Perchè, e come, scrivere un romanzo (su Galeazzo Ciano)
di Giacomo Sartori
In passato ho voluto scrivere un romanzo sulle ultime fasi della malattia di mio padre, sulla sua agonia. Mi sono quindi messo all’opera. Prima ancora che me ne rendessi conto il testo mi ha però preso per mano, conducendomi molto indietro, in plaghe dove non avevo pianificato di avventurarmi. Incurante della mia costernazione me ne ha mostrate i recessi meno presentabili, ha preteso che prendessi nota di quello che vedevo. Non c’era niente da fare, non mollava la mia mano: dovevo stare lì, dovevo liberarmi dei filtri abituali con i quali interpretavo il mio mondo. Per capire qualcosa del paesaggio inospitale dove mi trovavo, costellato di canzoni patriottiche e motti ideologici e camice nere, mi sono dovuto documentare sul fascismo, del quale sapevo molto poco. Un vero lavorone, che mi ha permesso però di penetrare nel tempio segreto del mio genitore: molte di quelle che pensavo essere particolarità del suo carattere, scoprivo, erano in realtà riverberi più o meno diretti e più o meno vividi della sua epoca. Del resto quel suo universo nero, constatavo, mi aveva in realtà irrimediabilmente contagiato, beninteso senza che me ne rendessi conto: le reazioni erano germinate in me come malattie non ancora diagnosticate, vere e proprie bombe a effetto ritardato. Nel romanzo s’è insomma incistato quel passato ormai desueto che gettava una luce implacabile, come un sole ostinato che tardi a tramontare, non solo su mio padre morente, ma anche su me stesso. Ho dovuto parlare – cosa ancora più remota dai piani iniziali – di me.
Documentandomi sul fascismo mi sono imbattuto in quella tragedia nazionale che è l’esecuzione di Galeazzo Ciano. Mussolini, il dittatore senescente e ormai schiavo dei frutti mortiferi delle sue malefatte, lascia condannare a morte, con l’accusa di averlo tradito, il marito della figlia preferita, con la quale ha avuto fin dall’inizio un legame selvaggio e pavido. Come in una tragedia raciniana il genero non può fare niente per evitare la morte che sente avvicinarsi, nessuno può fare nulla per scongiurarla. Nemmeno Edda Mussolini, che si batte con unghiate di pantera ferita, scoprendo in lei quel ruolo di moglie devota mai abitato in precedenza, e nemmeno la giovane spia che i tedeschi gli hanno affiancato, e tosto caduta nella rete del suo charme (avviando un doppio gioco che le fa rischiare ogni giorno la pelle). Lui non è uno stinco di santo, ha anzi colpe tetragone e raccapriccianti, e fino all’ultimo sfoggia con baldanza la sua alterigia e la sua irresponsabilità, però sul finire in lui germina anche una timida e scontrosa grandezza, e muore degnamente. Hanno previsto di fucilarlo alle spalle, come si deve a un traditore, ma lui all’ultimo momento si volta, guarda in faccia chi gli spara. L’esecuzione si svolge all’italiana, e quindi nessuno dei condannati è ucciso dalle approssimate raffiche del plotone, e dopo concitate confabulazioni vengono sparati altri colpi, e poi si passa a un trattamento individuale alla tempia, e per finire ci vuole qualche ulteriore pistolettata per pacare gli ultimi sussulti. Una scena da macelleria, ha commentato un testimone pur ben svezzato alle carneficine naziste.
Questo dramma incastonato nel più vasto dramma nazionale mi ha soggiogato fin dal primo momento. Per convincermi a raccontarlo le ha usate tutte, ma proprio tutte, sussurrandomi fra le altre cose che nessun altro aveva osato farlo, che era pane per i miei denti, che era un’occasione d’oro. Certo, queste sue lusinghe erano allettanti, ma a niente sarebbero valse se non mi avesse irretito con le sue qualità intrinseche. Insomma, l’ho scritto. Con i miei mezzi e i miei vezzi, vale a dire condensando, sposando angoli visuali bislacchi, e giocando di ellissi, al punto da rendere forse incomprensibile la vicenda. E la mia scrittura ha voluto dire la sua, recidendo ulteriormente e raggrumando, con storpiature somatiche e cinetiche degne del miglior Bacon: invece del televisivo tomo di settecento pagine che avrebbe scatenato frotte di lussuriosi editori, è venuto fuori un serrato groviglio di parole. Invece di starsene in panciolle il lettore è chiamato a collaborare e a interrogarsi. Della tarantiniana macelleria finale, tanto per fare un esempio, nel mio libro non c’è traccia. Cosa ci posso fare, così è.
Finito un libro, uno scrittore ha la tendenza a domandarsi cosa vuol dire e perché lo ha scritto. Spesso la risposta è piuttosto facile, o per lo meno le tracce a terra sono evidenti. A posteriori, per esempio, lo capisco bene perché ho scritto il romanzo su mio padre: per imparare le verità a cui accennavo qui sopra (si ha sempre tendenza a dimenticare che gli scrittori parlano in primo luogo a loro stessi). Altre volte è più arduo. Confesso che questa volta mi è quasi impossibile. Certo Galeazzo Ciano è il prototipo dell’italiano, e la sua vicenda ci dice moltissimo sul potere in Italia, a cominciare da quello attuale. E la sua tragedia è il tipico macabro colpo di testa di un paese dedito alla commedia. Ma queste sono in fondo giustificazioni esteriori, che non mi sembrano poter risvegliare, da sole, la macchina narrativa che sonnecchia in me. Un altro argomento più sottile potrebbe allora essere che io tante bassezze di Ciano le conosco nell’intimo, o comunque posso capirle. Per descrivere un personaggio occorre invischiarsi nei lacci appiccicosi dell’empatia: e io sento sulla pelle il suo barcamenarsi tra vanità e abiezione, il suo compulsivo bisogno di conferme profane e virili, la sua intelligenza fulminea ma schiava dei sentimenti più infantili, il suo avvilupparsi con ghigni di baldracca nella sua stessa bassezza, le roboanti strategie per non specchiarsi nella melanconia, le inascoltate fragilità di fanciulla della sua salute precaria, compagne delle più inscusabili crudeltà.
Per finire vorrei confessare che a quel processo mio padre c’era. Non ho potuto chiedergli dei dettagli, perché l’ho saputo solo a stesura ultimata, quando lui aveva tolto il disturbo ormai da anni, ma ora so per certo che scalpitava tra gli spettatori, pure lui ebbro di vendetta. Le attrazioni inconsce non sono mai abbastanza considerate, quando si parla di scrittura. Si scrive con le trippe e con il sangue, il sangue ereditato da chi ci ha preceduto.
Del resto non sta scritto da nessuna parte che un autore debba per forza sapere perché scrive i libri che scrive. Quando ci alziamo la mattina mica sappiamo cosa ci riserverà la giornata, e i piani che facciamo si rivelano il più delle volte fallaci, sordi alle nostre istanze più intime. Per uno scrittore un romanzo non è in fondo che una giornata che dura qualche anno, una giornata che può essere brutta o bella, che può insegnare tanto o dare invece l’impressione – peraltro sempre mendace – di avere sprecato il tempo. Quindi mi arrendo, e dichiaro formalmente che non so perché ho scritto questo romanzo che riconosco pur sempre come sangue del mio sangue.
[questa riflessione, certo molto parziale, è apparsa sul quotidiano “Trentino” del 08.02.11]
[…] This post was mentioned on Twitter by Francesco Cingolani, nazioneindiana. nazioneindiana said: Perchè scrivere un romanzo (sul fascismo): http://bit.ly/f9YUgM [giacomo sartori – 9 febbraio 2011] […]
Condivido l’opinione che vi siano motivazioni largamente inconsce nella stessa pulsione a scrivere e, in particolare, nella scelta degli argomenti delle opere. Questo dato di fatto è in qualche modo accettato, considerato normale, anche se mai del tutto definibile per forza di cose.
Meno valutata e soppesata, invece, a me pare la componente inconscia inevitabilmente presente nei gusti, nei giudizi su un’opera e negli stessi lavori dei critici. Forse perché i critici studiano gli scrittori, ma chi studia i critici (intendo in modo approfondito, dettagliato, biografia alla mano)?
[…] Fonte Articolo: Perchè scrivere un romanzo (sul fascismo) – Nazione Indiana […]
si decifra un dolore per sublimarlo in arte,spesso senza corrispondenze logiche.Una delle prime cose che ho abbozzato(sembra che non abbia fatto altro che abbozzare) riguardava un grande incendo di lisbona divampato grazie al sogno delirante travasato nel reale di un amante abbandonato.L’esempio più immediato è ” a silver dish” di Bellow.Spero che abbia portato a compimento un cimento altrettanto valido
http://99.152.162.116/P/Procol%20Harum/Greatest%20Hits%20%5BA&M%5D/05%20A%20Salty%20Dog.mp3
viva sartor(i) resartus.
http://latuaclassedirigente.wordpress.com/2011/02/07/concita-de-gregorio/
Nulla di nuovo nella sostanza, anche se il ritrovamento di queste copie puo’ rafforzare l’autenticita’ di cio’ che e’ gia’ stato stampato. Ho letto un bellissimo romanzo uscito qualche mese fa e del quale stranamente in pochi hanno scritto: Angelo Paratico “BEN” Mursia, 2010.
E’ basato sulla Pista Inglese nella fine di Mussolini e proprio per questo motivo credo che gli archivi inglesi, negli anni venturi, ci offriranno molte sorprese sulle vicende che hanno portato alla fine di Mussolini e del fascismo. Saluti.
Angelo Speri
ciao giacomo, complimenti intanto per Autismi, libro potente e graffiante, apprestandomi al Cielo nero.
[…] conosco nulla delle opere di Giacomo Sartori, ma qualche giorno fa ho letto qui questa sua frase ed è scattata di colpo un’affinità […]