BIzArt and foot! – Rafael Spregelburd
Bizarra: teatro e telenovela. Intervista a Rafael Spregelburd
di
Graziano Graziani
Rafael Spregelburd è tra i drammaturghi argentini più interessanti della sua generazione, quella dei quarantenni che hanno vissuto la dittatura solo durante l’infanzia, affacciandosi nell’età adulta quando l’Argentina cominciava a fare i conti con quel suo doloroso recente passato. La sua opera, per altro piuttosto prolifica, è ben conosciuta in paesi come l’Inghilterra e la Germania, mentre solo da qualche anno viene rappresentata in Italia, grazie anche all’opera di traduzione e regia di Manuela Cherubini, che nell’ultima edizione del Napoli Teatro Festival ha realizzato la versione “napoletana” di «Bizarra», una delle opere più particolari di Spregelburd, che verrà riproposta a in versione “romana” tra ottobre e dicembre all’Angelo Mai (produttore dello spettacolo assieme alla regista e a Giorgio Barberio Corsetti). «Bizarra» è una teatronovela in dieci puntate, un lavoro smisurato che si confronta con le regole assurde – ma accettate senza alcuna difficoltà dal pubblico – che caratterizzano il racconto della fiction televisiva, ed è proprio quest’opera il centro di questa conversazione con Rafael Spregelburd. Perché la scrittura di Spregelburd, oltre a mettere in risalto l’assurdità del linguaggio televisivo, con un sicuro effetto comico, coglie i nodi più profondi dove questo influenza e modella il linguaggio della politica e dell’informazione. D’altronde la genesi stessa di «Bizarra» ha un peso importante: il drammaturgo argenti ha scritto la prima teatronovela della storia del teatro all’indomani della crisi economica del 2001, quando non c’erano più soldi per lavorare e tutti pensavano ad andarsene dal paese. Una situazione che, pur con le dovute differenze, ricorda l’Italia dei nostri giorni.
Come è nata Bizarra?
«Bizarra» è stata scritta durante il 2002, nell’anno della crisi economica più forte che ho vissuto nella mia vita. È nata dal desiderio di un gruppo molto esteso di attori di fare qualcosa con la nostra tristezza, qualcosa che non fosse un’opera nostalgica che dicesse quello che si diceva ovunque – durante la crisi tutto era molto politicizzato. Quando ci siamo riuniti, molti attori stavano abbandonando il paese, andavano in Spagna, Messico, Spagna, Italia e questo ci rendeva molto tristi. Cercavamo un formato contraddittorio e la telenovela era l’ideale: un formato esageratamente romantico, festoso, e assolutamente fuori da ogni regola economica. «Bizarra» non è economica: ha 70 attori. Non può essere trattata come un prodotto commerciabile, si è verificata esclusivamente in una circostanza sociale molto particolare.
Perché hai scelto di lavorare sul linguaggio della telenovela, che è un formato molto popolare in Sudamerica?
La prima motivazione è che avevamo un gruppo molto grande. Volevamo fare qualcosa insieme ma eravamo tanti. Lavorare con molta gente implica di solito un tipo di drammaturgia tradizionale, con pochi protagonisti e molti personaggi secondari. Non volevamo questo. Volevamo dare lavoro a tutti in modo più o meno democratico. Da alcuni anni mi interesso della struttura democratica della drammaturgia. Esistono opere pensate in epoca monarchica che riflettono la gerarchia monarchica nella loro struttura: un protagonista, e a scendere i personaggi secondari. Quasi tutta la produzione classica è strutturata così, dall’Amleto di Shakespeare in giù. Gli attori sono gli operai di un sistema che li vede ultimi nella gerarchia della produzione del senso, al cui vertice c’è l’autore. D’altra parte le opere democratiche sono spesso poco interessanti. Oggi nel cinema vanno di moda le pellicole “corali”, che non hanno un solo protagonista; però questi film sembrano avere tutti la stessa struttura e lo stesso argomento. Questo è un problema su cui noi abbiamo riflettuto molto. Volevamo sentirci operai di un’opera che fosse come una fabbrica occupata dagli operai, e per fare questo avevamo bisogno di una struttura che non permettesse a nessuno di essere il padrone dell’opera. Così nacque l’idea della telenovela.
La telenovela classica non è come la nostra, naturalmente. Si segue il destino dei protagonisti. In «Bizarra» invece le storie secondarie o parallele hanno la stessa importanza di quella principale. La nostra è una struttura “bastarda”.
Vi siete confrontati, in teatro, con un linguaggio di massa. Cosa ha significato?
La telenovela è certo un prodotto di massa che cerca un’identificazione del pubblico che sia la più vasta possibile. Ce ne sono diversi tipi: la telenovela del pomeriggio, ad esempio, è dedicata alle casalinghe che non vanno a lavoro. Un simile obiettivo sociologico fa sì che questo tipo di telenovela presenti una struttura distinta: sono più lente, hanno personaggi maschili affascinanti. La telenovela della sera, invece, è più sofisticata, meno prevedibile, e non è così classica nella divisione tra il bene e il male nei personaggi, perché cerca di andare incontro a un pubblico diverso, donne che lavorano e anche uomini. Difatti nelle telenovelas della sera si trovano argomenti di vita criminale o donne nude, quello che si pensa debba interessare di più gli uomini; nelle telenovelas del pomeriggio questo sarebbe impensabile. Oggi in Argentina va di moda una telenovela che ha per protagonista delle “botineras”. Botinera è il modo in cui chiamiamo le fidanzate dei calciatori (deriva da “botine”, che sono le scarpe dei calciatori), e sono generalmente modelle e show girls. Suona un po’ come le “veline” italiane. Questa telenovela è indirizzata agli uomini perché parla di calcio, ma anche alle donne, anche se le protagoniste praticamente si prostituiscono per raggiungere il proprio obiettivo. La telenovela, come ogni altro prodotto televisivo, non ha una finalità estetica, ma ha bisogno di un target a cui è destinata la pubblicità commerciale che intervalla la trasmissione. Possono esserci diversi pubblici, ma vanno sempre definiti, e questa definizione comporta delle regole estetiche di linguaggio.
Noi non avevamo lo stesso problema, o forse sì, se è vero che il teatro si indirizza sempre a una elite culturale che lo frequenta. È un pubblico annoiato di vedere un teatro ridondante e intellettuale, che ripete le stesse cose di cui si parla nei media benpensanti di sinistra. Noi volevamo provocare uno scandalo per questo tipo di pubblico. La provocazione di «Bizarra» non è diretta a mia nonna, che il teatro non lo frequenta; chi si può scandalizzare è lo spettatore classico di teatro che pensa che il teatro debba tematizzare gli argomenti della realtà, invece che tradurli in una forma estetica. «Bizarra» è una traduzione di un momento cruciale per il mio paese, una traduzione che è politica non tanto perché si parla di temi politici (elemento che trasgredisce una delle regole della telenovela classica: non si può parlare di politica perché tutti ci si devono poter riconoscere), ma perché restituisce quella realtà in modo trasfigurato.
«Bizarra» è stata un successo in Argentina, e molti altri attori hanno chiesto di aggiungersi in corsa. Come è andata?
Abbiamo iniziato che eravamo una trentina, ma poi abbiamo cominciato ad invitare gente. Ci hanno chiesto di partecipare anche attori molto conosciuti, che lavorano nel cinema o nella televisione, e che non potevano dedicare a «Bizarra» tutto il tempo che dedicavamo noi. Così abbiamo creato molti personaggi secondari che compaiono meno, ai quali non avevo pensato assolutamente quando ho cominciato a scrivere il testo: ce li siamo inventati dopo per accogliere questi attori. In qualche caso gli attori più famosi hanno interpretato se stessi. Si sposava bene a una delle regole che ci eravamo dati per «Bizarra»: in ogni puntata doveva accadere qualcosa di assolutamente demenziale.
Qual è secondo te la dimensione politica del teatro?
In Argentina abbiamo una forte tradizione di teatro politico, che è quel tipo di teatro che porta alla luce le contraddizioni del tuo credo politico. Chi segue il teatro più o meno sa quali sono i problemi, sa ad esempio che la ricchezza è mal distribuita. Ma spesso per dire questa cosa riproduciamo delle organizzazioni tra gli uomini che sono una forma del capitalismo che si intende criticare. La struttura che mette l’autore al vertice della piramide, con uno stato ontologico superiore a quello degli attori, che invece sono manodopera contrattata per la rappresentazione della sua idea, ne è un esempio perfetto. La mia generazione ha cominciato a rifiutare questa organizzazione della produzione del senso, che quasi non esiste più.
Le compagnie di teatro oggi sono gruppi di persone che spesso hanno punti di vista simili, ma che non appartengono ad un partito politico. Un tempo tutto il teatro d’avanguardia ruotava attorno al partito comunista, un po’ come in tutti i paesi del mondo. Oggi non è più così, le persone non si raggruppano più in base a un’idea politica, o lo fanno meno. Viviamo un’epoca di grande individualismo, ma questo non vuol dire che non si possano più trovare soluzioni collettive di comprensione della realtà. Certamente però quei gruppi che vogliono denunciare qualcosa in base a un’idea politica oggi scontano un’ingenuità, perché non si rendono conto che stanno “riproducendo” una forma. A volte le rivoluzioni passano per l’invenzione di nuove forme.
Perché, allora, consideri un atto politico lavorare sul linguaggio della telenovela a teatro?
La telenovela ha delle regole assurde. Ma assolutamente fisse. Mette in scena la lotta della virtù in un mondo dove regna il male. La virtù è incarnata da una giovane donna, il cui obiettivo è sposarsi, trasformando l’uomo che ama in un padre di famiglia ideale. L’uomo che ama non è sempre buono, ma lei riuscirà a trasformarlo grazie al suo amore e alla sua virtù. Queste le regole principali, ma ce ne sono molte altre. Possiamo dire che la telenovela è il risultato dell’incrocio tra il genere fantastico e la fiaba di tradizione centroeuropea, quella dei fratelli Grimm: alla protagonista succede tutto il male possibile, ma lei non si piegherà mai, non perderà mai la virtù. La lotta della virtù alla fine è premiata da un gesto simbolico che è il matrimonio – e deve essere un matrimonio legale, che avviene in chiesa dopo aver superato una serie di impedimenti cavillosi. La telenovela mescola credenze cattoliche all’universo gotico.
Queste sono le regole di una telenovela classica, ma una buona telenovela normalmente le rispetta tutte ma ne trasgredisce una. La trasgressione di una regola fa la particolarità di quella telenovela. Altrimenti sarebbero tutte identiche.
Queste regole sono assurde, ma funzionano perché sono riconosciute universalmente. La politica, allo stesso modo, segue delle regole molto precise. Per politica intendo la rappresentazione mediatica dei politici di professione, non la politica vera che fa la gente. I politici hanno imparato a costruire una dimensione fittizia della politica, basata su regole altrettanto assurde di quelle della telenovela. Si tratta di un racconto epico, che ha un protagonista che deve superare molte difficoltà, di cui vengono raccontati i successi e le avventure erotiche. È stato così in Argentina con Menem, ma anche in Italia dove si fanno delle leggi per salvaguardare certi singoli politici. Tutti lo accettano. Perché? Perché ha la forma di una regola. Perché non è caotico: magari è una regola ingiusta, ma è una regola, si presenta come una convenzione organizzata. Questo, invece di creare indignazione, rassicura. Perché la gente si adatta a ogni tipo di regola; ciò che non sopporta è l’anarchia.
Ma le regole assurde della politica non funzionano solo con un protagonista fuori dal comune. Da noi il modello menemista sta scomparendo, e oggi “menemista” è quasi un insulto. Le regole però si estendono ai discorsi più generali, come quelli odierni sulla crisi. Tutti danno per scontato che dalla crisi si uscirà salvando le banche. Ma si tratta di una menzogna: durante una crisi occorre salvare le fabbriche e tutti quei luoghi dove si lavora e si produce ricchezza reale, non certo sostenere chi specula e ha provocato la crisi. Eppure questa “fiction” della finanza mondiale si è imposta nell’agenda delle potenze europee, che fanno operazioni economiche seguendo questa regola. La gente dà loro fiducia, perché la regola dice che se le banche vanno in frantumi anche il paese va in frantumi. È una menzogna, che però ha la forma di una regola.
Bizzarra è stata fatta in Italia a Napoli questa estate, e viene riproposta ora a Roma. L’operazione di Manuela Cherubini, che ha tradotto e diretto Bizarra in Italia, è quella di proporre una comparazione indiretta: Spergelburg ha fatto Bizarra nel 2003, all’indomani della crisi argentina, qui viene riproposta nel 2010, mentre l’Italia attraversa una delle sue peggiori crisi economiche e di valori. Che ne pensi?
Il pubblico italiano riesce a capire Bizarra più facilmente di altri pubblici non argentini, è un fatto quasi istintivo. In altri casi gli adattamenti hanno dovuto affrontare questioni “regionali” più che “politiche”. Ad esempio Napoli, che pure fa parte dell’Italia, ha una sua peculiarità culturale molto forte, ma vive anche la sensazione di sentirsi “periferia” del proprio paese, di non essere al centro della vita culturale e politica: questo permette di capire il cuore del problema di cui parla «Bizarra».
Capire come si svolge una crisi come quella che ha avuto luogo in Argentina non è semplice. Nel mio paese si è verificata una cosa particolare, una sorta di “rivoluzione borghese” – che è una contraddizione in termini, perché in realtà la borghesia non vuole alcuna rivoluzione – che vedeva coinvolta nella crisi e nelle proteste anche la parte tradizionalmente agiata della popolazione. Questo in Italia si può comprendere perfettamente. Non voglio dire l’Italia del 2010 vive una situazione equivalente a quella dell’Argentina del 2001, però ci sono dei punti di contatto, un “profumo” simile, per dirla così. In entrambi i casi la gente si chiede e si chiedeva perché tutte le relazioni umane, comprese quelle affettive, sono così fortemente influenzate dal lavoro, dalla gestione politica dell’economia, dalle forme della produzione.
L’Europa ha vissuto molte crisi economiche. Storicamente la maniera di occultare la fine di un ciclo del capitalismo, e di rimettere in moto le economie, era la guerra. Con la guerra tutto si distruggeva e tutto si ricostruiva. Oggi le cose sono un po’ diverse, fare guerre in Europa non è più pratico né sostenibile: molte cose si spostano così fuori dall’Europa, ma nonostante questo anche in Europa si continua a morire a causa dei cicli economici che producono ricchezza per una piccola fetta della popolazione europea. Anche in Argentina accade qualcosa di simile, anche se in Argentina si è verificato un evento particolare che difficilmente si verificherà in Europa: la scomparsa del denaro. Quando questo avviene si verifica molta confusione, ma nascono nuove speranze. «Bizarra» in realtà, dà conto di questa sensazione sconosciuta che abbiamo vissuto in Argentina in quel momento. Anche la sua complessità come opera drammaturgica deriva da questo: ci sono elementi che compaiono in una puntata come marginali, che successivamente in un’altra puntata diventano rilevanti, elementi che sembrano insignificanti che si sommano e che danno luogo a svolte complesse della storia, che i personaggi vivono come improvvise e catastrofiche, ma che in realtà sono connesse a questi piccoli eventi che all’inizio sembravano senza significato.
Tornando alla comparazione con la situazione politica italiana, credo che sia evidente e non ha bisogno di traduzione. Ma tieni conto di una cosa: «Bizarra» è un’opera che ha già 7 o 8 anni, e tanto c’è voluto affinché l’Europa la considerasse leggibile, non solo dal punto di vista della comicità, ma anche e soprattutto nel suo nodo più profondo. A marzo di quest’anno sono stato allo Shaubhune di Berlino per una lettura di «Bizarra», che è un teatro essenzialmente politico e interessato ad approfondire proprio questa lettura dell’opera. Eppure diversi aspetti non sono stati afferrati dal pubblico e dagli attori tedeschi, a partire dall’idea di una struttura di compagnia che non replicasse il sistema produttivo che ha provocato da crisi – un’idea quasi irrealizzabile nell’ambito del teatro tedesco.
[da Lo Straniero 126-127 – dicembre 2010 / gennaio 2011]
Post (Scritto e giocato)di effeffe
Quando Graziano mi ha inviato la sua intervista, pubblicata su “lo straniero”, a Rafael Spregelburd mi è subito venuta in mente una partita di calcio. E che c’entra una partita di calcio con il teatro?- qualcuno dirà. Senza scomodare il maestro Carmelo Bene che vedeva nell’irripetibilità e imprevedibilità di un match quel che restava delle tragedie greche, vi dirò di come un centinaio di giorni prima avevamo disputato con la nazionale italiana scrittori Osvaldo Soriano football club una leggendaria partita contro Combinado Argentino de Dramaturgos, tra le cui fila militava proprio l’eccellente drammaturgo argentino. Per chi fosse incuriosito dall’evento ho pensato potesse interessare la chronica della partita che a me toccò in sorte, dedicandola ai miei compagni di squadra ma soprattutto a quella compagine di spiriti liberi venuti da così lontano e capitanati dal fantastico Agustín Mendilaharzu. effeffe
Chronica Sturm Und Tang
di
Francesco Forlani
Sempre è commovente il tramonto\per indigente o sgargiante che sia,\ma più commovente ancora\è quel brillìo disperato e finale\che arrugginisce la pianura, scriveva JLB e così, a estate appena finita, al campo Vittorio Bachelet in Roma erano schierate, come si deve le due formazioni. Nazionale Argentina con folta e inneggiante tifoseria sugli spalti e Nazionale Italiana con panchina lunghissima ( infatti il ct Paolo Verri ne ha fatti sedere tre anche su quella avversaria, in cambio di due bottiglie di vino dei Castelli, delle note case vinicole Ciro Menotti e Santorre di Santarosa.)
Dalle prime mosse in campo, più tango metà campo argentina, più milonga in quella Italiana, si capiva che non sarebbe stato facile per nessuno mettere nel sacco l’avversario, o metterla nel sacco all’avversario, fate voi. Certo è che durante la conferenza stampa alla Dante Alighieri un giornalista del Resto del Clarin, seminava lo scompiglio tra i partecipanti con una domanda tanto chiara quanto inopportuna. Com’era infatti che la nazionale italiana portasse il nome di uno scrittore di Mar del Plata e quella argentina nemmeno il nome di un poeta di Tor Pignattara?
Per fortuna la nota interprete Francisca Amiga del Trento, traduceva con altre parole quella che ai più era subito suonata come una provocazione, ma sfortunatamente la sala gremita era composta per lo più da argentini, figli di argentini, zii di argentini e abitanti di largo Argentina, e così tutti avevano fatto finta di non capire.
Ecco allora che mentre le prime luci artificiali scomponevano in quattro l’ombra di ciascun giocatore, il ct Paolo Verri schierava dal primo minuto la sua formazione:
in porta Stefano Lazzarini detto Lev Ivanovič Jašin quando non gioca Gianluca Favetto detto Лев Ива́нович Я́шин, il ragno tra i pali. In difesa, centrale Simi con Mathieu, affiancati da Sardiello e Aiolli, davanti a loro Carletto D’Amicis e Zannoni leggermente a destra, Menni sulla fascia sinistra, spostato al centro un incredibile Cassardo, Lombardi sulla destra, Audisio e Trento, in area nemica.
Gli avversari presentavano una squadra da Bildungroman, con Patricio Abadi, Joaquín Bonet, Bernardo Cappa, Ezequiel de Almeida, Matías Feldman, Santiago Gobernori, Omar Kühn, Federico León, Guido Lozanitos, Agustín Mendilaharzu (Historias Extraordinarias), Alejo Moguillansky autore di Nueve pequeños goals durante la Super Coppa latinoamericana Borges/Santiago. Completavano la formazione, Lucas Oliveira, Rafael Spregelburd Octavio Tomas, Maximiliano Tomas, Martín Urruty e Mariano Tenconi Blanco che al ventesimo del primo tempo, fino ad allora giocato in modo robusto e pareggiabile dalle due squadre avrebbe intonato una delle sue Canciones de Amor para hacer la Revolución, con la stessa potenza vocale di Mercedes Sosa: Cambia el rumbo el caminante
aunque esto le cause daño
y así como todo cambia
que yo cambie no es extraño
Cambia, todo cambia
Cambia, todo cambia Cambia, todo cambia
Cambia, todo cambia. Il tuttonostro (vostro) Furlèn. approfittando della posizione in panchina avversaria replicava cantando a squarciagola, vedrai vedrai, più per allitterata vicinanza di Tenco con Tenconi che per forza del tema. Infatti vuoi l’ispirazione a Dalida, vuoi i recenti turbamenti dei giovaniTörless dei nostri attaccanti, la nazionale azzurra subiva un calo di forma micidiale che stava per premiare gli ospiti argentini pericolosissimi in area. Si andava così agli spogliatoi sul punteggio di zero a zero e con la necessità di scolare le due bottiglie di spumante ancora, ma non per molto, fresche, trafugate al momento dell’aperitivo dalla consolle del DJ. Mentre le addette stampa ciclostilavano i primi rapporti per faxarli a Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, e che avrebbe così informato i suoi 500 milioni di iscritti in tempo reale, metà panchina si riscaldava come un forno IKEA per strappare agli avversari argentini la vittoria che porge la chioma. Va a tal proposito segnalato che i giocatori argentini presentavano capigliature piuttosto folte e spettinate mentre le teste dei nostri brillavano per lucidità e compostezza.
Effettuati i molti cambi, il nostro ct inseriva Sardo e Bernini, poi dopo aver visto palleggiare Sardiello junior con il pallone da tre chili che si usa per la muscolazione, ha deciso di mettere dentro anche lui perché ne venisse fuori qualcosa. Se l’asse Sardo Cassardo assai giovò alla nostra compagine, così come l’inserimento di Marco Boccia, va detto che Trento sfiorava in almeno un paio di occasioni il gol, raggiungendo così il titolo di capocannoniere della writer’s League. Purtroppo però la fortuna non gli ha arriso e sul finale da brivido, provvidenziale è stato l’evangelico takle in scivolata di Selon Mathieu che ha impedito all’anarchico Urruti di infilare la nostra rete.
Risultato finale 0-0, con decisione unanime di non cedere alla tentazione dei rigori e alle angosce e tremori dei portieri davanti al penalty. Hanno arbitrato i tre fratelli Gonella. Va registrato il dopo partita da brivido, nella celebre locanda argentina Los Ritmos Rojos, con trenta giocatori paganti secondo la prefettura, ottanta per i sindacati, tutti insieme a cantare. Sui tavoli, ubriachi:
Todas las voces todas,
todas las manos todas,
toda la sangre puede
ser canción en el viento;
canta conmigo canta,
hermano americano,
libera tu esperanza
con un grito en la voz.
E fu solo allora che il vostro umile cronista, sporgendosi verso il grande portiere Stefano Lazzarini a cui il capitano argentino aveva appena regalato un paio di guanti nuovi, aveva sussurrato:
Te acordás hermano / qué linda que era / se formaba rueda / pa verla bailar
(Ricordi fratello / quanto era bella / facevano cerchio / per vederla ballare).
E lui a me. Mi dispiace che tu non abbia giocato nemmeno un minuto.
Se avessi giocato non avrei potuto raccontare il resto!– risposi.