) http://culturedelmondoblog.blogspot.com/2011/01/18-ius-soli-ciak-sui-figli.html; ma discute questa drammatica situazione anche il documenterio di Simone Amendola Alisya nel paese delle meraviglie (2010).
16) L’articolo si può leggere anche on line all’indirizzo: http://www.bobmarleymagazine.com/forum_bmwm/showthread.php?t=3392.
17) Italiani per vocazione, a cura di I. Scego (con racconti di: . C. Alves, S. Annecchiarico, K. Komla-Ebri, M. Alatas, I. M. Kakese, U. C. Ali Farah, J. C. Calderón, B. Hirst, Y. Wakkas, J. Mabiala Gangbo. B. Serdakowski.
18) I. Scego, La mia casa è dove sono, Rizzoli, Milano 2010.
19) Mi limito a un solo esempio, tratto dalla narrativa americana: Kim Ragusa, The Skin Between Us: A Memoir of Race, Beauty, and Belonging, W.W. Norton, 2006 [Nutrimenti, Roma 2008].
20) Un altro esempio italiano: C. Ali Farah, Madre piccola, Frassinelli, Roma2007: Barni e Domenica sono cresciute insieme a Mogadiscio, bambine felici in un mondo compatto di affetti familiari e radici comuni, fin quando Domenica è dovuta partire con la madre per l’Italia. Il ritorno a Mogadiscio è un momento fatale: lo scoppio della guerra civile conincide con il trasferimento di Barni a Roma e per Domenica segna un decennio di smarrimento.
21) Anche nei romanzi di Lakhous, molto diversi, la struttura del giallo trasforma in codice narrativo il tema della ricerca di identità.
22) Rileggiamo, a titolo di esempio, un passo tratto dall’Epilogo di Oltre Babilonia (pp. 443-444): «Mamma mi parla nella nostra lingua madre. Un somalo nobile dove ogni vocale ha un senso. La notra lingua madre. Spumosa, scostante, ardita. Nella bocca di mamma il somalo diventa miele. […] Ma poi, in ogni discorso, parola, sospiro, fa capolino l’altra madre. Quella che ha allattato Dante, Boccaccio, De Andrè e Alda Merini. L’italiano con cui sono cresciuta e che ho anche odiato, perché mi faceva sentire straniera. L’italiano aceto dei mercati rionali, l’italiano dolce della radio, l’italiano serio dell’università. L’italiano che scrivo […]».
23) Rimando solo a un libro, molto bello e importante: R. Bonavita, Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2009.
24) Un libro con cui esplicitamente dialoga il romanzo di G. Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007. Ma sul colonialismo italiano cfr. anche il romanzo di Franca Cavagnoli, Una pioggia bruciante, Frassinelli, Roma 2000.
25) Per ricostruire i fili di questa storia così taciuta cfr. N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002; e da un punto di vista letterario G. Tomasello, La letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo, Sellerio, Palermo 1984 (una ricostruzione dell’espansione coloniale attraverso le rielaborazioni letterarie); N. Farah, Rifugiati. Voci della diaspora somala, Meltemi Roma 2003; Id., L‘Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Palermo, Sellerio, 2004. È poi molto proficua la lettura dell’articolo di Maria Coletti dedicato alla cinematografia italiana colonialista, negli anni del fascismo, che si può leggere on line all’indirizzo: http://www.cinemafrica.org/spip.php?article774.
26) A. Del Boca, Italiani brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005.
27) «[…] Non riesco a fare distinzione tra letteratura scritta, orale e anche canto», osserva Gabriella Ghermandi nell’intervista a cura di A. Di Grigoli pubblicata in Letteratura identità nazione, a cura di M. Di Gesù, :due punti edizioni, Palermo 2009, p. 38.
28) G. Kuruvilla, È la vita, dolcezza, Baldini Castoldi & Dalai, Milano 2009.
Molto bello. Anch’io spesso ho pensato che questa difinizione non significava niente. E mi sono convinto leggendo anche loro stessi
http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_07_30-section_6-index_pos_2.html
Saggio bello e condivisibile. Grazie
a me infastidisce pure il termine migranti.MI ricorda quell’accezione negativa della pietà che se non sbaglio ha approfondito Kundera nell’insostenibile leggerezza dell’essere.È melliflua,e non gronda manco una goccia di quel sangue e sudore che la condizione che vorrebbe descrivere ,e che dobbiamo prendere a cuore(perchè la vita,fuori dai giochi a quiz di prima serata televisiva,è fatta di questo),trasuda
esistono gli scrittori e gli scribacchini il resto non conta.
Non sta scritto da nessuna parte che uno scrittore debba utilizzare l’una o l’altra lingua tantomeno la lingua madre.
La scelta della lingua risponde a un criterio di efficacia.
C.Rivera una scrittrice messicana usa lo spagnolo per scrivere in prosa e l’inglese per scrivere poesia.
complimenti