Quadrivi, fenditure
di Fabio Andreazza
Le tinte ancora non sono ultimate,
la cerchia, invece, lucida dapprima
e distante, furtiva si è spostata.
Ancora ci si muove in quasi tutte
le direzioni: rimangono bivi,
trivi e quadrivi; ma ogni tanto vedo
qualche ponteggio e tutto un orizzonte
familiare.
(1997)
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In qualche punto di questo malfido
trascorrere o inoltrarsi mi intrattengono
diverse vite mentre se ne vanno,
lasciando linee più calde e parole
meno improvvise; non più due riflessi
del dolore sul volto in un percorso
già chiarito ma vero. A me il seguito:
ed è un duro scattare.
(1998)
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In mezzo a fondi ricordi che il secolo
ha reso spassionati si è salvato
dalla poltiglia il volto di una donna
lavato, dalle labbra misurate,
le braccia miti, nonostante i guanti.
Volto che perdo in quello più lontano
di una straniera che sulle pendici
non scompare nel sogno che si compie.
(1998)
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La corteccia di certo lascerà
intravedere qualche fenditura;
boccioli svelti e rame scavezzate,
però, hanno disdetto il corso retto,
sporgendosi più in là, prima del tempo.
Episodi minuti, quindi, e toni
stagnanti, benché vari:
compari trapassati senza averne
sentore, ronde acquose col petrolio
che dona le fattezze, di soppiatto
accostarsi a sfrontate danzatrici;
e prima o poi la prigionia, che porta
via, nel digiuno, la luce.
(1998)
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Ciò che risuona tra le frasche in questa
terra che accoglie spalancata e sparge
barchesse e capannoni, arrestava
sul sentiero cristiani in coro in ogni
stagione volti a un antico boschetto
impregnato da polvere, laddove
la vergine nascose le sue membra.
Secoli prima che l’oppio nascesse
e rinascesse lo amavano dalle
radici ai rami bruni senza peli
alle foglie palmate. Poi fu preso in affitto.
Una saggia vamp se ne andava in giro
per le contrade inquieta come i pargoli
nei campi ancora bagnati. È lei
che tu distrai con i tuoi borborigmi
facendone arrestare il corpo oscuro
e ti rivolge contro quelle due
pietre dure dal fondo del giardino.
Piangeva il sagrestano ai primi voti,
ma erano quelli giunti verso sera.
È saltata la luce;
noi abbiamo però
la pila e nel fracasso
ci mettiamo all’azzardo.
(1999)
____
Sono qui e disponibile
alla forza degli occhi freschi
che abbozzano i miei prossimi decenni
con mano risoluta,
scacciando le ombre che prendono vita
quando ti svegli prima del dovuto
e ti accompagnano lungo le strade
morte della giornata.
Ed è questa stagione di preziosi
frutti tardivi che accoglie, col sole
che per poco fa candida la bianca
tovaglia, questa assoluta apertura.
Via, giù: voi rivelate
quello che non verrà.
Eri tu la bambina che teneva
un bambino per mano in fila indiana?
Tu, quella un po’ più grande che a una festa
di compleanno si lasciava un po’ palpare?
E poi voi due più vecchie, facili da confondere.
Non ho mai detto nulla,
credendo che qualcosa in qualche modo
si sarebbe pur mosso –
questi puntelli a una vita
fatta di sguardi profondi.
(1999)
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Lui ride, ma non sa che la sua cattura
è sfocata. Loro si danno, chi più
chi meno. C’è anche chi si appoggia
al muro con la testa e con il gomito,
studiato di spalle; e chi da secoli
sonnecchia appoggiato a un bastone.
Per molto tempo vi ho guardato da fuori:
la pelle, ruvida o liscia, si poteva
solo accarezzare.
Ed era una fuga continua,
di frontiera in frontiera:
dal vuoto al vuoto;
costruendo fondamenta senza fine –
giardino senza recinzione,
figura astratta.
Tutto, per scoprire le leggi
e illustrarle nei dettagli.
(2003)
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Verso Hahnwald
(Intorno a Gerhard Richter)
Che cosa farne di ciò che vediamo?
Lungo il Reno a Colonia,
controcorrente, in un giorno di metà
luglio, ti imbatti in un ragazzo in gita
che si avvicina a una compagna, e respinto
chiede: «Warum?». Vedi poi una chiatta
Café-Restaurant che pigramente accoglie
passanti accaldati, e una vecchia tigrata
sovrappeso che prende il sole. Gli alberi,
alti guardano l’azzurro.
La polizia ti blocca: c’è una bomba
inesplosa. Cambi strada.
In mezzo al bosco sterco equino,
e ti trovi a Weiß: il barista legge
il giornale, l’amante entra e scherza;
un avventore mangia un paio
di salsicce con la senape.
Si potrebbero scattare un sacco di fotografie.
Mi sono aggirato per Hahnwald,
intrecciando percorsi, fino a trovare
la grande scatola di scarpe bianca,
addolcita da una fila di meli.
È istintivo cercare qualcosa,
ha detto una volta.
Ho guardato quelle cose.
(2003)
Fabio Andreazza è nato a Castelfranco Veneto nel 1974. Negli anni Novanta ha pubblicato poesie su «clanDestino» e «Addictions».
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Complimenti davvero! Una parola tersa, senza ingorghi, magari nelle prime prove più involuta, meno efficace, ma che poi illumina dove cammina, con la chiarezza delle immagini, con la forza litica delle frasi scolpite, dense, che attraggono il lettore. Una riflessione che si sente sulla necessità di prospettiva e sul metodo di racconto. Spero di leggere presto altre cose, e intanto rimugino queste.
mdp