UN LOGO PER LE DOLOMITI

di Giacomo Sartori

Il logo prescelto per le Dolomiti assurte a Patrimonio dell’Umanità non piace. E in effetti è brutto forte. Quella frammentazione geometrica delle pareti è più metropolitana che dolomitica: quasi impossibile non vederci dei grattacieli, resi ancora più nevrastenici dal cielo scarlatto sul quale si stagliano. Molti professionisti o habitué della montagna, noti o meno noti, sono insorti. Il presidente della Associazione Italiani Pubblicitari ha dichiarato che la valutazione delle quattrocento proposte è stata fatta da persone che di grafica non ci acchiappano nulla, la magagna sta lì. E quindi propone che la sua Associazione, di cui en passant ci ricorda la certificazione (ISO 9001), abbia voce in capitolo. Io non sarei così certo che sia solo una questione di dimestichezza con le tecniche e i saperi dei grafici, certificati o meno. Il problema di fondo, mi sembra, è capire cosa significano per noi queste benedette rocce che alla bella età di duecentotrenta milioni di anni, portati superbamente, hanno ricevuto la consacrazione olimpica dell’Unesco. O meglio, provare a metterci d’accordo su cosa sono. A dire la verità non mi sembra un’impresa facilissima.

Le Dolomiti non sono un posto dove si va a abitare, dove ci si stabilisce. Grappoli di giovani europei saturi di urbanità migrano verso l’Ardèche e altre aree ad alta naturalità, dove allevano capre e fanno spuntare cavolfiori biologici, non verso le Dolomiti. Coppie di anziani nordici mettono le infreddolite radici nell’Algarve o in Provenza, non sulle Dolomiti. La gente scappa anzi da molte contrade dolomitiche, come da tante altre zone delle Alpi: più sono piccoli, più i paesini si svuotano (a rigore di logica dovrebbe essere il contrario: il valore aggiunto dovrebbe essere maggiore), più agonizzano. Troppo isolati, troppo carenti di infrastrutture, troppo lontani dalle città (le dirette antagoniste!). Nemmeno le droghe e l’alcolismo, entrambi molto diffusi, riescono a fare barriera. Resistono beni i centri più grandi e più opulenti, quelli che di dolomitico non hanno in fondo proprio niente, che sono anzi una caricatura a fini turistici delle Dolomiti. Se si leva lo sci invernale, che di dolomitico sensu strictu ha solo i fondali, in molte zone tira aria di crisi. Crisi anche esistenziale, non solo economica. E in fondo perfino il grande alpinismo, che le ha tanto corteggiate e vezzeggiate in passato, contribuendo a costruire poco a poco l’immagine attuale, le vede al meglio come una magnifica palestra, con quel rispetto vagamente sufficiente per le donne che da giovani sono state molto belle, e che hanno ora forse troppi amichetti. Adesso i migliori scalatori migrano stagionalmente sull’Himalaya, dove le sfide mantengono il carattere epico che qui s’è perso. A ben guardare le pareti dolomitiche le attaccano oggi gli alpinisti non tanto bravi, i dilettanti. I vorrei ma non posso.

Come tutte i beni di questo nostro mondo che sembra aver seppellito per sempre gli afflati collettivistici e egualitari, anche le Dolomiti sono in vendita. Possiamo per esempio comprarcene, se ce lo possiamo permettere, un pezzetto di una settimana. In estate, o in inverno, in quota o più bassini, come preferiamo. Senza vista, se siamo un po’ tirati. Se invece siamo dei ricconi sfondati possiamo metterci in tasca un’invidiabile fettona, sotto forma di una villaccia a Cortina, dove a ogni vacanza potremo frequentare i prestigiosi proprietari delle adiacenti villacce (tutti vestiti da montagna, come in una festa in maschera a tema). Se siamo messi molto peggio non ci resta che ripiegare su frammentini più risicati: un fine settimana in rifugio, o magari in tenda, qualche istantaneo mordi e fuggi. Per chi abita nei paraggi, è ancora un’ottima soluzione. Se siamo degli immigrati non ci restano, temo, che le cucine e i locali delle scope, sperando di non essere pagati in nero. Fermo restando che possiamo incolonnarci pur sempre anche noi nei serpenti estivi di veicoli che scavallano a passo d’uomo (quando va bene) i passi più famosi. Anche quello è un modo di conoscere e di amare le Dolomiti, è anzi quello di gran lunga più popolare. Chi può dire che scollinare su un torpedone a due piani o sul proprio veicolo sia meno emozionante che arrivare boccheggianti su una cengia, che sorseggiare un salatissimo (parlo del costo) e affollato cappuccino sia meno struggente di un desueto pranzo al sacco con le uova sode? Se vogliamo essere coerenti, e applicare gli stessi criteri che usiamo per esempio per i libri e i programmi televisivi, dove a decidere sono ormai solo le classifiche delle vendite e l’Auditel, quello è anzi il modo migliore, il più auspicabile.

Certo ci sono ancora frotte di puristi che affrontano le Dolomiti con l’austera costanza immagazzinata nelle gambe e nelle braccia, insofferenti degli eccessi di rumorosità e degli sfoggi vestimentari, e più che perplessi degli arroganti carosellamenti sciistici, non voglio dire il contrario. Io stesso ne faccio parte. Immaginiamoci però di mettere uno di questi ascetici atleti, arrivato pur sempre non lontanissimo dalle vette con un mezzo climatizzato e provvisto di sistema di georeferenziazione satellitare, e foderato di ogni ben di dio tessile e microelettronico, di fronte a uno qualsiasi dei suoi antenati, che usavano salpare dalle città pedemontane a piedi o in bicicletta, con pesantissime corde di canapa attorcigliate al costato: ci farebbe la figura di un viziato damerino, incapace di battersi a armi pari. Si sa, tutto è relativo.

Per certi versi potremmo dire – talmente sono diversi i modi che abbiamo di percepirle e di rapportarci con esse – che le Dolomiti non esistono. E invece esistono eccome, e abbiamo tutti bisogno, ciascuno a modo suo, che esistano: le amiamo. Sono come Pompei, la pizza, Babbo Natale. Sono insomma un mito, e come tutti i miti hanno una natura intrinsecamente vaga, e quel che è peggio alla mercé dei tempi. Questo mito, ci insegnano gli specialisti, ha una nascita piuttosto recente – soprattutto se rapportato all’età geologica delle interessate -, ha avuto una crescita lenta e costante, fino arrivare ai fasti attuali. E adesso, proprio mentre riceve la consacrazione dell’Unesco, constatiamo noi, vive forse un po’ troppo sugli allori passati. Lo troveremo un logo che lo rappresenti, un logo che ci metta tutti d’accordo? Un logo che parli – l’etimologia greca della parola viene da lì – in qualche modo di un futuro possibile? L’autobus a due piani che si disgaggia a fatica da un ingorgo alpino? Una funivia con sullo sfondo un aeroplano low cost? Un pacchetto di euro che scivola leggero sulla neve? Quel che è certo che lo struggente scarpone di cuoio e la stella alpina, che molti di noi hanno nel cuore, sono ormai improponibili.

[questo pezzo è apparso sui quotidiani “Trentino” e “Alto Adige” del 05.12.10]

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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