da “Il diario dei sogni”

[Marco Candida è stato tradotto da Elizabeth Harris ed è apparso, unico italiano, su The literary Review e Best European Fiction 2011 a cura di Aleksandar Hemon per Dalkey Archive Press. Qui l’estratto originale tratto da Il diario dei sogni, Las Vegas Edizioni.]

di Marco Candida
Ora, però, vorrei riprendere quel che stavo per fare prima di interrompermi con questi sogni e queste considerazioni, ovvero chiarire come sia possibile che mi sogni la notte cose come quelle che ho riportato, dove e come dorma per sognarle, in quali posizioni, e che cosa mangi prima di addormentarmi.
Per prima cosa descriverò la mia stanza, e anzi la descriverò attraverso un sogno che ho fatto il 6 aprile 2006 – o per meglio dire che è annotato il 6 aprile 2006, ma che potrebbe essere stato fatto prima dello scoccare della mezzanotte, ossia – ovviamente – il 5 aprile 2006. Dico potrebbe perché il 6 aprile 2006 sono stati annotati due sogni che con ogni probabilità ho fatto in momenti distinti della notte. Non credo di aver sentito ancora parlare della possibilità di far due sogni distinti durante lo stesso sonno. Così la cosa più verosimile può essere che mi sia svegliato e non abbia annotato il sogno e una volta riaddormentato abbia cominciato con un altro sogno e una volta sveglio nuovamente abbia annotato i due sogni uno di seguito all’altro come se facessero parte dello stesso periodo di sonno. Deve essere andata senz’altro così e tra l’altro questo è l’unico caso tra tutte quante le annotazioni contenute nel diario.
Nel primo sogno annotato nelle pagine datate 6 aprile 2006 la mia stanza appare come una comunissima stanza sette metri per quattro con un cassettone di legno sul lato destro di una portafinestra che dà sul terrazzo del retro. Sul ripiano del cassettone c’è un televisore da cinquanta pollici, e un porta-cd con quindici compact disk infilati dentro – nella mia stanza si trova soprattutto musica degli Anni 70. Il cassettone ha sei cassetti e negli ultimi tre ci sono soltanto cartelle con dentro fogli A4 battuti a computer in carattere Times New Roman o Book Antiqua, mentre nei primi tre ci sono mutande, calze, canottiere e magliette che uso soltanto per ciabattare per casa. C’è una tastiera Bianca e ci sono ritagli di pagine di libri e di articoli di giornale attaccati con qualche ricciolo di scotch trasparente al retro della porta d’ingresso – una poesia di Dante, l’aforisma della Gaia Scienza di Nietzsche, un articolo di giornale che parla di Pablo Picasso, un paio di trafiletti di citazioni tratte da opere di Martin Heidegger.
Credo che molto frequentemente i sogni che facciamo siano fatti di pezzetti di immagini provenienti da contesti i più lontani tra loro e che per questa ragione anche quelli che ci appaiono i più sensati, reali, diano sempre l’impressione di qualcosa di sbagliato. Così se consideriamo un panorama che ci appaia durante un sogno si può ipotizzare che quel ponte che unisce le sponde del fiume che attraversa la distesa di campi e colline potrebbe essere il ponte che abbiamo visto nella tal pellicola nel tal canale della television quattro giorni prima, e che quel fiume che attraversa la distesa di campi e colline e che presenta le sponde unite dal ponte potrebbe non essere un fiume ma un torrente, e precisamente il torrente Ossona che a Tortona affluisce nel fiume Scrivia, e quelle potrebbero non essere le sponde del torrente Ossona che a Tortona affluisce nel fiume Scrivia, ma potrebbero essere le scarpate di quella buca che è stata scavata cinque anni prima per mettere i plinti di fondazione nel cantiere che stavi controllando per la ditta, faccio per dire, dove lavoravi, e la distesa di campi e colline che è attraversata da un fiume che ha le sponde unite da un ponte, potrebbero essere distese di campi e colline come si possono vedere in un quadro impressionista che ti è capitato di vedere settimane prima in una mostra al Palazzo Ducale di Genova, e le stelle che si riflettono sul fiume e che stanno nel cielo potrebbero essere quelle gocce di latte condensato che ti sono finite sul maglione del pigiama blu mentre stavi preso da un attacco di iper-fagia alle due di notte davanti al televisore, e… E tuttavia il sogno datato 6 aprile 2006 sembra restituire in ogni minimo dettaglio tutte le cose che sono nella mia stanza e la mia stanza stessa senza che ci sia nessuna sensazione di qualcosa di sbagliato.
A parte il fatto che nella stanza del sogno le cose respirano.
Sì, non credo ci sia una parola più adatta: le cose nella stanza del sogno sembrano inspirare ed espirare: respirare. Nella stanza gli oggetti si gonfiano e si restringono, si gonfiano e si restringono, e lo fanno in modo regolare – gonfiamento e restringimento avvengono in una manciata di secondi e… succede anche qualcosa d’altro: gli oggetti trasudano del liquido incolore ma parecchio, come dire?, oleoso. Sprizza in schizzetti che si sventagliano per tutta la stanza, e se si tratta di schizzetti per un oggetto come un libro o come un portafogli, si tratta di gocce, invece, per i muri, il letto o il pavimento. Tra l’altro sul pavimento respirante e oleoso non si riesce a stare in piedi senza tenersi aggrappati a una qualche cosa, che però è altrettanto respirante e oleosa. Anzi, è a causa di una pioggia di gocce oleose provenienti dalla lampada del soffitto che dopo qualche momento perdo l’equilibrio e finisco faccia in giù sul pavimento. Prima di finire sul pavimento, con la destra cerco di arpionare il tavolo della scrivania, ma riesco soltanto a portare con me un libro – Il Nuovo Zingarelli Minore dell’87. Quando sono a terra il Nuovo Zingarelli Minore si sfascia e lì in quel preciso momento io vedo.
Per prima cosa vedo che lo Zingarelli non è sfasciato. Sembra piuttosto una specie di budino scavato al centro – in corrispondenza della copertina – e da dentro il budino si getta all’esterno una luce argentea. Nella luce argentea io vedo delle cose. Proprio lì, scorgendola dai contorni molli dello Zingarelli, vedo una penna biro a sfera – la stessa che di solito uso per sottolineare i libri che leggo. Ancora non capisco che cosa ci faccia dentro lo Zingarelli, ma è lì, e dopo un poco che la osservo come galleggiare nella luce argentea, allungo la mano e la prendo. Dopo averla presa scorgo subito qualcos’altro: un blocco degli appunti con la copertina gialla, che qualche volta uso per buttare giù idee o qualche abbozzo di racconto, e lì accanto al blocco, un mappamondo di legno, di quando ero bambino, e che era finito nella pattumiera quando mio fratello me l’aveva tirato in testa facendomi un bernoccolo grosso quasi quanto il mappamondo stesso. Che cosa ci faccia dentro allo Zingarelli non riesco a immaginarlo. Allungo la mano un’altra volta e cerco di tirare fuori e il blocco e il mappamondo. Mentre ci provo, mi rendo conto che il mappamondo è molto più grosso dell’apertura che si è prodotta sulla copertina dello Zingarelli, e inoltre che il mappamondo sta un poco più in fondo rispetto alla penna a sfera e al blocco per gli appunti, e per prenderlo devo infilare tutta la mano fin quasi al gomito dentro al dizionario. Mentre tasto con le dita alla ricerca della presa migliore per afferrare il mappamondo e trascinarlo fuori, mi accorgo che il libro cambia forma come un sacco di lattice gommoso – anche l’interno del libro sembra l’interno di una borsa termica –, e più affondo il braccio, più il libro si allunga, e si allarga. Quando riesco a cavar fuori il mappamondo, per un momento, mentre l’apertura del dizionario si allarga e poi torna come prima, si produce il rumore come di una torta di panna che si spiaccica contro un muro. Subito tolto il mappamondo scorgo un altro oggetto: una felpa gialla con una stella bianca cucita dietro. Non posso non riconoscerla: è la felpa che ho usato dai dodici ai sedici anni per tutte le volte che mi sono messo a scrivere o a leggere qualcosa. Ogni volta indossavo quella felpa, forse perché pensavo che la stella cucita dietro mi potesse in qualche modo assistere. Anzi, devo averla da qualche parte in fondo a un cassettone o imbustata in qualche scatolone dentro a un armadio – e una volta o l’altra la cercherò. Una volta cavata la felpa, ecco affiorare la sagoma di un altro oggetto che mi appartiene o che mi è appartenuto. Dopo un poco comincio a credere che se non mi fermo non smetterò più di estrarre cose dal dizionario, e mi viene alla mente di provare a fare qualcosa d’altro. Poso lo Zingarelli e prendo il cane di stoffa appeso al muro. Tra le mie mani il cane si gonfia e si restringe trasudando liquido oleoso. Non riesco a capire da dove prenda aria: forse sulla superficie fradicia del cane di stoffa ci sono migliaia di pori da dove l’aria entra e esce; comunque l’impressione è di tenere tra le mani una cosa viva, un oggetto vivente. Premo le dita di una mano sul cane di stoffa e le dita affondano come nel mastice o nella plastilina. Scavo un solco e poi creo un’apertura e di nuovo si proietta all’infuori la luce argentea. Dentro scorgo un pallone plastificato rosso, di quelli che mio fratello e io acquistavamo dal negozio di giocattoli sotto casa da molto piccoli e poi ci giocavamo nel terrazzo della mia nonna.
Dietro il pallone vedo una mano umana.
È una mano con la pelle piena di macchie color caffelatte, e di rughe, e con le unghie delle dita lunghe, e smaltate di rosso: la mano di una signora di una certa età. L’afferro e comincio a tirarla
fuori dalla stoffa del cane, ma la mano si porta con se stessa un braccio e una spalla e un collo e una testa, che io nemmeno riesco ancora a vedere, ma che posso sentire al tatto. C’è tutto un essere umano lì dentro al cane di stoffa e cercare di tirarlo fuori da una apertura di una decina di centimetri richiede tutta la forza possibile. Mentre cerco di tirar fuori la persona dentro al cane di stoffa, sento le parole che quella persona da lì dentro sta pronunciando. «Smettetela di giocare, monellacci! Rovinate tutte le piante della nonna! E rovinate i miei gerani! Discoli!» Conosco il suono di quella voce. È la voce della signora del piano di sopra a quello di mia nonna, che non appena da piccoli mio fratello e io incominciavamo a giocare nel terrazzo con il pallone plastificato, usciva di fuori dal suo terrazzo (che era un terrazzino rispetto al terrazzone dove stavamo mio fratello e io) e cominciava con il suo: «Smettetela di giocare, monellacci! Rovinate tutte le piante della nonna! E rovinate i miei gerani! Discoli!» Chissà, mi dico che magari se estraessi dal cane di stoffa la signora del piano di sopra – la signora Iolanda – scoprirei che nella mano sinistra tiene ancora il battipanni di bambù che usava per togliere la polvere dai tappeti, e con quello comincerebbe a rincorrermi per battermelo sulla schiena o sul sedere. Comunque, allargando l’apertura e ficcando nella stoffa del cane tutte e due le braccia, con uno sforzo molto grande la faccio uscire fuori. Prima il braccio destro. Poi la testa tutta intera – e non appena fuori con gl’occhi sporgenti dalle orbite e i bigodini verde menta avvolti nei capelli color ferro la testa mi sputacchia: «Smettetela di giocare, monellacci! Rovinate tutte le piante della nonna! E rovinate i miei gerani! Discoli!» Poi estraggo il busto con le tettone coperte da un caffettano a fiori, e poi il resto. Una volta fuori dal cane di stoffa – che nel frattempo, nel giro di qualche secondo, facendo il suo rumore di torta alla panna che finisce contro il muro, torna alle sue dimensioni precedenti –, la signora Iolanda si mette a passeggiare per la stanza con gli oggetti respiranti e oleosi precisamente come passeggiava sul suo terrazzo anni prima ogni volta che ci sentiva giocare mio fratello e me con il pallone plastificato sul terrazzo di mia nonna, e esattamente come diceva allora, anche adesso ogni volta che finisce i suoi sei o sette passi dice: «Smettetela di giocare, monellacci! Rovinate tutte le piante della nonna! E rovinate i miei gerani! Discoli!» Dopo aver cavato dal cane di stoffa la signora Iolanda capisco che cosa sto facendo tutte le volte che estraggo una cosa o una persona dagli oggetti della stanza: letteralmente estraggo le persone e le cose che costituiscono i ricordi che ciascun oggetto nella mia stanza, e a volte per una qualche ragione piuttosto imponderabile, genera in me.
Il sogno termina con me che, allora, vado alla ricerca di oggetti nella mia stanza dove dentro sia imprigionato il ricordo di mio nonno. Mio nonno è morto da qualche anno. Mi manca moltissimo. Forse, mi dico nel sogno, potrebbe trovarsi dentro la chitarra oppure dentro il televisore oppure nell’hi fi oppure nello specchio o nell’anta dell’armadio. O forse il ricordo di mio nonno – che è nato proprio il 6 di aprile – potrebbe trovarsi in qualche oggetto che mi ha donato: il binocolo o la sciabola oppure la sua collezione di monete. Nel sogno – così come qui e adesso – vorrei tenermelo, e abbracciarlo, e anche solo così com’è venuta fuori la signora Iolanda, ossia costretto nel ricordo che ho di lui – che però, va detto, sarebbe molto molto più ampio di quello che conservo della signora Iolanda.
Sia pure alla rovescia il sogno del 6 aprile 2006 rispecchia un fantasma che mi attraversa da quando ho perso il lavoro, e che mi fa pensare che noi tutti, noi esseri umani, noi esseri mortali, e quindi includendo anche gli esseri non umani, siamo degli oggetti
viventi. Forse questo fantasma ha cominciato a girarmi per la testa da quando ho preso a passare le giornate steso a letto o sul divano in attesa di addormentarmi e di sognare e per questo venendomi a trovare in una posizione molto simile a quella di un oggetto, di un corpo inerte, più che di un corpo animato. Ho cominciato a pensare che quel che ci differenzia da un oggetto in fondo non è che il respiro. Qualcuno potrebbe obiettare che questa è solo l’idiozia di una mente depressa e che a parte tutto il resto, ossia, per dire, il movimento, la capacità di arrossire o impallidire, di riprodurci, di perdere sangue, di produrre feci, ingrossarci e assottigliarci, noi ci differenziamo dagli oggetti per il pensiero. D’altra parte, come il fantasma che si appiatta in ogni piega del mio cervello mi fa pensare, esistono degli oggetti che si muovono autonomamente (i robot), oggetti che hanno capacità di arrossire o di impallidire (le bambole), il sangue non è per noi che una cosa molto diversa dalla benzina o sostanze simili, e quanto al pensiero: noi siamo proprio sicuri di pensare? Non siamo piuttosto come quei sassi che cadono a una velocità di 9,1 metri al secondo e pensano e desiderano cadere a una velocità di 9,1 metri al secondo oppure come quegl’alberi che pensano e pronunciano solo la parola “albero” e quelle foglie che pensano e pronunciano solo la parola “foglia”? E a parte questo, noi non siamo forse, tutt’al più, degli oggetti viventi che respirano, si muovono, si emozionano, ma che rimangono degli oggetti e che presto o tardi sono destinati a tornare a essere oggetti esattamente come una foglia, un sasso, la benzina, una bambola, un robot? Anzi, oggetti che sono sottomessi anche a una obsolescenza molto più rapida di alcuni tra gli oggetti che ho elencato?
Forse è per questo – perché siamo sottomessi a una obsolescenza
molto più rapida degl’altri oggetti – che adoriamo il dio in un simbolo che altro non è che un oggetto. Noi ci poniamo con venerazione nei confronti di quel che è immobile, ci poniamo con amore nei confronti di quel che è resistente al lavorio dell’obsolescenza – che non si corruga, che non si rompe, che non si altera, se non lentissimamente, molto più lentamente di quei particolari oggetti che noi siamo –: osserviamo gli oggetti, li desideriamo, li studiamo, li compriamo, impariamo a usarli, e tutto questo forse per il fatto che vorremmo essere come loro: vorremmo essere la chitarra appesa al gancio nella nostra stanza, una delle penne nel portapenne, le pagine con le parole dei filosofi, vorremmo essere un libro, probabilmente. Noi siamo oggetti che guardano agl’altri oggetti con venerazione, con amore, con invidia, perché noi siamo oggetti viventi e respiranti e quando saremo diventati oggetti al pari di qualsiasi altro oggetto ci sgraneremo in milioni di particelle e non avremo più nemmeno la dignità di una sedia, di un tavolo, di un… libro. Gli oggetti ci sopravvivono, e questa parola questa volta qui va intesa letteralmente.
D’altronde, mentre pensavo queste cose, steso sul letto, con il fantasma che si spostava da una parte all’altra della mia mente, pensavo anche che //tempo// sia la parola più superstiziosa, e che andrebbe cancellata da ogni bocca e da ogni vocabolario – e da ogni formula fisica. Il tempo, pensavo sul letto, non esiste. Quel che esiste è soltanto il movimento della materia o meglio la materia in movimento, perché //movimento// non esiste al pari di //tempo// e al pari di //spazio//, è soltanto una parola che usiamo per descrivere la materia che si muove. Il tempo non è una cosa. Alla domanda che cosa è il tempo, noi non possiamo indicare una cosa precisa, così come quando rispondiamo alla domanda che cosa è una sedia, che cosa è un pilastro, che cosa è una bifora, che cosa è l’emoglobina. Il tempo non esiste concretamente così come non esiste lo spazio, e scambiare queste categorie artificiali, e certamente utilissime, per qualcosa di concreto, qualcosa che si può curare, qualcosa che si deve ammazzare, qualcosa che si deve combattere, è forse una delle più grosse tra le superstizioni che ci sono rimaste.
Il tempo è inesistente ancora più dello spazio, e questo lo dimostra il fatto che tutte le volte per parlare del tempo usiamo parole che si riferiscono allo spazio: //il tempo si dilata//, //si espande//, //si allunga//, e così via e così via. O addirittura usiamo parole che lo personificano, diventiamo persino animisti nei suoi confronti, quando diciamo //il tempo passa//, //il tempo corre//, //il tempo trasforma//, //il tempo lavora//, e così via e così via. Oppure scambiamo il tempo per le cose che lo rappresentano soltanto: la lancetta dell’orologio, l’ombra del bastone sulla sabbia. Se esiste l’orologio, ci diciamo, allora il tempo esiste. Se esiste l’ombra che si sposta e il sole che sorge e che tramonta, ci diciamo, allora il tempo esiste. Invece, il tempo non esiste. Sarebbe come dire che poiché sentiamo dei rumori in soffitta, poiché sentiamo delle catene sbattere, poiché sentiamo il suono del violino tutti i giorni a mezzanotte, allora la nostra casa è invasa da un fantasma.
Forse è utile avere dei riferimenti spaziali e temporali, anche se così non pensavo, mentre mi giravo e rigiravo nel letto, e il cosiddetto tempo scorreva, così come è utile avere un dio da pregare, un babbo natale da aspettare, uno spirito guida da consultare, una verità da credere: tutto questo è utile, forse, sì, ma non esiste. Così il continuum spazio-tempo che addirittura sarebbe curvo e sarebbe perforabile non è che la conseguenza del credere che il tempo sia una cosa: il che non è, il tempo non è che una parola, che assorbe tutta quanta la molteplicità dei movimenti delle materie che compongono l’universo. Soprattutto è utile per la costruzione degli universi della fisica che assieme alla matematica, molto più della filosofia e della letteratura, è lo strumento migliore di rappresentazione del mondo, e soprattutto il più utile all’uomo, ma che anch’esso conosce dei limiti, non è uno strumento onnipotente e onnicomprensivo dell’esistente.
Così, che //tutto è relativo// è certamente un’affermazione geniale, ma non meno falsa, probabilmente, dell’affermazione //non voglio esempi di coraggio, ma la definizione di coraggio//. Queste affermazioni, se ci pensiamo, sono idiozie totali che hanno influito sulle nostre rappresentazioni per secoli, perché non si può trovare la definizione di un concetto astratto, ossia di una parola, che è solo una parola, e non una cosa, e non possiamo sapere se proprio tutto sia relativo, questa frase è un gioco di parole straordinario, ma è anche una combinazione straordinaria di errori della ragione, perché si tratta della generalizzazione di una particolarizzazione e della particolarizzazione di una generalizzazione, si sussume il particolare all’universale e l’universale al particolare, si induce e si deduce contemporaneamente, //tutto è relativo//, //relativo è tutto//, la più grande e dimostrabile generalizzazione indebita e riduzione a uno che uomo abbia pensato. Ma anche così pensando, steso sul letto, osservando gli oggetti nella mia stanza, non potevo evitare di sentirmi io stesso, sì, proprio io, in quel luogo e in quel momento, tutto e relativo.

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19 Commenti

  1. Non vorrei sembrare il solito guastafeste, ma se Candida è il miglior autore italiano 2011… siamo proprio “mal ciapài”*-°

    Come chiedevo qui:
    http://vibrisse.wordpress.com/2010/11/24/best-european-fiction-2011/#comments

    “Sono stati presi in considerazione solo gli autori italiani già tradotti in inglese o solo quelli di cui qualcuno si è preso la briga di inviare il testo tradotto? Fra quanti sei stato scelto? Fra dieci, venti, dodici (la manciata che era al corrente dell’iniziativa e aveva inviato a Hemon una traduzione inglese del proprio lavoro… in linea di massima autori non vincolati per contratto alle grandi case editrici)? E dove si può leggere il bando di concorso per partecipare alla Best Fiction 2012? Così, tanto per capire meglio.”

  2. Marco, hai avuto asilo (via Tarabbia) anche in “Ilprimo amore”. Mancano per l’en plein la Lipperini, Carmillaonline e il blog più temuto di tutti, l’autorevole “Cazzeggi Letterari”. Ora rileggo il testo e provvedo:-)

  3. meglio. fattura! fattura! e gli avanzi lasciali ai piedi del semaforo, angolo via vanchiglia corso san maurizio, verso le 4 di notte. a buon rendere. ciao

  4. bello! mi ricorda tanto il mio amato foster wallace! mi piace tanto questo post! -però purtroppo in italia quando uno ha un minimo di successo o cerca di essere un po’ originale gli rompono le balle- ;)

  5. Acutezza cognitiva e capacità d’analizzare ogni meandro grazie a una grande abilità linguistica. Preciso e visionario al tempo stesso, un po’ kafkiano, ma anche wallaciano come dice garrapa, ma soprattutto e al tempo stesso originale. Mi è piaciuto molto.

  6. Grande Marco, mentre succedevano tutte queste belle cose noi di Las Vegas eravamo a Roma per Più libri più liberi e abbiamo verificato sul campo che l’attenzione nei tuoi confronti sta crescendo…
    Felice di essere stato il primo a credere in questo tuo romanzo!

  7. […] Emanuele Buzzi sul “Corriere della sera” di Sabato 4 dicembre: qua. Radio3, all’interno della trasmissione Pagina3 di Sabato 4 dicembre: qui il podcast. Francesco Borgonovo su “Libero” di Domenica 5 dicembre: qua. L’intervista a cura di Massimo Brusasco su “Il piccolo” di Mercoledì 8 dicembre: qui. Infine un estratto del racconto è stato pubblicato su Il primo amore (qua) e su Nazione indiana (qui). […]

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gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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