L’acqua non ha centro
Tutto sembra calmo poi la sera,
io la conosco bene l’ora. Me ne vado
con il giorno che arriva a grattare via la luce.
Non è che sonno breve dentro vene
non c’è che questa prigionia dell’aria dentro il fumo.
C’è stato solo un attimo in cui s’era condivisa
con tutti una battaglia, il vuoto, anche le colpe
anche la vita, e mai però innocenza:
è quando le gocce sparse si annunciano tempesta.
Dopo, non c’è colpa in cui riflettere
visi tutti uguali, pasta di fumo e polvere
costretti dentro tutti i luoghi e senza alcuna prova
dell’esistenza nuda oppure della morte.
Del resto io non vorrei nemmeno la condanna
che abbiamo imposto a Dio cercandolo:
esistere per sempre, avere sempre su di noi
aperti gli occhi vigili, vedere tutto, l’ irreparabile,
il disastro che da qui arriva dentro, nel suo cielo.
(Genova, 20 luglio 2001 – Milano ottobre 2001)
***
L’odore della terra che riposa dai lutti
è la sera, e i respiri, l’abbandono. Segnali
marcano la gola, cane senza coda la memoria
mi viene incontro sconosciuta,
a lampi, la casa oscura, dopo Mantova,
franata e sospesa nella solitudine perfetta del fiume.
Perfetta nelle mani, debole ostinata
anche le madri senza frutti, cavato con un ghirigori
con uno strappo che libera il male dalla voglia.
A chi fa visita, una gli consegna, piccolo,
il suo allarme, la promessa, la fantasia di figlia
e scrive : metterò ali di falco e volerò
verso la casa mia.
Chi non è mai stato falco, chi non ha pensato
alla sua preda, al figlio, al topo, ad un serpente?:
Erano tante le tue vite ma nessuna vera se non la tua.
L’acqua dal cielo arriva in uno scisma d’aria
un ballo elettrico di nuvole, la notte nel vago schianto
e noi lontani. Carcere è ventre; follia di cani e case.
Il silenzio rimane diviso dai corpi, dai nostri, uguali
a te fedeli ad un destino più di quanto il mio volto –
prigioniero di un lampo dentro il vetro –
lo sia a me stesso.
(Castiglione delle Stiviere, manicomio criminale 6 aprile 2002)
***
(dove il sogno è città, da un disegno di Jan Fabre)
1.
dove ci sono ancora case vuote, lì finisce Roma
si lacera di strade senza targa, dove la notte
è solo mani di rissa e crudeltà di cani.
Guardo lasciando che nel buio
cadano gocce rumorose. L’acqua
che non ha spessore, che non è diretta,
porta il suo ritmo verso il niente,
diviene danza ossessiva di pianeti.
Nessuno sembra sveglio, qui; o sono tutti oltre-frontiera
lungo le scale e i corridoi cammino respirando
tornando a casa a bocca aperta, io solo testimone.
Qui la vittoria o la sconfitta sono sconosciute :
resta la ferocia delle cose. Non riconosco nulla
dalla finestra, è tutto uguale, è la polvere che vaga
dunque non c’è nient’altro dietro le nostre
vite: se non avessi l’ombra che si disegna sola,
quella di un cane a cui somiglio, sarei davvero
anch’io una cosa, abbandonata tra gli agguati,
di nuovo nel deserto della strada immobile.
nel giorno identico a ieri
che arriva tardi, che non si sbaglia mai.
2.
E invece abito ancora la mia casa.
Ma per quanto lo sarà, quante le generazioni
In una casa come questa? brucia distrattamente
la sua prima vita di acque nere e battesimi
eppure so che resterà chiusa dopo me,
cedendo solo alle invasioni di insetti e muschi,
come se fosse la natura –
in un delirio senza affanno – ad insegnarle
ad essere abitata fino all’ultimo diluvio.
Abbandonata dai respiri,
già vanno e vengono famiglie cieche
di formiche: nella loro lontananza senza tempo
sanno l’essenziale, scavano tra i fossili di ragni
e grilli, vivono tra plastica non degradabile;
noi vivi invece non partecipiamo al gioco,
ci prepariamo all’abbandono. Solo la casa
è onnipotente; e se io non so guardare
dalla stessa prospettiva degli insetti
nelle crepe, sento nella notte i movimenti
minimi, il fruscìo che abita per poco
la vita in cui si fugge.
(Roma, 1 gennaio 2003)
***
“ Anche l’oceano è l’acqua di malato,
Fernando: vedi, l’alone della melma
dice che il tuo paese galleggiante ci appartiene,
che si passa dove mutano i confini e dove
la mappa è instabile e il destino avanza.
Ci manca di più quel che si nasconde
in quello che sempre si ripete.
La macchia che nasce nei miei occhi
è la traccia di un altro e ben più grande guasto,
più della schiuma di una nave grassa di gasolio
lasciata marcia al molo, come una conchiglia nera.
Invece le vostre lapidi hanno il bianco baciato di sale
restano l’orlo di un abbandono al mare vasto:
lì siete sepolti, in troppa terra, sepolte le parole.
Fine del mondo, fine della storia.
All’ovest vedo vortici di nebbia
e nel mio giro c’è di che finire la vertigine, la gioia –
ma l’oriente che ho lasciato, quello mi richiama
fino al precipizio del deserto, ci penso solo quando
decido di tornare dove sono nato”.
(Lisbona, torre di Belèm, 23 luglio 2003)
“Qui la vittoria o la sconfitta sono sconosciute:
resta la ferocia delle cose”
non saprei dire davvero il perché, nè articolare un discorso da capo a piedi, ma questi versi – e non solo quelli che riporto – dicono qualcosa di essenziale e terribile sul nostro tempo, tanto più che neppure alla ‘natura’ viene affidata una qualche possibilità di riconoscimento-incontro.
Complimenti, davvero
Non conoscevo De Santis molto apprezzate.
[…] This post was mentioned on Twitter by Stefano Calosso, Francesco Cingolani. Francesco Cingolani said: L’acqua non ha centro: di Mario De Santis Tutto sembra calmo poi la sera, io la conosco bene l’ora…. http://bit.ly/eRhtj0 #letteratura […]
Gran belle! Anche nella loro (secondo me fortemente voluta) caduta di ritmo in alcuni snodi del “dettato” e della tessitura testuale -quasi un voler richiamare l’occhio e la mente del lettore e costringerli a farsi voce, a navigare il solco che i versi si lasciano alle spalle come una scia. Il senso del “canto” sta, forse, in questa costrizione, in questi “precipizi lievi” che, al mio “ascolto”, trasformano la monodia di base in una struttura corale.
molto belle, specie mi hanno colpito 1. e 2. di roma 2003, notevoli nella precisione da microcosmo e nel disadorno e nel senso di rimpianto o agguato del tempo e dell’andare. grazie , AD
questa è una bella poesia. questa sì.