La Natività del Caravaggio. Dei delitti, delle pene. E dei reati caduti in prescrizione.
Al centro, una Madonna giovane e plebea, con le mani ancora appoggiate al grembo appena svuotato del suo miracolo, il capo e lo sguardo rivolti al giaciglio improvvisato dove s’allunga tenerissimo il corpo del Bambino. Sulla destra San Giuseppe ci volge le spalle, colto nella sorpresa di uno scatto improvviso e ritorto (forse un implicito riferimento michelangiolesco), in conversazione con un (probabile) Fra Leone appoggiato stancamente al suo bastone accanto a San Francesco orante, chiuso in una contemplazione compresa e rapita. Sulla sinistra, speculare, San Lorenzo si china amorevole come a saggiare più da vicino il prodigio che si compie, a fianco di un bue mansueto e sbigottito. Sormonta la scena un angelo dalle ali nere che – come già nel Martirio di San Matteo – proteso da un’oscurità indefinita, spezzata solo da un incrocio accennato di travi di legno, a collegare si direbbe le due dimensioni terrena e celeste col tramite della sua presenza, reca in mano un sacro cartiglio. Personaggi dai modi e dalle apparenze popolani, spogliati d’ogni aureola, crisalide di santità che in natura non è data, e precipitati invece in una misura tutta mondana, terrena. Umana. Il primato del vero, del reale, sulle pretese secolari della rappresentazione sacra. Una scena semplice, semplificata, che tanta più sacralità acquista tanto più si svincola dalle consuetudini dei dettami iconografici, tanto più si cala in una dimensione quotidiana, abitandone gli usi, i luoghi, gli abiti.
E’ la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco di Assisi, dipinta da Caravaggio nel 1609 (con qualche incertezza sull’effettiva data di esecuzione, che potrebbe essere di poco precedente a quella generalmente attribuita), su commissione della Compagnia dei Bardigli e dei Cordiglieri di Palermo, durante il soggiorno siciliano dell’artista in fuga tra l’Italia e Malta per scampare all’arresto in seguito all’assassinio di Ranuccio Tomassoni. Un’opera che, se non piaceva troppo al Longhi, il quale vedeva il Bambino «a terra, miserando come un guscio di tellina buttata» , è in effetti una delle opere più significative dell’ultimo Caravaggio, esemplare in quanto somma, sia formale che tematica, della sua straordinaria, inarrivata poetica pittorica: il valore del nero e della luce, il primato del dato di natura, la fedeltà incrollabile al reale, la coraggiosa, inaudita per i tempi, riduzione del sacro a un quotidiano riconoscibile e accessibile, la scelta di protagonisti popolani, spesso emarginati (le prostitute scelte come modelle per la Vergine, i mendicanti coi piedi sporchi a impersonare pellegrini adoranti), la restituzione quindi di una religiosità ancora più fervente, sincera, patita, proprio perché sentita da un animo di uomo e d’artista perennemente travagliato, contradditorio, irascibile, violento. E per questo ancora più sublime, irresistibile nella verità della sua potenza.
Ci sono molti modi per usare violenza a una comunità, a un luogo, ai suoi abitanti. Ci sono molti modi per violentare la stessa idea di civiltà. La mafia li conosce tutti. La Natività del Caravaggio venne trafugata dai soliti ignoti, la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, chiesa per cui era stata commissionata e dipinta, e in cui trovava dimora da 360 anni. Non è mai stata ritrovata. Grottesche, al limite di un assurdo tutto italiano, le circostanze in cui il furto avvenne e fu scoperto. Il capolavoro, collocato sull’altare dell’Oratorio, era infatti custodito senza alcun allarme o protezione. I ladri, sicuramente affiliati a clan mafiosi, agirono quindi indisturbati, limitandosi al disagio di forzare la serratura di un’entrata secondaria anziché passare direttamente per il portale d’ingresso, arrampicandosi quindi sull’altare per staccare in grossolana fretta la tela dalla cornice per mezzo di una semplice lametta da barba. Il furto fu scoperto e denunciato soltanto dodici ore dopo l’accaduto, e per tutta la mattina del 18 ottobre nessuno apparentemente si accorse della tela mancante (oltretutto di dimensioni ragguardevoli, e di certo non l’unica opera di valore custodita nell’Oratorio, scrigno poco ermetico di altri manufatti artistici puntualmente trafugati negli anni).
Non se ne accorsero nemmeno le due custodi, che all’epoca del fatto dormivano d’abitudine in uno dei locali interni dell’Oratorio. Non fu neanche possibile denunciare queste persone per la loro negligenza, dal momento che non esisteva alcun documento che dichiarasse il loro impiego come guardiane dell’Oratorio: le due signore erano infatti succedute al padre, già custode del luogo sacro – in virtù evidentemente di uno di quei taciti automatismi di successione ereditaria che tanto spesso s’applicano alle comuni dinamiche dell’impiego italico – in assenza di qualsiasi incarico regolarmente formalizzato da parte della Curia. Le dichiarazioni più aberranti e comiche comunque, se non ci fosse in ballo il valore artistico e pecuniario di un’opera d’arte stimata attorno ai 30 milioni di euro, sono quelle delle autorità palermitane interpellate all’epoca dagli inquirenti: tra tutte, l’allora prefetto, in servizio nel capoluogo siciliano da diversi anni, lamentò di non essere mai stato informato da chi di dovere dell’esistenza di una così preziosa opera a Palermo (lasciando intendere che se avesse saputo, qualcosa avrebbe potuto fare, ma non lasciando intendere chi avrebbe dovuto informarlo). Il presidente dell’amministrazione provinciale, poi, che si dichiarò un grande appassionato dell’arte di Caravaggio, stranamente però del tutto ignaro della collocazione nella sua città di uno dei capolavori del Maestro, segnalato dei resto in qualsiasi guida turistica locale e negli scritti di critici eminenti che ben singolarmente sarebbero potuti sfuggire a un acuto estimatore d’arte come lui si professava. Un’incuria, un’ indifferenza, un’ignoranza diffuse, colpevoli e paradossali, che Leonardo Sciascia non mancò di stigmatizzare, tra il divertito e l’afflitto, in un suo famoso scritto.
Gli inquirenti, in particolare i Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale, non hanno mai smesso di cercare il quadro perduto: decenni di indagini, false piste, rivelazioni di boss ritenute prima attendibili poi accantonate, tentativi di vendita ad oscuri acquirenti, segnalazioni di mitomani, richieste di riscatto miliardarie, scoop giornalistici miseramente naufragati in un nulla di fatto, persino un presunto accordo con lo Stato, rivelato negli anni Novanta da Giovanni Brusca, per cui i mafiosi in possesso della tela avrebbero promesso di non distruggerla in cambio di un alleggerimento del regime del 41 bis. L’unica cosa certa è che del quadro si perdono definitivamente le tracce nel 1981, anno in cui boss mafioso Gerlando Alberti lo sotterra, insieme a una partita di droga e denaro, all’interno di una cassa successivamente dissotterrata e affidata, pare, a un misterioso fiduciario del boss. Da allora, le ipotesi più disparate e inquietanti sono state avanzate dai mafiosi interpellati sul furto. Nel 1996 il pentito Francesco Marino Mannoia, nel corso di una deposizione al processo Andreotti, dichiara che la preziosissima tela fu irrimediabilmente danneggiata dagli incauti criminali, che l’avrebbero avvolta in modo tanto grossolano da renderla invendibile, e quindi distrutta. Si è però poi appurato che Mannoia confondeva il Caravaggio con un altro quadro trafugato, di valore assai inferiore. Il boss Salvatore Cangemi afferma invece che il dipinto è ancora nelle mani di esponenti mafiosi che, dopo innumerevoli e vani tentativi di vendita, lo espongono oggi come simbolo di potere, e d’una distorta devozione religiosa, durante i loro summit segreti. Un altro boss, interrogato dalla magistratura, ha ammesso di aver addirittura camminato sopra la tela, srotolata in un’occasione a mo’ di tappeto ai piedi del suo letto. Recentemente, il pentito Gaspare Spatuzza ha invece affermato – senza trovare ad oggi conferme o smentite – che la tela, affidata ai Pullarà, capimafia della cosca di Santa Maria di Gesù, era stata nascosta in una stalla, mangiata dai topi e dai maiali e quindi bruciata.
Il furto, avvenuto ormai quarant’anni fa, è caduto in prescrizione. Non sono più previste conseguenze, quindi, per coloro che hanno commesso il reato di aver danneggiato una tela di valore inestimabile con una lametta per staccarla dalla sua cornice, di averla oltraggiata in modo vergognoso, di averla sottratta a Palermo e ai palermitani, alla Sicilia e al mondo intero. Di aver sottratto a noi tutti un brano sublime di quella Bellezza che in questo mondo pare ormai l’unica salvazione possibile.
Oggi gli inquirenti, convinti che il quadro non sia andato distrutto, e che anzi si trovi probabilmente tuttora a Palermo, confidano in quest’assicurazione d’impunità per i colpevoli e i loro favoreggiatori, perché l’opera venga restituita.
Chiaro/oscuro. Sostrarre allo sguardo la scena del Caravaggio è violentare la bellezza semplice dei personaggi dipinti, è affondare l’arte notturno della pittura in una notte dove si perde la luce gialla, interiore, cuore della passione
dramatica. L’arte muore se divinta una tela spersa, allora gli occhi tornano alla cecità. E li il crimine della mafia, rapire nell’ombra tutto desiderio di vedere, di conoscere, di alimentare la bellezza.
Mi viene in mente il ricordo del presepe a Caserta che Salvatore, un presepe immenso con tutto l’universo pagano e allegro, costegiando vita e morte, celebrazione della vita terrestra. E’ un’offerta a tutti.
La bellezza salverà il mondo; ma a noi chi ci salverà dal mondo?
monta una rabbia che non scade in prescrizione.
praticamente questa è, in nuce, la storia d’italia tutta… si sta in equilibrio su questa pazzesca sproporzione tra un evento estetico altissimo, di abbagliante complessità (che implica non solo un genio ma anche una tradizione collettiva depositata, viscerale), da una parte, e, dall’altra, l’indifferente incetta delinquenziale delle forme umane…
grazie e un saluto caro,
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