un’altra vita di Johnny Tossi (1977-2006) [1]
Roma, 1977
Tra poco ne fa venti. Un mese e li compie, di settembre. Le pagine del suo diario sfogano dal cuore di uno che non diventerà mai adulto e s’accontenterà di un commento sbagliato per odiare e per sempre, o di sguardi gentili per il contrario, né dimenticherà e vorrà vendicarsi, e di ogni pensiero, fantasia o storia che caverà dal suo sacco attribuirà il leading role a un Io da titoli in grassetto e rulli di tamburo, protagonista, eroe, immortale. Meglio abituarsi in fretta a uno stile acerbo come un limone a gennaio, immaturo nell’opporsi al tempo per restare quello che è, ostile ai processi, nemico dei flussi, arrabbiato col divenire. Ama i fumetti di Quino, le storie di Oesterheld, il rugby, i film western e la birra Quilmes. Ecco un assaggio di Johnny: “Mi piacciono anche i camperos e i jeans attillati che esaltano le dimensioni del mio pisello, ogni giorno più grosso”. Chi direbbe che è il giornale intimo di un profugo?
Porta i capelli ricci e lunghi come Mario Kempes senz’averne spalle e magrezza. Anzi è già sovrappeso. Ama i jeans di un amore non ricambiato che i calzoni ripagano col conio del ridicolo, traducendogli le cosce in prosciutti e il sedere, beh, il sedere… Cammina molto per la città dov’è naufragato in sopralluoghi che non hanno inizio né fine, perché quando si ferma già progetta i prossimi o ricorda i passati.
Non ha lavoro ma ha tempo e lo usa per consumare spazio. Però non dimagrisce. Quelli del sindacato lo sfamano. Gli hanno trovato un letto. Dicono che ora deve darsi da fare. Gli hanno fatto conoscere altri come lui. Quando va in visita al Centro, per il pranzo e la cena, li incontra tutti. Arturo Coloccini, che è arrivato a Roma da un anno, gli chiede in quale prigione stava e la risposta è: Una qualsiasi. E a quale gruppo politico appartiene? A nessuno.
E perché sei espatriato?
Per non finire al camposanto.
Coloccini gli presenta Castrillo, poeta portegno che ha perso due figli e vive a Roma dal settantatré. Castrillo dice che Johnny assomiglia al suo primogenito e nel dirlo gli s’inumidiscono gli occhi. Johnny lascia parlare ma non gli crede, poi sul diario (tornato a casa dall’appartamento di Castrillo a Monteverde) annota di aver conosciuto “un altro predicatore. Uno che gioca con le parole. Uno che si riempie la bocca di saggezze”. Coloccini, che si è accorto della diffidenza di Johnny, qualche giorno dopo lo prende da parte, gli offre un caffè al bar di via Giolitti (dov’è il Centro) e gli chiede come mai ha fatto il difficile con Castrillo. Forse perché è un montonero? Non ti fidi dei montoneros? Se Johnny lo degnasse di una risposta, sarebbe una domanda: Che me ne frega dei montoneros? E riguardo a Coloccini non ha dubbi (lo sa il diario): “Non mi piace. Fa troppe domande. Io non faccio domande e non voglio sentirne. Sono venuto fin qui per farmi interrogare? Già la vita è una merda. Compito per i prossimi giorni: stare alla larga da Coloccini”.
Piazza Vittorio è il suo quartiere preferito per gli odori del mercato e le facce da gangster e una prostituta tra via Manzoni e Conte Verde cui dedica una poesia che non riporto ma ne riassumo il senso nella mancanza di denaro, “altrimenti…”. Gli piace la pizza al taglio con pomodoro, mozzarella e alici. La domenica si concede un panino con senape e salsiccia acquistato dagli ambulanti di Porta Portese. Ogni lunedì chiama la madre a Buenos Aires. Lui racconta per primo, poi tocca a lei in uno scambio non di informazioni ma di parole per scaldarsi. Divide un appartamento in viale Giulio Cesare con una famiglia di boliviani. Dorme nella stanzetta in fondo al corridoio. La porta della camera è di legno e vetro colorato; Johnny vede le ombre arancioni dei boliviani e loro vedono la sua. Si chiede se quelle placche piene di bitorzoli sappiano setacciare stati d’animo come fanno con i corpi. Pensa che il vetro non lo protegga abbastanza. Pensa che se uno vuole vedere, vede. E se vuole sapere, saprà.
Ogni tanto passa dal Centro una psicologa di Mar del Plata con un occhio sporgente come una vite stretta male e le dita senza unghie e uncinature annerite sull’avambraccio. Johnny esclama alla congrega: Che schifo! Qualcuno lo gela: sono segni della tortura. Qualcun altro mormora: questo non si regola. La psicologa però non s’accorge di nauseare Johnny e gli si affeziona. Gli chiede se fa brutti sogni o ha brutti ricordi. Tutti e due, tutti brutti, risponde Johnny che non si trattiene come uno scolaro al quale cade la cartella sulla scale ed escono matite, quaderni, temperino e compasso, la gomma da cancellare rimbalza lontano e le monete per la merenda rotolano via. Ecco come si sente Johnny, stupito perché parla. Ricordo la prigione, la cella e le brande. Ricordo i detenuti, cinque insieme a me. Ricordo il Negro, lo Zoppo, Pennello, il Chino. Ma a questo punto Johnny controlla l’out of control, solidifica il flusso, si disciplina. Ricordo poco. Non voglio ricordare. Ricordo noi cinque nudi, i vestiti allacciati in una corda, che ci caliamo dalla finestra. Ricordo il bosco e il freddo. Ricordo i cani. Poi s’accende una sigaretta come ha visto fare nei film agli eroi che disprezzano le parole. María, che è il nome della psicologa e s’è accosciata per terra nel cortile del Centro, gli chiede se ricorda la tortura. Lui continua a fumare, scosta la domanda con un gesto della mano, guarda da un’altra parte anche per non guardare María.
Non sono pronto per questo.
Ma certo, ti capisco.
Scopre le lasagne e la trippa e del cibo parla volentieri. Confessa a Coloccini che mangerebbe ogni giorno timballi e la carbonara solo a mettersi in bocca due rigatoni gli fa amare la vita. “I pezzetti di guanciale mi rendono felice. Se ho il pecorino e l’uovo non ho bisogno d’altro.” Ridendo Coloccini nota che s’accontenta di poco. Frequenta una trattoria a via Marsala dove ordina sempre un primo e mezzo litro di bianco. Vicino a dove abita s’accomoda invece per cene sbrigative in una rosticceria dove il suo piatto fisso sono i pomodori al riso e in alternativa cosce di pollo allo spiedo. Impara alla svelta l’italiano ma non legge i giornali. Non legge neanche quelli argentini che si rimediano al Centro, se non per sfogliare le pagine sportive coi risultati del River. Tra gli altri esuli c’è chi lo guarda con sospetto per la sua indifferenza politica, per le opinioni che non esprime e le parti che non prende. Qualcun altro invece lo difende: secondo Coloccini, ad esempio, Johnny è solo un coglioncello senza idee in testa (non sfugga che il disprezzo è in realtà una protezione). Naturalmente Johnny non conosce questi pareri, pur intuendo che esistono.
Si masturba almeno due volte al giorno, anzi la notte. Manda a memoria ragazze per strada, sull’autobus e nei bar come farfalle da collezione. Ogni corpo di donna è il seme che Johnny è pronto a ricevere per crearne il ricordo. Una donna che sale sull’autobus, il segno delle sue natiche che si sporgono. Il seno di una ragazza plasmato dal vento o in parte scoperto. La bocca di una, le gambe di un’altra. Quando è fortunato, uno sguardo che lo infuoca. Ciò che accade è il padre, mentre Johnny (che vede tutto) è la madre sempre fertile. Ricordi che hanno la vita breve di un insetto, inscatolati da Johnny che poi a casa li può liberare, e li usa. Una volta usati, spariscono. Forse dopo qualche giorno ritorneranno, ma solo i più belli. Oppure diventano materia di sogno o di avventura dell’animo, non più sensuale, immaginata per una vita migliore. Fantastica incontri, congettura amplessi. Ragazze salvate da Johnny, ammirate dalla superiorità di Johnny, attratte senza rimedio da Johnny gli si danno o gli dichiarano amore. Città che capitolano, ponti che s’abbassano, porte che si schiudono. Si fida del suo diario, dove mancano tracce dell’Argentina nel senso dello stupro politico. Non sembra che Johnny l’abbiano stuprato e per lui il passato non consiste in nulla, è vapore. Mentre una pagina su due la riempie di sconcezze. Scriverle vale ancora più che farle, è la promessa di un gesto. Eppure Johnny si definisce “un tipo romantico. Potenziale e poderoso schiantatore di passere ma galantuomo, enigmatico”. A suo modo “capace di fedeltà”, sebbene “inventivo succhiatore di pesche”.
[Questa è la prima parte (in quattro parti) di Un’altra vita di Johnny Tossi (1977-2006), una storia inedita di un manoscritto inedito di un autore inedito. Il primo libro di narrativa di Davide Orecchio esce per Gaffi nel 2011]
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La lettura delle altre parti potrebbe smentirmi, nel senso che poi potrebbe
venire fuori che Johnny era veramente coinvolto e dunque che la risposta a quella domanda: nessun gruppo politico, non abbia detto il vero. ( E’ solo uno dei motivi per cui aspetto le altre parti ). Preso così, tuttavia, Johnny ci appare non come un cane sciolto, o il rifugiato economico di cui sono state piene le strade e le piazze europee, specie quelle del Nord Europa, negli anni ’70 e 80 e ’90, ma l’uomo in fuga dai carnefici e dalle vittime, l’individuo
che scappa da tutto, attraversa la pozzanghera, e si sfama dove si sfamano
i guerrieri che ti raccontano le loro battaglie. Un cinismo ( lo schifo che gli fanno i segni della picana sulle braccia della psicologa ) che forse gli serve per salvarsi dall’orrore, o forse è il suo vero volto, forse Johnny non è nient’altro che quell’orrore? un Carlos Wieder di Stella distante al servizio della dittatura, poeta e assassino, che un giorno sbarca in Europa? No, non può essere, ma il narratore è attento, o attento a dirci troppo, non ci racconta ad esempio perché J. si trovava in galera col Negro e con lo Zoppo, ma ci descrive J., semplicemente, con pochi tratti che ce lo fanno venire incontro dal fondo della strada, sovrappeso e fisico non felice, ma chioma superba che assomiglia a quella di un Kempes che nel 77 non era ancora il Kempes della vittorioso mondiale della dittatura, ma un giovane anch’egli dal grande fisico e dalle enorme potenzialità che proprio quell’anno come J. aveva passato la pozzanghera per giocare se non vado errato in Europa nel Valencia.
Certamente un libro che cercherò e leggerò.
Marino: grazie per la tua lettura, davvero. Posso assicurarti che Johnny e Carlos Wieder sono molto “distanti”, hanno assai poco in comune. Nel libro che esce con Gaffi non ci sarà spazio per Tossi. Magari in quello successivo sì. Almeno lo spero.
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