di Stefano Chiodi ( da doppiozero)
La mancata elaborazione della memoria coloniale è stata ed è una delle più vistose lacune della coscienza collettiva italiana. Non che siano mancate analisi e riflessioni sulle avventure africane del nostro paese tra la fine dell’Ottocento e gli anni quaranta del secolo scorso: da tempo ormai la storiografia ha denunciato le comode mitologie del colonialismo umbertino e fascista, la sua violenza, il suo rapace avventurismo, il suo razzismo. Ciò che è mancata è semmai un’elaborazione culturale comune sulle conseguenze di quella storia sulla nostra identità attuale, tanto più in un mondo globalizzato in cui il confronto tra culture è diventato un tema fondamentale e non eludibile. Come si è visto in questi anni nei confronti dell’immigrazione, l’atteggiamento ufficiale italiano nei confronti dei “diversi” oscilla tra paternalismo, indifferenza, ostilità, grettezza, prepotenza. Incapaci di fare i conti con la propria identità plurale, in se stessa diversificata, gli italiani si accontentano di volta in volta di fare la faccia feroce o di mostrarsi cinici ed opportunisti, sino a farsi umiliare dalle stravaganze dei despoti, come si è visto nelle visite romane del dittatore Gheddafi.
Un giovane artista, Patrizio Di Massimo, si è occupato di recente dell’eredità coloniale italiana, e della Libia in particolare, seguendo il filo delle sopravvivenze sparse sul suo territorio, dalle rovine romane alle costruzioni di epoca littoria. Nel 2009 ha realizzato un video, Oae, che è una delle pochissime opere d’arte contemporanea a fare direttamente i conti con questo nodo storico, politico e soprattutto culturale. Lo sguardo che l’artista getta sulla realtà libica è quello di un antropologo che interroga simultaneamente l’identità della cultura che visita e quella che porta con sé, mettendo alla prova i limiti della propria capacità di comprensione dell’altro. La Libia che il video ci mostra è uno spazio frammentario, discontinuo, cosparso di memorie antiche e recenti: è uno spazio anacronico, in cui si mescolano le vestigia delle passate colonizzazioni – romana, araba, italiana – e la storia si mostra, come ha scritto Walter Benjamin, in tutto quanto ha, fin dall’inizio, di inopportuno, di doloroso, di sbagliato. È anche uno spazio di immagini: fotografie e soprattutto documentari, filmati di propaganda e film che tentano l’ardua, e fallimentare, ricostruzione finzionale di un passato obliterato. Il video annoda questi momenti dispersi attraverso la classica metafora del viaggio: viaggio nel tempo e nello spazio, viaggio fuori e dentro di sé. Siamo così trasportati al confine del deserto, dove gli uomini, le case, le strade, le stesse rovine lasciano spazio al nulla indifferenziato: è qui che termina il viaggio, nella zona morta che segna il confine del tempo storico. È da qui che dobbiamo tornare indietro per poter ricostruire un presente non più immemore e falsamente innocente.
La tragica attualità della questione libica, della guerra civile che divampa in queste ore, dei massacri della popolazione, dell’indifferenza delle potenze internazionali, dà a questo lavoro una forza e un interesse davvero unici. È una di quelle rare circostanze in cui un’opera d’arte può davvero orientare la nostra percezione e rendere più acuto il nostro giudizio sui fatti. “I personaggi in questo film sono autentici e gli eventi basati su fatti storici” dice un cartello nel video. Per una volta forse non è solo retorica.
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Un testo dell’autore in margine al suo video si trova qui.
è uno splendido post questo tuo, veramente notevole, non mi resta che ringraziarti, il video è un piccolo capolavoro
georgia
Questo è un post discorso molto interessante, come è stimolante e notevole l’idea dell’artista. Io direi però che ciò che è vergognoso non è tanto la mancanza di un’elaborazione a livello collettivo, quanto la totale assenza da parte della Repubblica di una politica nei confronti delle ex colonie (si pensi solo a come abbiamo perduto l’opportunità dell’italofonia, che fino a qualche decennio fa era possibile almeno in Somalia e in Eritrea). Se latita la politica e la cultura, mi pare difficile che il popolo possa farsi da sé un’opinione.