“Il mal di Montano” di Enrique Vila-Matas
recensione per la quale è necessario avere letto il libro
di Gianluca Cataldo
«“È mia opinione che il mestiere dell’opinionista non sia un mestiere”. Così esordiva Manuel Faltausencia in un suo vecchio saggio del 1991, apparso per la prima volta nella rivista madrilena Claves de razón práctica. E non ho alcuno motivo per non credere alla buonafede del suo gioco di parole, del suo inganno. Ortega y Gasset aggiungeva, molto tempo prima, che il linguaggio serve anche per nascondere i nostri pensieri, per mentire. E che l’inganno risulta essere “un umile parassita dell’ingenuità”. E chi siamo noi per non credergli? E se a tanto illustri pensatori chiosa un Canetti, che scrive che “è la precisa conoscenza di quel che si tace a rendere il silenzio così vantaggioso”, come non possiamo trasformarci in tanti parassiti letterari e, come un Borges qualsiasi o un Vila-Matas, dire per loro bocca che non dire, ma lasciare dire, sia meglio che opinare?
È mia opinione – scrivo io che di mestiere faccio tutt’altro – che le opinioni, ultimamente, siano troppe e troppo mollemente tollerate. Come le contraddizioni. E le rivendico entrambe!, le mie opinioni e le mie contraddizioni».
In questa maniera un po’ irritante iniziava un articolo che qualche tempo fa ho letto in uno dei tanti blog su internet. Mi era piaciuto al punto da scriverci sopra, ma durante il trasferimento dall’Italia le poste svizzere (strano a dirsi ma è così) hanno perso tutte le scatole contenenti i miei libri, scatole che, come quelle di Zuckerman, aumentano di anno in anno, decuplicando la mole di citazioni che posso utilizzare, col solo sforzo di memorizzarne la provenienza.
Come sempre, sento il dovere di concretizzare le mie idee in qualcosa che non siano le mie idee, in un oggetto alieno da esse, in un contenuto simile all’opinione ma che se ne distacca per una certa oggettività. Tale oggettività è ottenuta, il più delle volte, romanzando un’opinione, nobile intento di renderla più duratura di quanto non sarebbe se lasciata nella sua forma, per così dire, scarnificata.
Ricordo che dopo avere letto quell’articolo telefonai ad Alessandro. Quando rispose gli domandai se fosse in Cile, mi contestò che stava dormendo. «In Cile?», insistetti io, e, con mia gran sorpresa, rispose «No, a casa mia». Strano, lo sapevo in Cile. «Ti sapevo in Cile». Mi chiese per cosa di tanto importante ero disposto a fare una chiamata internazionale.
Non era arrabbiato, lo conosco sin dai tempi del liceo, era piuttosto divorato dalla curiosità, e lo immaginai, dal mio verde e triste letto a una piazza e mezzo, sfregarsi gli alluci nel suo sempre pieno letto matrimoniale.
«Cosa stai leggendo?», domandai infine dopo 23 secondi di suspense. Prevedibilmente finse di adirarsi – «è per questo che ci hai svegliati?» – sentii una voce femminile chiedere che ore fossero. «Sì, cosa leggi?», mi accarezzai l’orecchio sinistro, anche se lui questo non poteva di certo vederlo. Lui, da sempre più veemente di me, stropicciò il suo.
Un’ira fittizia dura giusto il tempo di porre una seconda domanda o, come nel mio caso, di porre per la seconda volta la stessa domanda.
Calmatosi, ripose «L’arte di tacere, di Joseph Antoine Toussaint Dinouart… mi piace molto dirlo per intero». «Ah, il buon abate», dissi io. Silenzio. «Ho bisogno di una bella frase a effetto».
Silenzio.
«Che?»
«Una citazione Alessandro, proprio da quel libro». Stavolta si adirò davvero, perché non era la prima volta che mi rimproverava questo modo discutibile che ho di gestire la letteratura altrui. Era convinto che essere infermi di letteratura non avrebbe creato altro che tanti vampiri letterari alla ricerca di acculturate letture, col solo scopo, ben nascosto dietro gli occhialini tondi – strana frase da parte sua dato che, per inciso, io ho una vista perfetta – di succhiarne l’ingegno, il disgusto e la sofferenza. Una volta mi sorprese a inventare note a piè di pagina ricamandole sull’edizione del Mein Kampf della biblioteca regionale di Palermo. Ero convinto, in quel periodo, che se Foster Wallace fosse nato in Europa non ci sarebbero stati i totalitarismi, ma si sarebbe andati direttamente oltre nel vano tentativo di una spiegazione senza fine di quello che stava succedendo allora.
Ricordo l’ira di Alessandro mentre spezzava la matita con entrambe le mani, senza togliermi gli occhi di dosso, aggiungendo poi che avrebbe preferito che mi fossi convertito in un agrafo tragico piuttosto che in un amanuense da quattro marchi. Alessandro in quel periodo era molto euroscettico, anche se già prima dell’euro parlava quattro lingue e credeva nella stabilità della Deutsche Bank.
Ma forse sto facendo un po’ di confusione con le date, e perdendo di vista lo scopo di questa recensione.
Lo snodo fondamentale è se davvero si è convinti che la letteratura possa salvare il mondo o, al contrario, che il mondo moderno minacci la letteratura. Magari che internet minacci la letteratura. Domandarsi di quali difese disponga la letteratura e se un uomo qualunque, magari un uomo senza qualità, debba ergersi a prosopopea della letteratura e per bocca di un altro (il suo scrittore) parlare in sua vece al giusto tribunale del plagio, se di plagio si tratta. Perché a me pare, che più che essere infermo di letteratura il Vila-Matas del Mal di Montano (l’unico che ci è dato conoscere) abbia reclutato una schiera di Chisciotte per dimostrare proprio il contrario, per palesare all’industrioso mondo di topi che lavora in gran segreto sotto il vulcano dell’isola di Pico, che la letteratura ha già issato le sue difese, basta chiamarle a raccolta tramite uno strano meccanismo di comunicazione-possessione pre/post-mortem. O tramite un diario che, a ben vedere, è postumo come una seduta spiritica. È questo, a mio parere, è il suo libro.
Ciò che mi tormenta è, però, un’altra cosa. E precisamente quanto bisogna spingersi in là, quanto sacrificare non per la letteratura, ma alla letteratura.
Per essere sicuro che questa piccola recensione anomala del suo libro – anomala e invero troncata di netto – gli piacesse, l’ho inviata prima che al signor Raos, direttamente a Enrique Vila-Matas, tramite il suo editore spagnolo, Anagrama. Mi rispose in maniera, debbo dire, molto stringata: «può essere che la letteratura sia anche parte del mondo nel modo in cui lo sono, ad esempio, le foglie».
Avevo già letto quella frase, ma non ricordavo dove, così ripresi tra le mani qualche vecchio libro e, convinto che avesse avuto una ricaduta – come si ha per un’infermità – nel suo stile, mi misi a frugare tra i ricordi letterari, passando in rassegna le costine dei miei libri e leggendo, di quando in quando, alcune pagine cui avevo posto, in alto, una piccola piegatura. Lo faccio per i miei figli, senza segnare altro, lasciando una pagina di libertà entro cui cercare loro padre, ma questo è un fatto personale che con il mal di Montano ha poco a che vedere.
Mi capitò fra le mani un libro di Comisso, Un gatto attraversa la strada, e mi rimisi a leggere il racconto “due soldati di regioni lontane”, un soldato siciliano e uno piemontese. La loro amicizia passa per la scrittura, non quella tanto letteraria cui siamo abituati, ma la scrittura da apprendere, la scrittura per un’analfabeta che non sa né leggere né scrivere, perché nel paesino sperduto in cui vive, oltre alle pecore che suo padre pascola, è difficile trovare altro. Mi commosse rileggere dell’ansia di sbagliare la “o”, la lettera più facile, la più simile alla ruota di una bicicletta, come Cesco, il soldato piemontese, insegna a Salvatore. Il tempo passa e Salvatore viene congedato. I due si salutano e Cesco gli regala una vera penna stilografica. Forse sto andando troppo oltre nell’interpretazione di un racconto, in fin dei conti, non tra i più belli della raccolta, però il gesto di Salvo, una volta tornato in Sicilia, di affidare la penna alla sua fidanzata, non prima di averle dimostrato che sa davvero scrivere, da sempre mi intenerisce. Dopo «ritornò ai suoi monti, alle sue pecore, ritrovò gli orizzonti lontani solcati di valli, con la limpida aria attraversata dal sole violento a bruciare il suo volto. Vide i tramonti con la prima stella a brillare, e le albe impetuose di luce a succedersi dopo la notte passata con le sue pecore nella grande grotta del monte. Risentì il profumo delle erbe dei suoi pascoli, il sapore del suo pane, e rientrò nel chiuso giro della sua vita di pastore», vedendo tutte queste cose e facendo a meno della scrittura e della lettura, ma, forse, non della letteratura.
Mi capitò di rileggere una frase di Cortázar, lo scrittore che più ammiro: «Estetica, etica, religione. Religione, estetica, etica. Etica, religione, estetica. Il pupazzetto, il romanzo. La morte, il pupazzetto. La lingua della Maga mi fa il solletico. Rocamadour, l’etica, il pupazzetto, la Maga. La-lingua, il solletico, l’etica». Mi sono sempre chiesto, per ogni piccolo elenco, quale sia l’ordine? Se si debba considerare l’ultima parola la più importante, o la prima. Come per tutto Rayuela non ci è dato saperlo.
Infine trovai la frase che Vila-Matas mi scrisse per mail, e la trovai proprio nel Mal di Montano. Ma la cosa che trovai geniale fu che l’autocitazione era, in realtà, una citazione di Magris, e non da un suo libro, bensì proprio da Claudio Magris in quanto uomo, che una notte a Barcellona disse a Vila-Matas: «può essere che la letteratura sia anche parte del mondo nel modo in cui lo sono, ad esempio, le foglie».
Se così è non deve sembrarci troppo grave essere infermi di letteratura.
Magari all’esimio Magris questa cosa l’aveva detta un infimo scopino danubiese invitandolo a spostarsi mentre puliva le strade del parco imperiale in una mattina di vento autunnale. E chissà chi l’aveva detta allo scopino! E chissà chi…
La letteratura sarebbe dunque un incerto risentimento, cura a sè stesso e incurabile, aristocrazia plebea, affezione sana e perversa, superiore debolezza, sentimento e oggetto, consolazione degli sconsolati?
Tutto quì? Non è nuova questa spiegazione e potremmo applicarla anche alle parole incrociate.
Se leggo Vila-Matas mi chiedo: è questo un magistrale, guizzante e sovrabbondante discorso di profondità oppure, talvolta, un cazzeggio iperprofessionale fatuo e ampiamente premeditato. Simile interrogativo non verrebbe certo leggendo, per esempio, Gadda.
Una nota che finisce con l’orientare negativamente è la reiterata ostentazione con la quale questo autore rimarca la propria confidenziale e assodata intimità non solo con le pagine, le paginette, gli appunti, ma anche coi saloni, i salotti e persino coi più sperduti bugigattoli della letteratura franco/ispano/irlandese e mondiale. Non trascura i newyorkesi, gli scaldi misconosciuti, Dante e neppure le opere minori dello stesso Gadda. Lasciando intendere che nulla gli sfugge, che nessun autore ignora. E via! Tutti sanno il trucco: basta sempre nominare quelli che si conoscono, quanto agli altri… si diano per intesi.
Con tutto questo, il suo sofisticato gioco resta, se non utile, tuttavia abbastanza attraente, o meglio, e qui fa gioco un termine davvero detestabile, intrigante.
Mi sono chiesto, leggendo l’articolo magnifico del fratello gemello di Enrique Vila Matas, in quale situazione ero di fronte alla letteratura, se sono un topo bloccato in un buco nella carta del male di Montano.
L’ossessione della lettura, del personaggio autore invade la mente del lettore. Beve il sangue di una parola bellissima, la nutre, la vive nel sogno, il sangue diventa oceano.
Il problema è il passaggio dal lettore al scrittore, un lettore talentuoso non è necessariamente uno scrittore fecondo. Il lettore stregato da una bellezza straniera non puo fuggire a pagine già conosciute, vorrebbe creare, inventare
un paese mai scoperto e si ritrove davanti a un’isola, una città abitata da un altro talento. Il scrittore autentico ha superato l’incertezza tra vivere con protezione ( la lettura) e vivere di scrittura in pericolo, vivere con la certezza
che la vita reale è in una dimensione di assenza, invece il lettore è nella vita reale, in assenza intermittente, dopo la lettura, raggiunge la realtà.
La situazione peggiore è di oscillare tra lettura e impossibilità di scrivere,
sapere che cosa è la scrittura e non avere talento, non valicare mai la frontiera, diventare il fantasma dello scrittore senza avere l’abito.