Aspetta primavera, Lucky

[mercoledì prossimo, il 26 gennaio, verrà pubblicato per le Edizioni Socrates il nuovo romanzo di Flavio Santi. Ve ne anticipiamo qui il capitolo XXVI. G.B.]

Di notte c’è una pace meravigliosa

di Flavio Santi

A volte di notte faccio una pausa per lo spuntino di mezzanotte. E penso. Penso alle cose a cui non ho tempo di pensare di giorno. Stavolta penso alla trasmissione televisiva di Tano Dere, il Tano Show, e mi assalgono pensieri omicidi. Per fortuna durano poco, il tempo di spalmare lo stracchino su un pezzo di pane secco e di adagiarvi sopra qualche fetta di prosciutto scaduto.
Ecco, mi dico, la tivù non è mica questo grande circo sempre ubriaco di sé, come da bravo provinciale mi immaginavo: in fondo ci sono un palco, delle lampade, delle telecamere. È un po’ come stare nella sala d’aspetto di un dentista, tutto qui. Tutto qui? Un’immagine: le labbra di Tano Dere che leggono una pagina proprio di Luciano Bianciardi. Labbra pallide che scandiscono suoni vitali, essenziali: “Le domeniche più difficili direi che fossero quelle sotto fine mese, quando non ci restavano nemmeno sessanta lire per comprarci una coppia d’uova, e qualche volta ci toccò andare a letto senza cena”. Si parla della Vita agra. Conoscere la storia da simili labbra è come andare a conoscere l’amore al bordello. Inutile dire che tutte le mie perplessità sui libri come mezzo di espressione inadatto si centuplicano di colpo. Intuisco di aver vissuto in questi anni in compagnia di un cadavere: se la letteratura è questa medusa molliccia incapace di imporsi moralmente, socialmente, mentalmente, di chi è la colpa? Della scuola? Degli scrittori italiani? Oddio, comincio a ragionare come Tano Dere? Lui, nella sua incredibile rozzezza, ha però smosso un macigno, ammettendo candidamente di non leggere un libro da almeno trent’anni, lui che con i libri ci campa, in fondo, in tivù. Se per un momento mi dico che non è vero, che fanno molto, i libri, in questo nostro povero Paese, mi viene in mente Stendhal quando paragona la carriera militare del protagonista Fabrizio Del Dongo a uno scoiattolo in una gabbia rotante: molto movimento per non procedere mai. Cazzo, ma è l’immagine che ha usato con me Adamantino Pollastri al telefono tempo fa. Tutto torna. Gli indiani d’America sopravvivono nelle riserve: ma chi ha mai visto un indiano candidarsi alla Casa Bianca? È la stessa condizione che vivono i libri: pietosa sussistenza, al di fuori di tutti gli apparati che contano davvero.
Dopo la performance del comico di turno, tale Jack Scovolone, ho capito: ho sbagliato tutto nella vita, vivrò povero, morirò povero, e pensare – mi dico – che con un solo grammo del mio cervello, se volessi, potrei diventare ricco. Come Jack Scovolone. Persona intelligente, non c’è dubbio, che ha capito che semplificando all’osso e involgarendo lo schema classico dell’epigramma, l’Erwartung e l’Aufschluss, poteva fare i soldoni. Mi viene in mente la battuta di Orson Welles in Citizen Kane: “Se uno ci tiene, fare i soldi non è poi così difficile”. Mah, sarà. Certo, io ho scelto una strada in salita, che sarebbe la più naturale e umana in fondo: quella della dignità. Personale e altrui. La strada del senso critico, in una società dove la veglia è rimpiazzata da un continuo sogno ingannatore. La strada più naturale e umana, che proprio per questo diventa la peggiore. Mah.
“Alzati” mi dico più di una volta durante il Tano Show. “Alzati e vattene” e nella variante sadica: “Alzati e prendilo a schiaffi”. Non lo faccio perché il tutto verrebbe spettacolarizzato e mi sfuggirebbe di mano: non voglio mica diventare un nuovo Sgarbi io. Succederebbe esattamente come mi ha detto Danilo Capsula tempo fa: “Anche la tua solenne incazzatura, te la renderanno un brand, un marchio. E tu sarai l’incazzato a vita, capisci?!? Che beffa.”
Per fortuna la trasmissione non è eterna come la mia pena. Così, dopo l’esibizione di un nuovo gruppo pop-surf-glam-shock-porno-rock, il cui nome Tano Dere storpia clamorosamente (Tano, la e finale in tedesco si pronuncia…), alle sei e mezzo il circo finisce. Le gabbie vengono riaperte e le scimmiette di turno ritornano dentro. Alla fine Tano Dere sembra soddisfatto. Anche con sto cavernicolo qua, penserà (legge ancora i libri, povero scemo), non è andata poi così male.
Saluto chi devo salutare ed esco. Arriva il taxi. Non penso a niente. Il treno è alle sette e mezzo. Il tassista si lamenta del traffico, lo assecondo: “E già, non si sa mai che cosa ha in testa la gente”. Veramente ho capito che cosa ha in testa la “gente”: merda. E il primo spalatore l’ho avuto davanti a me per 80 minuti. Merda fumante. A badilate. A secchiate. Dentro il cervello.
Peccato solo non aver potuto parlare con Tano Dere di quell’idea. Quale idea? Ma sì, il Grande Fratello degli scrittori. Avevo già pensato a tutto. Location, un cascinale in Umbria, rustico ma di gran classe. Un paio di gnoccolone possibilmente al loro primo libro, e possibilmente dalle chiome rosse e ribelli o nere e corvine, finto ingenue, molto propositive e volitive. Dinamite pura. Poi uno scrittore belloccio. Uno grassoccio. Uno smaliziato. Uno scemo (o schizzato o ingenuo o entusiasta, a seconda delle preferenze). Un po’ del nord. Un po’ del sud. Uno delle isole, sardo o siciliano, basta che sia tremendamente snob e spari cazzate. Prove della settimana: scrivere un racconto, un’intervista immaginaria, un poema in prosa, una sceneggiatura, un po’ su quel che si vuole, inquietudine, solitudine, amore, morte, le cose classiche insomma. Il pubblico da casa vota, si vince naturalmente la pubblicazione con un grosso editore, tipo la Gran Topa, con tour promozionale all inclusive.

Poi, come in una mano di poker del pensiero, passo. E penso ad altro.
Nella vita non riesci ad adattarti?
Questione di bioadesività.
Cioè?
Bisogna aderirvi.
Ah.
Veramente, più che un pensiero sembra uno slogan, un jingle pubblicitario, ma in un mondo dove tutto quello che sappiamo l’abbiamo imparato dalla tivù i pensieri, in fondo, non sono altro che la pubblicità dei nostri sentimenti. A questo siamo ridotti.
Comunque questo spiega tante cose: se mi trovate particolarmente acido e bilioso, dovete accusare questi tempi malsani e non certo me. Sono anni tossici e non riesco ad aderirvi molto bene appunto. Raf cantava Cosa resterà di questi anni Ottanta, e la risposta non era certo lusinghiera (vado a memoria, anni bucati, dunque eroina, bugie, amori violenti, pubblicità, follia, sentimenti veloci come spray). Se io mi mettessi a cantare Cosa resterà di questi anni Duemila, a parte che stonerei come una campana, comincerei adesso e finirei domani mattina sul tardi, tra brutture, ipocrisie, falsi profeti, intelligenze a tavolino, sorrisi di consenso, mediocrità dilagante, gratificazioni a pioggia, appiattimento di costumi e cervelli, barbarie.

Di notte c’è una pace meravigliosa.
A volte, tra una pausa e l’altra di una traduzione, oltre allo spuntino di mezzanotte mi trovo a controllare certi nei sulle spalle, sulle braccia, dietro la schiena. Nei che potrebbero diventare tumori maligni, chissà. Anzi. A volte ci spero. Ma non ho paura di morire. Almeno finirà questa vita di corsa. Dispiace per il vino, le donne, i libri. Ma per il resto. Dispiace per Giulia e Sveva. Ma per il resto baratterei una pace eterna con questo tumulto infernale.

Dicevo, cosa c’è di meglio dell’essere lucidamente disperati? Adesso potrei fare qualsiasi gesto, uscire in strada, sequestrare una vecchia, puntarle un coltello al collo, e lo farei perfettamente cosciente. La notte ti dà di queste tranquillità.
Solo di notte riesci a vedere con lucidità certe questioni particolarmente delicate, che ti erano sfuggite per tutta la giornata, magari da mesi. Così di notte ti vengono in mente le più sottili analisi sociologiche per un motivo che di giorno avevi chiamato banalmente fame. Riesci a dare un’identità precisa a coloro che di giorno ti erano sembrati semplicemente tanti ragionieri Filini. E soprattutto, adesso che è notte, una meravigliosa notte di pace e silenzio, riesci a capire che il patto generazionale non è mai esistito. Quale patto generazionale? Ecco, lo vedi, di giorno la questione era troppo nebulosa e sfocata. Dico quel patto generazionale, trentenni e sessantenni alleati per una causa comune. Ma quando mai? E per che cosa? E in che cosa? Ma quale patto generazionale? Questi, i sessantenni, hanno rovinato l’Italia, e continuano a farlo. Mio padre ha distrutto questo Paese, il padre di Giulia, quello di Sveva, e tutti i loro coetanei, non importa se amici o nemici. Alleati però certamente in una distruzione scellerata e sistematica, attraverso un sistema di raccomandazioni, reticenze, taciti accordi, adulazioni, false ribellioni. Questo Paese si è mangiato sé stesso, viscere comprese. In questo inverno che non accenna a finire mai ne ho conosciuti due di questi splendidi sessantenni. Ugo Manta, il raffinato consulente editoriale dalle mille camicie hawaiane, e il grande presentatore televisivo Tano Dere.

Siamo sull’orlo di uno strappo. E ogni strappo costa sangue.
Questo Paese sta privando, se non l’ha già fatto, la mia generazione di un futuro. Il conto è salato, ma qualcuno, prima o poi, ce lo dovrà pagare.

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3 Commenti

  1. Flavio Santi è un intellettuale, prima ancora che un ottimo scrittore.
    E l’idea di ri-confrontarsi con “La vita agra” di Bianciardi è sicuramente lodevole e degna di attenzione.

  2. La parola straordinario, sminuisce questa anticipazione.
    Ma del resto è di convenzioni che è fatto il linguaggio, come tutto il nostro mondo.
    Complimenti e a presto.
    A.

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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