Carmelo Pinto, Ilide Carmignani: un dialogo
CP: Ci vuole raccontare in che modo è avvenuto il suo primo approccio alle opere di Bolaño, quale è stato il primo libro che ha letto? E quali sono state le sue prime impressioni a caldo ?
IC: Sentii parlare per la prima volta di Bolaño alla fine degli anni Novanta, al Salón del Libro Iberoamericano che organizza Luis Sepúlveda a Gijón, nelle Asturie. Un amico giornalista mi disse: «Lo conosci? Pare sia qualcosa di davvero nuovo», e io corsi a comprarmi Estrella distante. Rimasi molto colpita, e all’inizio anche disorientata, lo confesso; era una scrittura difficile da inquadrare. Mi venne subito una gran voglia di tradurlo, ma rientrata in Italia scoprii che Angelo Morino l’aveva già portato da Sellerio. Così, con dispiacere, mi rassegnai a leggerlo e basta, che pure non è poco. Poi, qualche anno dopo, ebbi modo di vederlo in carne e ossa alla Fiera del Libro di Torino, allo stand Sellerio. Un uomo magro, con gli occhiali, l’aria un po’ sperduta e un po’ annoiata, in mezzo a un mare blu di libri. Non osai chiedere a Morino, con cui avevo appuntamento lì allo stand, di presentarmelo. Bolaño era già molto malato, non ho avuto una seconda chance. Quando, dopo la sua morte, Adelphi mi ha offerto 2666, ho considerato un vero privilegio poter lavorare su un autore del genere.
CP: Che difficoltà ha incontrato nella traduzione di 2666? Rispetto agli altri autori latinoamericani la scrittura di Bolaño pone dei problemi particolari di traduzione? I critici per esempio sottolineano l’uso di forme regionali (Cile, Messico, Spagna) che difficilmente si possono rendere con la traduzione.
IC: È una difficoltà sicuramente presente: ci sono varianti dello spagnolo che da un lato consentono a Bolaño di caratterizzare i personaggi anche in base alla loro provenienza geografica, e dall’altro permettono alla voce narrante di evitare le ripetizioni, sinonimizzando il lessico con termini provenienti da aree diverse, senza mai uscire da un registro colloquiale. Nel primo caso è molto difficile restituire appieno le sfumature, a meno che non caratterizzino anche la classe sociale (a volte le espressioni “dialettali” indicano uno strato più basso) grazie a metodi di compensazione. Nel secondo caso, si può provare a ricorrere con grande delicatezza, per esempio, ai pronomi. Più in generale, davanti alla ricchezza espressiva di una lingua vivacissima parlata da cinquecento milioni di persone, si avverte con particolare acutezza la rigidità dell’italiano sui registri colloquiali o gergali; se non si fa attenzione si scivola subito nel milanese o nel romano, che sarebbero stranianti in bocca a un personaggio messicano o spagnolo. Paradossalmente, può essere più facile tradurre testi alti, aulici, che non muoversi su una lingua come quella di Bolaño.
CP: In una sua recente intervista lei sottolineava l’uso di forme paratattiche nella scrittura di Bolano. Vuole approfondire questo tema e le conseguenze sul piano stilistico nella narrativa di Bolano?
IC: Sulla base della mia esperienza di traduzione, direi che c’è un ampio ricorso alla paratassi in Bolaño, affiancato, là dove invece subordina, a un vasto utilizzo dei nessi temporali e spaziali, a scapito di quelli causali, consecutivi e finali. Tutto questo concede alla sua scrittura una finta trasparenza – finta perché in realtà il periodare è complesso, estremamente ricco e fluido, grazie anche al sostegno di una punteggiatura anomala – ma soprattutto crea un andamento particolare, “rizomatico”, che a mio avviso riflette quella struttura arborescente rilevata da tutti, critica e lettori, sul piano narrativo. In qualche modo si potrebbe dire che i due aspetti riflettono, ciascuno sul suo piano, la poetica di Bolaño, la sua concezione della vita come caos dominato dal caso, senza un perché, mentre l’uomo, specie quando è infelice, ha bisogno di credere in qualche disegno. Come sintetizzano in una bella scena della Parte dei critici Edwin Johns, il pittore pazzo, e Morini: il mondo è tutto un caso, ma il caso è una sorta di lusso davanti al dolore dell’esistenza. Così il lettore cerca invano in Bolaño una trama tradizionale, compiuta e autonoma, avulsa dal mare di storie implicite in ogni libro; troverà invece di tutto – anche dal punto di vista dei generi: narrativa, prosa, poesia – ma in forma frammentaria, come nella vita.
CP: Qual è secondo lei la caratteristica che distingue lo stile di Bolaño rispetto alla narrativa latinoamericana fino al punto da indurre qualcuno ad affermare che la sua narrativa è difficilmente collocabile in un particolare ambito geografico o tradizione letteraria?
IC: È una domanda complessa. Mi sembra che la novità sia soprattutto nella tecnica di narrazione, che però, come dicevo, si riflette sullo stile della scrittura e sulla scelta del materiale narrativo. Si avverte uno stacco rispetto al passato: un romanzo come 2666 fa invecchiare di colpo tutta la letteratura che ha attorno. Può darsi che, come sostengono i critici, con Bolaño e altri autori come Sebald stia nascendo una letteratura post-nazionale o globale che va oltre il cosiddetto postcoloniale. Vedremo. Certo Bolaño, forse per le sue difficili esperienze di vita fra Cile, Messico e Spagna, forse per una specie di vocazione conflittiva all’isolamento, ha saputo gettare uno sguardo molto critico sui modelli di scrittura contemporanei e se ne è distaccato quasi con ferocia. Detto questo, credo che come sempre si possa rilevare in lui l’influenza di vari scrittori latinoamericani, che del resto invocava come padri. Penso soprattutto a Cortázar e, andando più indietro, a Quiroga; per un certo modo asciutto di descrivere a me fa venire in mente anche Borges.
CP: Molti scrittori e critici amici di Bolaño hanno sempre sottolineato che era un grande coversatore, le sue capacità di trasformare una banale storia ascoltata in un bar in una seducente finzione narrativa. La caratteristica dei suoi romanzi è la continua disgressione, una successione infinita di storie. Il lettore ha la costante sensazione che la trama si sfilacci da un momento all’altro, tuttavia la narrazione regge fino alla fine, dopo mille pagine e mille storie. Qual è il segreto di questo miracolo secondo lei?
IC: Be’, è evidente che ci sono grandi doti affabulatorie in Bolaño. E nel suo lettore c’è il piacere di abbandonarsi a un romanzo totale, un romanzo in cui può immergerti come t’immergi nel mondo, che è un continuo intrecciarsi di storie, non solo la tua ma anche quelle degli altri, storie non sempre complete, non sempre sensate. Se il lettore non sa apprezzare questo piacere, i libri di Bolaño possono essere davvero ardui.
CP: Molti hanno cercato di studiare il rapporto tra prosa e poesia nell’opera di Bolano. Si è parlato di letteratura transgenere, di prosa poetica e di poesia prosaica. Il lettore ha la sensazione che la prosa di Bolano sia accompagnata da una specie di respiro o sottofondo o ritmo poetico. O che sia attraversata da improvvisi lampi di intensità poetica. Che pensa al riguardo?
IC: Non posso che essere d’accordo. C’è una musicalità nella prosa di Bolaño che si avverte subito. Traducendo, avevo la sensazione di respirare al suo ritmo. Potrei dire che avvertivo spesso ottonari, ma è vero che è così un po’ per tutto lo spagnolo, come l’endecasillabo per l’italiano. Il suo è un ritmo complesso, oltre la metrica, dove i silenzi, le pause, giocano una parte importante, e dove le cesure logiche non sempre coincidono con quelle della punteggiatura, tanto da dare a volte l’impressione di una sorta di enjambement prosastico continuo che ti trascina nella lettura; un’altra sensazione che avevo traducendo era quella di incessante ripresa: la frase sembrava infine chiudersi, come ritmo e come senso, e invece si prolungava inaspettatamente in una sorta di chiosa (e questi potrebbero essere due dei segreti della tecnica affabulatoria di Bolaño). Quanto ai lampi di intensità poetica, si ha in effetti l’impressione di una rottura, come se la superficie della prosa si squarciasse di colpo per far emergere singole espressioni, frammenti talvolta minimi di frase che appartengono a tutt’altro linguaggio, un linguaggio molto più metaforico e spesso surreale. Forse il realvisceralismo che affiora.
CP: I lettori hanno atteso con ansia l’uscita del Terzo Reich, appena pubblicato. Che impressione si è fatta di questo romanzo postumo e incompiuto ?
IC: È un romanzo che arriva dal passato di Bolaño, una specie di noir cupo e ossessivo ambientato in una località balneare della Costa Brava che assomiglia molto alla Blanes dove abitava lui. Un libro lontano da 2666 e anche dai Detective selvaggi, dal Messico e dall’impianto del romanzo totale, ma allo stesso tempo un libro molto suo, pieno di atmosfere ambigue, sfuggenti, in cui i personaggi si muovono come sempre sull’orlo del baratro. La trama è semplice: un giovane turista tedesco viene trascinato da un gioco di guerra, Il Terzo Reich appunto, in uno scontro all’ultimo sangue. L’avversario è un uomo completamente sfigurato dalle ustioni che dorme sulla spiaggia, fra i pattini che di giorno noleggia per guadagnarsi alla meglio la vita. E poi c’è l’algida fidanzata del protagonista, una coppia di inquietanti amici tedeschi, due spagnoli che vivono di espedienti e la bellissima Frau Else, moglie del proprietario dell’albergo. Forse qualcuno viene stuprato, qualcuno muore, qualcuno fugge… Quanto all’incompiuto, capisco la diffidenza dei recensori che vedono spuntare nuovi romanzi dal cappello dell’agente, ma Il Terzo Reich a me è parso un libro finito e rifinito, addirittura con una trama più strutturata del solito (fra l’altro Bolaño è molto bravo a far salire la suspence) e con tanto di epilogo finale dopo lo scioglimento della tensione in una notte tragica. Come traduttrice, potrei aggiungere che è stata una prova ardua per via del mondo intricatissimo dei giochi di guerra, anzi di un gioco particolare, a cui ormai da anni non gioca più nessuno, talmente complesso da essere definito un monster game. Devo ringraziare Andrea Angiolino, autore del Dizionario dei giochi della Zanichelli, che mi ha aiutato a ricostruire la lingua da iniziati del Terzo Reich, e Francesca Erba, della redazione Adelphi, che ha verificato minuziosamente con me tutti i riferimenti storici delle partite alla Seconda Guerra Mondiale, battaglia per battaglia, reparto per reparto, generale per generale, e così via. Francesca Erba, a dire il vero, mi ha sostenuto come sempre in tutto. Senza di loro non ce l’avrei mai fatta.
CP: Ci auguriamo come lettori che sia ancora lei a tradurre gli altri due romanzi postumi Diorama e Los sinsabores del verdadero policía Quando è prevista la loro pubblicazione?
Sto iniziando adesso a lavorare ai Sinsabores, che è bellissimo, una sorta di sesto romanzo di 2666, anche se con alcuni desajustes. Ritroviamo Lalo Cura, scopriamo perché Amalfitano ha lasciato Barcellona e si è sepolto a Santa Teresa… Credo, ma non sono certa, che uscirà a fine anno. Per Diorama non so dire, mi spiace.
CP: Cosa pensa del processo di mitizzazione della figura di Bolaño negli USA? pensa che sia solo un’abile mossa di marketing oppure come qualcuno ha sottolineato risponde all’immaginario statunitense che nella letteratura latinoamericana ritrova il piacere dell’esotico e del selvaggio?
IC: Non sono la persona più adatta a rispondere a una domanda del genere, ma credo che se il lettore americano cercasse un certo tipo di esotismo ne troverebbe di più in altri scrittori. Resto sempre stupita di come Bolaño sappia felicemente sfuggire all’esotismo, che sia messicano, spagnolo, francese, italiano, tedesco o russo, solo per elencare alcune delle ambientazioni di 2666. Riesce sempre a far apparire tutto molto quotidiano. Sarei più incline a pensare che sia la curiosità la molla del successo: gli ispanici sono ormai la prima minoranza degli Stati Uniti e sono una comunità molto attaccata alla propria lingua e alla propria cultura. In un certo senso, nel paese del melting pot, sono il diverso per eccellenza. Non a caso la frontiera con il Messico è diventata un luogo letterario anche per gli scrittori americani, pensiamo per esempio a Cormac Mc Carthy. A questo aggiungerei naturalmente il valore letterario intrinseco dell’opera di Bolaño, l’apertura della cultura americana di fronte alle grandi novità (non sempre la vecchia Europa è pronta ad accogliere gli stimoli) e – perché no – un bravo agente…
CP: Ci vuole parlare del suo recente viaggio in Messico ?
IC: È stato un giro sulle orme di Bolaño. Ne avevo già fatto un altro nelle calli di Arcimboldi, a Venezia. Nel DF ho cercato le sue strade, i suoi caffè. Ho conosciuto qualche suo amico o ex amico. Sono andata nei bagni al secondo piano della Facoltà di Lettere della UNAM. Ho sentito il vento che soffia la sera sui viali… In altre parole ho cercato di avvicinarmi a lui nel modo indiretto, unilaterale e probabilmente goffo di quei lettori un po’ ossessivi che sono i traduttori.
Ilide Carmignani è nata e vive in Toscana. Si è laureata all’Università di Pisa, perfezionandosi poi alla Brown University (USA) e all’Università di Siena nell’ambito della letteratura spagnola e ispanoamericana e della traduzione letteraria. Da venticinque anni svolge attività di traduzione, editing e consulenza e per le maggiori case editrici italiane. Fra gli autori tradotti: J. L. Borges, L. Cernuda, C. Fuentes, A. Grandes, G. García Márquez, P. Neruda, O. Paz, A. Pérez Reverte, L. Sepúlveda. Ha tenuto e tiene corsi e seminari di traduzione letteraria presso università italiane e straniere. Nel 2000, ha vinto il I Premio di Traduzione Letteraria dell’Instituto Cervantes. Dallo stesso anno cura gli eventi sulla traduzione per il Salone del Libro di Torino (l’AutoreInvisibile). Dal 2003 organizza, insieme al prof. Stefano Arduini, le Giornate della Traduzione Letteraria presso l’Università di Urbino. Nel 2008, è stata eletta socio onorario dall’AITI – Associazione Italiana Traduttori e Interpreti. Ha pubblicato Gli autori invisibili. Incontri sulla traduzione letteraria (Besa 2008), una raccolta di interviste a traduttori, editori e scrittori. Di Roberto Bolaño ha tradotto, per Adelphi, 2666, Amuleto e Il Terzo Reich e sta traducendo Los sinsabores del verdadero policía.
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splendida intervista. bravissima ilide e ottime le domande. è auspicabile che le interviste a traduttori di qualità diventino più frequenti, invece se ne leggono ancora troppo poche….
bell’intervista, ho sentito parlare di Bolaño una sera a Firenze, me ne sono innamorato leggendo qualcosa in rete. sarà il mio amante letterario come foster wallace :))
Una bella intervista, e non è un caso, secondo me, che a porre le domande a Ilide Carmignani sia uno dei migliori studiosi e appassionati
di Bolaño sulla piazza.
condivido l’opinione di Gabriella: non solo interviste ma anche critiche e recensioni. I traduttori sono gli unici che ormai Leggono i libri di cui parlano, al contrario dei critici cosìancoradetti, che scribacchiano nei giornali e nelle riviste a comando, ridotti ormai al rango di “promotori editoriali”. I traduttori sono quelli che scoprono gli autori di qualità ed, editori permettendo, consentono la loro diffusione per la gioia dei lettori.
[…] Link articolo originale: Carmelo Pinto, Ilide Carmignani: un dialogo – Nazione Indiana […]
Bellissima Intervista :è chiara, usa un linguaggio semplice, abbordabile anche da chi come me non conosce Bolaño alla perfezione.
Domande mirate.,risposte molto precise….. Un’intervista che stimola la curiosità di conoscere ciò di cui si parla; è quello che serve per imparare ad amare un autore..
davvero un bel leggere.
graziassai!
Il riferimento a Venezia di I.carmignani (la foto è proprio quella dei luoghi descritti da Bolano in 2666, dove da una delle finestre sul retro di calle Turlona, nel sestiere di Canaregio, Arcimboldi e la baronessa von Zumpe si sono affacciati nudi a guardar nevicare su Venezia:
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Arcimboldi si alzò dal letto e disse:ascolta. E la baronessa cercò di ascoltare, ma non sentì nulla, solo silenzio, un silenzio assoluto. E allora Arcimboldi le disse: proprio quello, il silenzio, lo senti? E la baronessa fu sul punto di dirgli che il silenzio non si poteva sentire, si sentivano solo i suoni, ma le parve una pedanteria e tacque. E arcimboldi, nudo, si avvicinò alla finestra e l’aprì e si sporse tutto fuori, come se volesse gettarsi nel canale, benchè non ne avesse intenzione. E quando si tirò indietro disse alla baronessa di andare a vedere. E la baronesa si alzò, nuda come lui, e andò alla finestra e vide nevicare su Venezia.
[2666, la parte di arcimboldi, pag 610]
Bellissima intervista. Sapere che l’opera di Bolaño è affidata alla passione, alla cura e al linguaggio di Ilide Carmignani è uno di quei pensieri che rallegrano la vita dei bolañani selvaggi. Grazie all’ottima traduttrice e a Carmelo, che fa sempre le domande giuste. Ora, incoraggiata e molto convinta, apro Il terzo reich (perché l’orrore di veder sbucare un mostro postmortem – un po’ come capita con gli inediti di Jeff Buckley – mi rendeva titubante).
Mi è piaciuta molto questa intervista perché pone quegli interrogativi su cui, come lettrice, mi sono soffermata tante volte. Qual è il segreto delle opere di Bolaño? Come fa ad essere così poetico anche nella prosa? E le risposte di Ilide Carmignani sono generose e illuminanti perché rivelano sia aspetti tecnici normalmente sconosciuti, che una profonda conoscenza e una grande sintonia della traduttrice con l’”idea” dell’autore.
Condivido pienamente, per esempio, che “una grande attrattiva dei libri di Bolaño consista nel fatto che ci si troverà (…) di tutto (…) in forma frammentaria, come nella vita”.
“Il piacere di abbandonarsi” nella lettura di Bolaño “come ti immergi nel mondo” inoltre, esprime perfettamente a parole una sensazione fisica che provo spesso leggendo i libri di Bolaño.
Onore e merito a intervistatore e intervistata.
Aggiungo solo un particolare. In base alla mia esperienza di lettrice di Bolaño ho notato un aspetto insolito e molto affascinante: l’insorgere di una specie di solidarietà tra i suoi lettori, per cui ci si rallegra gli uni con gli altri quando si scopre la passione comune (una bolañista, evviva – mi hanno scritto in un post), con una forte inclinazione a considerare l’altro con istintiva simpatia.
Un grazie sentito a Carmelo e a Ilide, sia per l’intervista sia per l’impagabile lavoro che svolgono, il primo con la sapiente gestione di quella miniera di diamanti che è l’Archivio Bolaño, la seconda per la straordinaria competenza e l’autentica passione con cui sa rendere la voce di Roberto (ho il sospetto che sia una medium…). Da non perdere la sua necessaria nuova traduzione di Amuleto. Da notare la generosità con cui cita il lavoro della redattrice di Adelphi e la collaborazione del consulente, sarebbe bello leggere più spesso da parte dei traduttori simili riconoscimenti. Ho appena iniziato (con colpevole ritardo) la lettura di Il Terzo Reich, ma già nelle prime pagine ritrovo certe atmosfere di La pista di ghiaccio.
Concordo assolutamente sull’opinione di Carmelo circa il fatto che molto spesso i traduttori sono quelli che (più di certa critica) entrano in sintonia col mondo dei “loro” autori e ne riconoscono per primi il valore. (Va be’, sarà perché appartengo alla stessa parrocchia…)
E spesso sono loro a “scoprirli” per primi, e a faticare per convincere gli editori a pubblicarli, basti pensare a quanto ha fatto il compianto Angelo Morino, non solo per Bolaño, ma prima di lui per altri scrittori straordinari come Manuel Puig e César Aira (del quale tradusse quasi quindici anni fa l’ormai introvabile Ema la prigioniera).
I complimenti sono tutti per Ilide Carmignani che ha saputo chiarire alcuni interrogativi che tutti i lettori si pongono.
Forse puoi’ interessare leggere il brano della dicussione tra Morini e Edwin Johns, il pittore pazzo, ne La Parte dei critici, vol I, pag 120-121
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All’inizio Johns fece uno forzo per intavolare un dialogo. Chiese a Morini se avesse acquistato qualcuna delle sue opere. La risposta di Morini fu negativa. Disse di no, poi aggiunse che le opere di Johns erano troppo care per le sue tasche. Espinoza notò allora che il libro da cui l’infermiera non staccava lo sguardo era un’antologia della letteratura tedesca del Novecento. Con il gomito fece cenno a Pellettier, e l’altro chiese all’infermiera, più per rompere il ghiaccio che per curiosità, se fra gli autori ci fosse anche Benno von Arcimboldi. In quel momento tutti entirono il verso o il richiamo di un corvo. L’infermiera rispose di si. Johns si mise a storcere gli occhi e poi li chiuse e si passò la mano ortopedica sul viso.
«E’ mio il libro,» disse «gliel’ho prestato io »
«E’ incredibile,» disse Morini «che coincidenza »
«Ma naturalmente non l’ho letto, non conosco il tedesco».
Espinoza gli chiese per quale motivo, allora, l’avesse comprato.
«Per la copertina. C’è un disegno di Hans Wette, un buon pittore. Quanto al resto,» disse Johns «non si tratta di credere o non credere alle coincidenza. Il mondo è tutto un caso. Secondo un mio amico sbagliavo a pensarla così. Il mio amico diceva che per chi viaggia in treno il mondo non è un caso, anche se il treno sta attraversando territori sconosciuti al viaggiatore, territori che il viaggiatore non rivedrà mai più in vita sua. non è un caso neppure per chi si alza alle sei del mattino morto di sonno e va al lavoro. Per chi non ha altra scelta che alzarsi e aggiungere altro dolore al dolore che ha già accumulato. Il dolore si accumula, diceva il mio amico, è un dato di fatto, e quanto più grande è il dolore, minore è il caso»
«Come se il caso fosse un lusso? » domando Morini.
In quel momento Espinoza, che aveva seguito il monologo di Johns, vide Pellettier accanto all’infermiera, un gomito appoggiato al bordo della finestra e l’altra mano che aiutava, con un gesto cortese, a cercare la pagina dov’era il racconto di Arcimboldi. L’infermiera bionda seduta sulla sedia con il libro in grembo a Pellettier, in piedi al suo fianco, in una posizione non priva di disinvoltura. E la cornice della finestra e le rose fuori e più in là il prato e gli alberi e il pomeriggio che avanzava fra le rocce e le gole e le rupi solitarie. Le ombre che si sposavano impercettibilmente all’interno della dèpendance creando angoli che prima non c’erano, disegni incerti che apparivano all’improvviso sui muri, cerchi che svanivano come esplosioni senza suono
«Ilcaso non è un lusso, è l’altra faccia del destino e anche qualcos’altro» disse Johns.
«Che altro? » disse Morini.
«Qualcosa che sfuggiva al mio amico per una ragione molto semplice e comprensibile. Il mio amico (forse è presuntuoso da parte mia continuare a chiamarlo così) credeva nell’umanità, e quindi credeva nell’ordine della pittura e nell’ordine delle parole, perchè è con questo che si fa la pittura. Credeva nella redenzione. In fondo è persino possibile che credesse nel progresso. Il caso, al contrario, è libertà totale a cui ci avvia la nostra stessa natura. Il caso non obbedisce a leggi e se anche obbedisse noi non le conosciamo. Il caso, se mi permette la similitudine, è come Dio, un dio che si manifesta ogni secondo sul nostro pianeta. Un Dio incomprensibile con gesti incomprensibili rivolti alle sue creature incomprensibili. In questo uragano, in questa implosione ossea, si realizza la comunione. la comunione del caso con le sue tracce e la comunione delle sue tracce con noi».
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Mi accodo: bellissima intervista.
Peraltro sarei molto curioso di sapere quali critici ha in mente Ilde Carmignani quando dice che “può darsi che, come sostengono i critici, con Bolaño e altri autori come Sebald stia nascendo una letteratura post-nazionale o globale che va oltre il cosiddetto postcoloniale”. Qualcuno può aiutarmi?
Bella intervista, finalmente una critica appassionante espressa con passione e amore per l’opera letteraria di Bolaño.
Il traduttore è insieme lettore, fedele sostenitore, amante della letteratura, critico .
Dettagliate e chiare le domande che hanno fatto venire fuori un bellissimo spaccato dell’opera bolañiana.
Conosco solo in parte l’opera di Bolaño e, di certo, questa intervista spinge di più a leggerlo.
Un grazie a Carmelo per il suo impegno e per il suo costante lavoro.