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TERRA DESOLATA O PAESE GUASTO?

di Franco Buffoni

Fondamentale nella complessa tessitura che coinvolse il linguaggio, il mito, la tradizione, la macchina, la guerra, la scrittura impersonale, il flusso di coscienza, fu l’incontro londinese nel 1915 tra T.S. Eliot ed Ezra Pound. Eliot allora ventisettenne era fresco di laurea a Harvard e avido di una conoscenza che lo portasse oltre gli amatissimi simbolisti (Laforgue, Corbière, Verlaine, Rimbaud) che fino ad allora lo avevano influenzato. Grazie a Pound potè coniugare i testi sacri indù a Cavalcanti, Dante al sanscrito, la poesia provenzale a Confucio.
Eliot completò così il periodo di apprendistato europeo, iniziato a Parigi con le lezioni di Bergson alla Sorbona e frequentando Gide e Claudel, Fournier e Rivière. In particolare si convinse che nella grande opera poetica che andava concependo tutto poteva rientrare: bastava creare una rete interna al testo di richiami culturali. Al resto avrebbero provveduto l’immaginazione dei lettori e le note dei critici.
The Waste Land appare nel 1922 dopo mesi di furenti revisioni e tagli che ne riducono di oltre la metà l’estensione. Una scrittura prosciugata e scabra, dove la chiaroveggente imbrogliona e raffreddata Madame Sosostris prelude e giustifica l’entrata in scena di Tiresia. Dove l’amico visto in partenza con le truppe per un fronte della Prima Guerra Mondiale riappare dopo pochi versi nel contesto storico della Prima Guerra Punica. E dove l’antica metropoli tentacolare Gerusalemme e la moderna Londra paiono collegate da un irreale volo di linea.
A questi espedienti tecnici il lettore contemporaneo è ormai avvezzo, ma un secolo fa Eliot parve rivoluzionario. Forse, una riflessione sul titolo del suo capolavoro può essere illuminante. Sempre tradotto in italiano con “terra desolata”, in effetti potrebbe richiamare il verso di Dante “In mezzo mar siede un paese guasto” (Inferno, XIV, v. 94). “Guasto” come il senso di disperata accidia che nell’opera coinvolge il rapporto sessuale tra la giovane commessa e il rappresentante di commercio nel monolocale. Guasta come l’impossibilità dell’autore ad essere onesto sulla propria identità sessuale. (Inevitabile, qualche anno dopo, la sua avversione nei confronti di Auden, che invece di tale “onestà” fece il proprio stilema; parallelabile per motivazioni e successivi comportamenti – tale avversione – a quella poi di Montale per Pasolini).
Esaurita, con la fine degli anni Venti, la prima – e di gran lunga più originale – fase poetica, Eliot esce dall’impasse morale e artistica in cui disperatamente sente di essere finito, con la conversione all’anglocattolicesimo. Da quel momento si dichiarerà classicista in letteratura, monarchico-conservatore in politica e fedele della chiesa di Inghilterra in religione. In poesia il passaggio è netto e ben rilevabile stilisticamente scorrendo i Four Quartets, l’opera composta e pubblicata nell’arco di sette anni tra il 1936 e il 1943, in cui il poeta sviluppa uno stile molto più lirico e piano, con tematiche che spaziano dalla meditazione sul tempo e l’eternità alla posizione dell’uomo nella natura e nella storia.
Ma questa seconda fase del percorso artistico di Eliot è anche caratterizzata dalla scoperta del mezzo teatrale come trasmettitore di poesia e di istanze religiose. Eliot sempre sostenne che Murder in the Cathedral (1935) – l’opera composta per esaltare la figura di Thomas Beckett, le cui spoglie sono custodite nella cattedrale di Canterbury – era stata concepita, e quindi doveva essere rappresentata come una tragedia greca dell’era cristiana, con le donne di Canterbury in funzione di “coro” e l’immagine del Purgatorio dantesco al posto della teogonia di Esiodo. In questa ottica cristiana e salvifica va letto tutto il teatro di Eliot, fino alle meno convincenti prove degli anni Cinquanta, con l’eccezione del ben calibrato dramma Cocktail Party (1950).
Con il passare degli anni e dei decenni, dal suo studio presso Faber & Faber, T. S. Eliot divenne la voce critica più autorevole e temuta sui due lati dell’Atlantico. Finì in pratica con l’assumere – rapportata al Novecento – la stessa indiscutibile autorità che nell’Ottocento era stata appannaggio di Thomas Carlyle e nel Settecento del Dr. Johnson. L’attribuzione del Premio Nobel nel 1948 naturalmente favorì tale processo. Soltanto dopo la sua morte, e negli ultimi decenni con la rivalutazione della figura di Pound e la messa a fuoco definitiva di quella di W. H. Auden, i rapporti di valore tra i tre grandi della poesia di lingua inglese del Novecento sono andati finalmente assestandosi.
Pur se sparsi lungo l’intero arco della sua carriera, gli interventi critici di Eliot assumono dunque maggiore rilevanza dopo il 1948, in particolare con la pubblicazione dei Saggi sui Poeti e sulla Poesia nel 1957. Dittatore delle lettere coltissimo e citatissimo, Eliot può persino permettersi di ignorare anche le critiche feroci, come quella di Montale, che sul Corriere della Sera negli anni Cinquanta dichiara senza mezzi termini che The Waste Land gli pare “tenuta assieme con lo spago”.
Eliot continua così sino alla fine a sostenere la sua convinzione critica più radicata: per essere davvero grandi poeti non basta avere il linguaggio e la visione; occorre anche possedere un grande sistema filosofico e/o teologico, “che a Shakespeare mancava e a Dante no”. Per questo – secondo T.S. Eliot critico – Dante era un poeta più grande di Shakespeare. Per questo – probabilmente – Eliot si sentiva le spalle coperte. E nessuno osava replicargli che egli – T. S. Eliot – sarebbe sì entrato nella storia della poesia di tutti i tempi, ma principalmente per l’opera composta a trent’anni, quando ancora – al posto del grande critico dotato di sistema teologico – c’era un giovane omosessuale velato vibrante di poesia e di mal de vivre.

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20 Commenti

  1. Bellissimo testo. Ho sempre pensato alla Terra Desolata come un testo decisamente in comproprietà con il grande Pound. Questa è un’osseravazione mia. Complimenti anche per il pezzo su Milton, molto apprezzato.

  2. Sono anni che grido come voce nel deserto che “terra tesolata” è una traduzione sbagliata di “Waste land”! Grazie Franco, che non mi fai sentire solo.
    (il tuo pezzo è bello; come al solito, d’altronde. Sai che novità!)
    ;-)

  3. Gianni, una ventina d’anni fa “wasteland” è stato tradotto da stampalternativa con il titolo “il paese guasto”. Uno di quei “testicoli” nei contenitori dei Millelire.

  4. [ waste ⇦*vastum ⇨ vasto ⇨ guasto ⇦ per effetto del (de)*vastare ]

    I should have been a pair of ragged claws
    Scuttling across the floors of silent seas.

    Giacomo Leopardi
    Zibaldone

    Alla p.1120. La parola vastus si considera come aggettivo, e il suo senso proprio si crede quello di latus, amplus ec. (v. Forcell.), e quando esso significa vastatus, questo si piglia per una metafora derivata da questo che quae vacua sunt loca vasta et maiora videntur (Forcell.) Io penso che vastus non sia che un participio di un verbo perduto di cui vastare (guastare) sia il continuativo; che il suo senso proprio fosse quello dell’italiano guasto (ch’è la stessa parola), analogo a quello di vastatus; che la metafora sia venuta (nel modo detto dal Forcellini) dal guasto all’ampio, il che mi par molto più naturale che viceversa; [1939] ed osservo che il più antico es. di vastus fra i molti portati dal Forcell. è nel senso di vastatus, e che il nostro guasto cioè vastus, è appunto uno de’ participj di guastare, cioè vastare. Vastus di participio dovette appoco appoco divenire aggettivo (prima nel senso di vastatus, e poi di latus) come desertus, anch’esso participio, passato poi in una specie d’aggettivo, di significato simile al primitivo di vastus, con cui gli scrittori talvolta lo congiungono. (17. Ott. 1821.)

    ,\\’

  5. Grazie per tutti gli interventi. A Marco: che io sappia il primo a parlare di terra guasta citando il verso dantesco con riferimento a Eliot è stato Giorgio Caproni, più di trent’anni fa.

  6. Alla Wasteland preferisco Prufrock,e dire che per essere davvero grandi poeti non basta avere il linguaggio e la visione; occorre anche possedere un grande sistema filosofico e/o teologico,(per cui Dante sarebbe un poeta più grande di Shakespeare),non mi sembra una gran trovata.

  7. sì, in effetti il libretto di stampa alternativa ce l’ho anch’io ma non sono mai riuscito, nonostante la probabile correttezza filologica, a immaginare la tradizionale sconfinatezza della terra desolata nell’asfissiante limite di un singolo paese guasto

  8. Interessante il rilievo di luigi. Credo però si tratti di accezioni percepite. Mi par di capire che nella tua percezione, luigi, ci sia anche molto Terra/Earth oltre che terra/land. E forse il paese lo senti in ottica arminiana: oggi invece l’italia è un paese guasto tutto intero, per esempio… dunque una vasta land tutta marcia…
    Rigodon: Prufrock in qualche modo preconizza la direzione poi di WL. Quel poetino ventottenne che si sente sovracresciuto e anziano ci porta dritti all’amplesso controvoglia nel monolocale… Quanto al sistema filosofico/teologico la tua stigmatizzazione mi trova assolutamente d’accordo (spero che si capisca dal mio pezzo).
    Marco amore mio, grazie, la nota a Caproni avrei dovuto metterla direttamente nel testo. Besos e auguri! f

  9. Volevo dire che Prufrock mi sembra più fresco,immediato,meno gravato da un a certa artificiosità che mi sembra riscontrare in Wasteland,
    Quanto a waste, è sempre collegato a un’idea di rifiuti,scarti,immondizia,spreco…che ne direbbe di terra devastata?
    Troppo esplicito?

  10. Concordo su Prufrock. Quanto al “devastata” sul piano etimologico ci sta, su quello strettamente semantico forse connota maggiormente una terra che ha subito bombardamenti o inondazioni o eruzioni… Hai presente “Darkness” di Byron? Quella è una terra devastata. In Eliot mi sembra che tutto sia più sfumato, più figurato. Tuttavia la proposta mi sembra ben degna di considerazione. Grazie.

  11. @effe prego:-) @Andrea vorrei chiarire, non ho fatto riferimento a un’ «evidenza di valori condivisi», magari, tutto sarebbe più semplice, ma anche più noioso, le cose che ho imparato da giovane al di fuori della sede deputata al canone, che era l’università – canonica e canonizzante, certo, ma anche sempre, almeno allora, di un pelo in ritardo nella trasmissione del sapere rispetto alle nostre esigenze – sono state, se non maggiori, almeno altrettanto importanti. Se posso fare un esempio: ho sentito parlare per la prima volta della Weil a vent’anni, da un’amica di poco più grande di me che ne aveva sentito parlare da Traverso che a sua volta l’aveva conosciuta attraverso la Campo che l’aveva conosciuta attraverso Luzi, credo. E così dunque ho sentito parlare per la prima volta anche della stessa Campo. Valori “condivisi”? negli anni ‘60? in Italia? Direi piuttosto valori di settori molto specializzati, se non marginali, della cultura italiana. La stessa amica mi ha indirizzata a Philip Dick. Solo per dire che la palette era piuttosto ampia ed eccentrica ed “esterna” all’autorità deputata. Lo mismo posso dire per Benjamin, del quale mi ha parlato per primo, sempre a vent’anni, un compagno di università che tra l’altro lo chiamava Uolter Bengiamin e se l’era scoperto da solo frequentando una di quelle scomparse agenzie Einaudi dove tutti avevamo un conto. Benjamin non si aggirava nelle aule allora, ma nei cortili, e nei bar. Persino di Sraffa ho sentito parlare al tavolino di un bar. E’ diverso oggi? non so. Lo scambio e la condivisione tra pari che si sceglievano liberamente i loro referenti erano molto più proficui dell’autorità, che allora tra l’altro ci era generalmente invisa, com’è noto. C’era una società letteraria? Boh, c’era, sì, ma noi eravamo troppo giovani per farne parte, era lontana, fatta di adulti quasi sempre inarrivabili, tuttavia eravamo lettori avidi e curiosi e per nulla disposti a farci imbeccare passivamente. Quelli, credo, ci sono anche adesso, e come allora sono purtroppo una minoranza e gli va dato quel che chiedono. Poi magari non chiedono le cose che chiedo io, è possibile. Le informazioni mi arrivano anche oggi con le stesse modalità con cui mi arrivavano allora, e arrivano oggi a chiunque altro, attraverso lo scambio con persone anche non pubblicamente autorevoli ma alle quali riconosco una certa attendibilità e di cui conosco gli orientamenti. Facciamo l’ipotesi che x, y e z mi segnalino un libro, anzi, guarda, facciamo che tu, Franchini, Mimmo Scarpa e Berardinelli mi segnaliate un libro, se ho letto tutti voi e vi ho inquadrati, saprò più o meno che cosa aspettarmi da ogni segnalazione e valuterò a seconda di chi mi parla e anche a seconda di come me ne parla. E proprio perché quei valori condivisi non ci sono. Il lettore, qualsiasi lettore, non è quasi mai un vaso vuoto, vive nello scambio di persone di cui si fida, critici, ma anche – e oggi soprattutto – lettori come lui. Per fidarsi – e non dico, ovviamente, per fidarsi della loro onestà personale, che è scontata – è meglio, o almeno così la penso io, che sappia chi sono i suoi referenti. Mi scuso per gli accenni personali, che di solito non faccio, ma era solo per ribadire che le modalità con cui si arriva ai libri sono molte e non sempre lineari e non sempre canoniche, soprattutto quando si è giovani, come quelli che dovrebbero trarre oggi il maggior beneficio dalle classifiche. Mi rendo anche conto che questo discorso è in qualche modo laterale, rispetto al tuo, che la situazione culturale del paese è profondamente cambiata rispetto a quarant’anni fa, come quella dell’università e dell’industria libraria, e che, aggiungo, per quanto riguarda la letteratura propriamente detta, la letteratura colta, diciamo, per utilizzare la stessa differenza che si usa per la musica, la sua trasmissione dipende molto di più e più linearmente dall’autorità di quanto non ne dipenda il dibattito delle idee. Ma la ricchezza dell’informazione – e in questo concordo pienamente con l’intervento di effe delle 16:04, – abortisce se non considera il lettore un interlocutore attivo ed esigente e detentore di diritti. Lasciamo che sia l’industria libraria a considerarlo un mero utilizzatore finale. Ti prego, e prego tutti, di non vedere in nessuna delle parole che ho usato intenti polemici, sono la cosa più lontana dalle mie intenzioni, vorrei dialogare, se è possibile.

  12. viene quasi voglia, a questo punto, di tradurre con “la terra vasta”. e lasciar poi danzare assonanze, etimologie, echi.

  13. per semi assonanza leopardiana agli interminati spazi e ai sovrumani/ silenzi
    con il loro vastissimo fruscio rumor bianco à la Cage dai colli alla luna
    ci sarebbe l’omofono dai due perfetti significati di grandezze smisurate e devastate
    *sterminata

    La terra sterminata

    preveggendo quasi il giovane poeta in modo metafisco l’esordio di un secolo di sterminati stermini oggettivi in terra
    lo sterminio come qualcosa che supera il limite, il confine della ragione umana

    ,\\’

  14. mi sembra di ricordare una traduzione come La terra guasta suggerita da un’edizione Mursia, tempo addietro. ma senza versione italiana del poemetto: c’era il testo inglese, accompagnato da note, se rammento bene, a cura di Mario Melchionda. purtroppo non posso verificare. troppi traslochi… chissà dov’è quel libro.

    apparteneva a una collana Mursia dalla grafica terrificante ma di notevole qualità…

  15. Il Re Pescatore ha una menomazione ai genitali, e ha difficoltà a muoversi. La sua menomazione si ripercuote sul suo regno, che si è trasformato in una “terre gaste”. La ferita è una punizione per peccati commessi in passato, e ha un’analogia con quella al costato di Cristo (l’arma in entrambi i casi è Lancia del Destino).
    Tutto ciò in Chrétien de Troyes (nomen omen).

  16. L’ancien normand wast, vast « terre inculte, friche, jachère », forme normano-picarde de l’ancien français gast, de même sens, mais qui a également eu ceux de « ravage, pillage; dilapidation » qui le rattachent au verbe gaster « ravager, dévaster; détruire ». Les mots wast / gast sont issus du gallo-roman °WASTU, reposant sur le croisement du latin vastus « vide, désert; dévasté, ravagé; inculte » [1] et du francique °wōsti [2], de même sens [3].
    Dans certains cas, cet élément peut aussi correspondre à l’adjectif wast, vast / gast « dévasté, ravagé; abandonné, désert; inculte, en friche », de même étymologie.

    1. Le latin vastus est issu de l’indo-européen °wās-to-s, dérivé adjectival en -to- du radical °wās-, élargissement en -s de °wā-, autre élargissement de la racine °eu- « vide » au degré zéro °w-.
    2. Le francique °wōsti procède de la formation indo-européenne parallèle °wās-ti-.
    3. Plusieurs croisements du même type se sont produits en gallo-roman, lorsque certains mots latins ressemblaient à leurs équivalents francique, expliquant le passage de v- latin à W- gallo-roman, aboutissant à g(u)- en français (produit régulier de w- germanique, qui se maintient en normano-picard) au lieu de v- : c’est le cas en particulier de guêpe (latin vespa; forme dialectale normande vêpe), guéret (latin vervactum; forme dialectale normande varet, voret) et gué (latin vadum; forme dialectale normande vey).

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franco buffoni
franco buffonihttp://www.francobuffoni.it/
Franco Buffoni ha pubblicato raccolte di poesia per Guanda, Mondadori e Donzelli. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). L’ultimo suo romanzo è Zamel (Marcos y Marcos 2009). Sito personale: www.francobuffoni.it
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