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Essere narratori cosmologici

di Giorgio Vasta

La scienza mineraria ci insegna che la coerenza è una condizione caratterizzata da una fortissima coesione interna. L’incoerenza, viceversa, è connotata da scarsa o nulla coesione. Nell’incoerenza, a prevalere è il detrito non cementato, la scheggia, il frantumo, la deriva verso il granulo, la polverizzazione.
Raccontare il presente – ma forse raccontare tout court – vuol dire dare coerenza all’incoerenza, radunare i frammenti esplosi e plasmarli in una forma, recuperare tutto ciò che è scoria espulsa dal senso, connetterla ad altre scorie ugualmente insensate e costruire quella scultura di parole – il romanzo e i racconti – in grado di risignificare l’insignificante.
Lo spazio sfinito di Tommaso Pincio, appena ripubblicato da minimum fax a una decina d’anni dalla sua prima apparizione per Fanucci, è un romanzo che ha la capacità di sintetizzare la difficoltà e la necessità di fabbricare sculture di questo genere e al contempo ci permette di risalire la corrente della narrativa italiana contemporanea facendoci comprendere che tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo all’immaginazione degli scrittori italiani è accaduto qualcosa, un sommovimento tellurico, una contorsione capace di riformare l’idea di romanzo mettendo in chiaro che la disgregazione non era più soltanto del tempo di cui si faceva esperienza ma anche – e soprattutto – dentro i diversi singoli sguardi letterari.
Perché nel momento in cui il gioco degli “-ismi”, dei “post” e dell’epigonalità a tutti i costi si è esaurito, quando cioè si è smesso di essere i figli dei padri e i nipoti dei nonni e una serie di tradizioni culturali sono definitivamente implose (sono, finalmente, sfinite), prendere atto della natura dispersa ed entropica delle propria immaginazione è diventato imprescindibile. Traumatico, sicuramente, ma anche una grande occasione.
Ed è in quel momento che Tommaso Pincio scrive un romanzo seminale, una scrittura che attingendo a una specie di vitalità originaria – condizione impressionante di alcune opere letterarie – ha la capacità di aprire se non di spalancare prospettiva e profondità di campo, di far guadagnare alla narrazione una forma che fino ad allora non c’era.
Attraverso l’esplorazione della volta celeste compiuta da un Jack Kerouac perplesso e, alla lettera, stralunato – un personaggio che insieme a Neal Cassady, a Marilyn Monroe, a Norma Jeane e ad Arthur Miller è una buccia intenzionalmente svuotata della polpa e del nocciolo – Pincio dà forma a un romanzo che accoglie al proprio interno, non come guasto bensì come condizione ineludibile, la coscienza del fatto che da un certo momento in avanti comprendere contiene al proprio interno una quota di incomprensione delle cose (“Stelle parole…/ Stelle che mi parlate/ Non vi capisco” recita l’haiku che Kerouac compone mentalmente) e che, tutt’altro che costituire questo un problema, le logiche narrative possono essere antigravitazionali e la trama nella quale i non-personaggi galleggiano deve necessariamente essere autoironica, deve simulare se stessa, alludersi, fingersi senza mai sopravvalutarsi, senza mai farsi struttura cartesiana o calcolo perfetto.
Forte di tutta questa vulnerabilità Pincio scaglia piano il suo Kerouac nello spazio dove, per conto della Coca-Cola Enterprise Inc., è incaricato di fare il controllore di orbite. Affrontare la solitudine siderale “a mani nude”, immerso in una sostanza “nero cosmo” per nulla dissimile dalla famigerata bibita dissetante, sarà il suo destino e la sua prigione. Il suo personale “space oddity”.
Ma in un romanzo fondato sull’andirivieni – dei segni, dei nomi, delle forme, del senso –, un romanzo nel quale l’anomalia è la regola e la regola è una ghirlanda di immagini dove coesistono bocche specchianti, detriti di materia spaziale, bottigliette all’interno delle quali è incapsulata una “bolla” cometa, librerie strategicamente senza libri e mugolii animali che risuonano laddove nulla potrebbe o dovrebbe risuonare, l’unica prigione inespugnabile è il vuoto. Anzi, il Vuoto.
Lo spazio sfinito è continuo, letterale, sprigionamento delle diverse possibili (e impossibili) accezioni della parola ‘vuoto’, della cosa ‘vuoto’, della sua percezione e della sua esperienza. Come in un vacuometro o in un catalogo dell’assenza di materia, in questo romanzo il vuoto (il Vuoto) è attesa, delusione, invisibilità e visione, presentimento e mancanza; il vuoto è arcaico, è classico ed è pop, riguarda Democrito ma anche James Dean, Torricelli, la meccanica quantistica e Cary Grant. Quel che è certo è che non è mai quello che sembra (“Se il Vuoto non è vuoto, perché lo chiamiamo così?”)
Lo spazio sfinito è stato – è ancora – un libro in grado di ricapitolare il futuro nel momento in cui il futuro cominciava, un libro che ha intuito che quando tutto è sfinito non resta altro da fare che accettare la dispersione, accoglierla, scrivere nella dispersione. Raccontare il cielo, le contrazioni e i riverberi, gli spasmi le increspature i vortici. Essere narratori cosmologici. Dare coerenza all’incoerenza.

[pubblicato su Il manifesto il 7 gennaio 2011]

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3 Commenti

  1. Condivido senza riserve la recensione. Lo spazio sfinito e finito del romanzo italiano respira un po’ grazie alla riedizione di un libro che ha già dieci anni di vita. Mi chiedo, però, in questi dieci anni quanto sia veramente cambiato il panorama della scrittura italiana. In un’intervista letta non ricordo su quale quotidiano (domenicale del sole 24ore ?) un paio di settimane fa, Filippo La Porta si lamentava dei troppi esordienti pubblicati dagli editori italiani. Dal suo punto di vista la critica può essere condivisibile ma dal punto di vista di lettore esasperato dal didascalismo dei narratori italiani, è assolutamente necessario un ricambio generazionale.
    Che i lettori di Pincio & Co. diventati finalmente scrittori si facciano avanti, altrimenti mi toccherà continuare ad immergermi nell’antico John Barth e nel defunto Kurt Vonnegut che sanno ancora stupire da lontano nel tempo e nello spazio.

  2. Sto leggendo il libro in questi giorni, sono a metà. Posso dire che davvero mi sembra nonostante le dimensioni ridotte un lavoro d’apertura cosmica, e considerato l’anno di pubblicazione in anticipo sui tempi. Cioè è moderno oggi.
    Vi si respira un clima “magico”, disilluso ma speranzoso, triste ma gioioso, insomma si tratta d’un’opera che ridà energia e senso a un immaginario esausto insufflando vita proprio dentro alcuni simboli forti (e di conseguenza esausti pure loro) di tale immaginario.
    Abbiamo bisogno di opere che aprano mondi immaginativi, e questa lo è.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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