Per Luigi Di Ruscio
di Adelelmo Ruggieri
tutto questo fuori è anche dentro
Cristi polverizzati pag 68;
Le Lettere, Firenze, 2009
Venne stampata nel mese di giugno 1953 dalla Maestri Arti Grafiche per conto di Schwarz Editore, Via San Martino 9, Milano. L’edizione originale era composta di cinquecento esemplari numerati da uno a cinquecento su carta uso mano; quello da cui ho appena trascritto queste parole appena sopra è l’Esemplare Numero 64. Apparteneva “All’amico Alvaro Valentini/ alla nostra amicizia/ alla sua poesia”. Ora è custodito presso la Biblioteca Civica Romolo Spezioli, Piazza del Popolo n. 63, Fermo, Fondo Valentini, INV 4297. È fatto di 32 pagine, le prime quattro non numerate, le altre sì. Il titolo della raccolta è “Non possiamo abituarci a morire”. Sulla prima facciata il titolo sta da solo. Sulla terza viene ripetuto con in alto il nome dell’autore: Luigi Di Ruscio. Da pagina 5 a pagina 7 c’è la “Prefazione” di Franco Fortini con una premessa contro “l’effusione generica ed informe”, ma non è certamente il caso dei versi del “giovane operaio” e non lo è, scrive Fortini, per due motivi: il “Primo, perché questi versi sono un documento umano delle aree depresse, di quella parte di noi stessi depressa che chiede, da generazioni, il riconoscimento iniziale del volto umano […]”; il “Secondo, perché la forma di queste poesie si inserisce nelle ricerche della nostra poesia contemporanea in una misura che dà buona testimonianza della autenticità loro […]”. È parecchio che non venivo in Biblioteca. Volevo vedere i libri che ci sono di Luigi, ne mancano solo alcuni. Fra di loro uno piccolo ma cruciale, le 15 Epigrafi con dedica edite da “Battello stampatore” nel 2007; la dedicataria è l’amatissima nonna Cristina Nardinocchi, nata a Castignano nel 1878. Più avanti la ritroveremo Cristina. Le 15 Epigrafi sono a loro modo il complementare della raccolta di esordio. Non manca invece l’ultimo libro dato alle stampe dall’editore Ediesse per la cura di Angelo Ferracuti, che fortissimamente ha voluto che ci fosse “il romanzo norvegese” di Luigi; si chiama “La neve nera di Oslo”, inventariato al N. 34773 C; porta in copertina un’immagine bellissima: Luigi con il primo figlio in una foto degli anni ‘sessanta. Dalla data di edizione di “Non possiamo abituarci a morire”, il 1953, l’anno della “legge truffa”, sono trascorsi cinquantotto anni. Adesso è il 2011, il tasso dei giovani senza lavoro è di 1 su 3. Sto guardando questi due libri. Ad essi appartengono le prime parole di Luigi rese pubbliche e le ultime sue pubblicate in vita. Ripenso a poco fa, quando ho preso la macchina c’era un foglietto piegato in due con la massima cura, riposto dove sta la chiave della portiera. C’era scritto “Io cerco un lavoro serio”, poi c’era il numero di cellulare. Da generazioni e generazioni e generazioni viene chiesto il riconoscimento iniziale del volto umano, ma la domanda resta sempiternamente inevasa. In una conversazione dell’anno scorso con Luigi, pubblicata su Smerilliana n. 11, in coda alla stessa, gli chiesi: “Parlaci un po’ di Poesie operaie, la raccolta antologica del 2007; nella sua postfazione Massimo Raffaeli ricorda la povertà del Vicolo Borgia, a Fermo. Sai, ci passo delle volte. Di lì a trecento metri esatti iniziava la campagna. Ora non si capisce bene che cosa inizia: una sorta di immane falansterio impazzito che parte da lì per arrivare al polo nord e poi a quello sud e, visto che ci si trova, fa anche il giro degli oceani.” Luigi mi rispose: “Poesie operaio, certo. Ho lavorato in fabbrica dal 1957 al 1994 e questo lavoro mi ha dato la possibilità di mantenere una famiglia di figli quattro e mi ha dato la possibilità di scrivere […] posso assicurare che io non sono emigrato per vedere il mondo, se mi avessero dato lavoro a Fermo magari come scopino o guardiano delle latrine pubbliche sarei rimasto a Fermo per sempre, sono partito solo per trovare un lavoro che mi facesse scrivere in pace e questo lavoro l’ho trovato in una fabbrica di Oslo e devo essere grato alla socialdemocrazia norvegese che mi ha dato la possibilità di fare una vita dignitosa.” “La neve nera di Oslo” è fatta di 164 pagine fitte fitte e l’ultimo paragrafo comincia così: “È necessaria la massima resistenza quando le forze vengono meno. Ho sentito alla radio il più vecchio dei poeti scandinavi leggere le sue ultime poesie, un sussurro, una voce ridotta al minimo.” La prima poesia di “Non possiamo abituarci a morire è invece questa, la trascrivo esattamente come sta nella raccolta:
Avevo cinque anni
una vecchia mi fece capire
perché nessuno mi teneva sui ginocchi
mia nonna che mi teneva per mano non mi
difese
né per consolarmi mi strinse la mano
per questo sono andato solo sui fiumi
l’acqua non mi è servita per specchiarmi
ritornavo a casa per non dormire sul greto
a quell’età la fame fa essere pazzi
fa divenire presto adulti
e tutte le erbe che le capre hanno brucato
ho imparato a cogliere
ho preso il gusto del sapore amaro
questo è stato il mio latte
e perché rubavo con calma
avevo i frutti più belli
andavo solo per non essere scoperto
al mio odore i cani non hanno abbaiato
e nessuno può condannarmi
se presto mi sono adoperato a negare iddio
sulle mura che l’acqua gonfiava
avevo visto solo le immagini di carta
ho scoperto i libri nel mucchio dello
stracciaio
ancora oggi mi incanto a guardarli
cercavo tra le carte la pagina scritta
ho gridato e mi hanno guardato come essere
vivo
come qualcosa di più di un viaggiatore
sono entrato nelle strade
quale bambino non sogna di vestire da uomo
io lo sono stato presto
ho trovato ancora con i pantaloncini corti
una donna che è rimasta contenta
perché gli uomini le facevano male
ho volato sui pensieri
sognando per ogni foglia che ho
visto cadere
erano le ore senza riposo
le chiese servivano per rinfrescarmi
giravo assetato delle donne
che presto con soldi rubati ho pagato.
Ora sento l’amore delle donne che sfiora il
viso di fiati
stringo i capelli grassi
e le mie labbra da negro mi portano fortuna
gli occhi che non sanno riposare.
La locuzione che dà il titolo alla raccolta di esordio di Luigi Di Ruscio, “non possiamo abituarci a morire” appare in coda all’ultima poesia. Tre versi prima la stessa locuzione si presenta al modo che era ed è dei poveri cristi, dei “cristi polverizzati”:
Non possiamo abituarci a crepare
neppure un asino che da noi si racconta l’ha
potuto
siamo gente paziente
ma non possiamo abituarci a morire
noi vogliamo vivere
perché la vita ci piace
abbiamo il gusto della vita
con le mani che hanno tirato su tutto.
Il titolo della raccolta fu scelto dallo stesso Franco Fortini. In origine questa raccolta si chiamava “Poesie per un vicolo”.
Fermo, marzo 2011
[ si ringrazia EDIESSE per l’immagine tratta dalla copertina de La neve nera di Oslo ]
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ci sono vite – e morti – che della “salvatichezza” e della privazione fanno una splendente via di salvezza. Il “soprascritto” era fra questi, grazie Ade, V.
Grazie ad Orsola e ad Adelelmo.
Ringrazio l’amico Adelelmo per aver riportato qui – in questo periodo così difficile per molti, in questo mondo straziato dove le mani o sono vuote o tengono un’arma per chiedere di riportarle il gesto del lavoro e quello di spezzare un pane – la voce di Luigi Di Ruscio. Io da quando so che non è più fra noi mi sento molto più solo.
Con affetto. FF
la cordialità e il pudore della scrittura di adelelmo
andrebbero insegnate ai guitti che stanno al governo…….
ma l’impresa è impossibile
http://thompsonian.info/sc03-The-Boy-Down-the-Road.mp3
“non possiamo abituarci a morire” … un verso bello, autentico, attuale!
Rosaria Di Donato
Luigi, scinne: t’aggia parlà, viene ja.
Ce ne jammo vicono’o mare a via Caracciolo.
Tra ‘a culonna Spezzata addò ce tuffamo
‘a ncopp’e scoglie e a villa Comunale.
Tengo a te dicere cierti cose d’a vita, per
esempio ‘e pazziellele d’e ccriature e d’e
guaglincielle.
‘Na bambola scassata e senza braccia,
e nu pallone ‘e pezza ca se mporpa d’acqua.
E ppo’ ce stanne ati cose. Ma lieveme ‘na curiosità.
‘E pparole d’e poesie ca tu scrive, comme’e scegli:
Songo loro a te chiammà o ‘a notte
te veneno nzuonno?
Guaglione, scusami ma stasera aggia sta in famiglia.
Perdonami, ma nun mancheranno juorno pe’ parlà.
La delicatezza profonda di Adelelmo Ruggieri raggiunge uno stile rarissimo. Tocca le “segrete” della poesia di Luigi con raffinatezza. Se nei blog d’oggigiorno tutti usassero questo garbo ci rinfrancheremmo col mondo. Ma di gentleman writer come lui ne esistono pochi oramai. Un bell’esempio di recensione e ricordo al contempo erudito e affettuoso. Grazie!
Di Ruscio Ruggeri & Ferracuti un trinomio fermano come pochi. Unico, direi. E la recensione di Adelelmo , è vero, è elegante, toccante, essenziale, ivi incluso il gusto inventariale dei repertori. Di Ruscio, come persona – come tutte le persone che sono state, sono e saranno – è andato, e nulla ci si può fare se non provare il dolore sincero e l’afflizione di chi l’ha conosciuto di persona o di chi gli ha voluto bene per i suoi scritti – ma per fortuna ci ha lasciato la sua poesia, che è grande e bella e fatta con quelle “mani che hanno tirato su tutto”. E , foscolianamente, sta lì la sua salvezza, che ha radice proprio nel non volersi abituare a morire, in quella spinta di chi ” è assetato delle donne” e ama la vita e in fondo la donna l’ha cercata per tutta la vita, la donna che ha nome poesia. Ma sono sicuro che Di Ruscio – “cristo polverizzato” – ne avrebbe riso, di questo. Ed in fondo è giusto così. Ora viva finalmente nei suoi versi.
http://www.ediesseonline.it/press/5576/nazione-indiana-12-marzo-11
ci sono parole desuete di questi tempi
che riguardano certi uomini
certe vite e certi versi
,\\’
Il candore candente di Di Ruscio, la sua incandescente poesia…
Orsola Puecher non poteva meglio sintetizzare l’uomo e la sua poesia, in tre (sublimi) parole.
I poetini rampanti referenziati / referenziali che vanno per la maggiore dovrebbero ( dovrebbero ) confrontarsi con questa poesia ; quel che si dice “una poesia con le p. ” . Ma sono troppo occupati ad apparire , l’essere non paga .