carta st[r]ampa[la]ta n.37
di Fabrizio Tonello
Al soccorso della ridotta berlusconiana, ormai simile al sogno nazifascista di un’estrema resistenza sulle Alpi dopo l’aprile 1945, arriva l’intellettuale di riferimento della destra, Marcello Veneziani, che nell’editoriale del Giornale (15 novembre) spiega a Galli della Loggia: “La guerra è appena cominciata”. Sallusti, Veneziani e la Santanchè apparentemente aspettano le “armi segrete” di Berlusconi che dovrebbero rovesciare il corso della guerra e far trionfare il Reich per mille anni. Li ritroveremo in Valtellina, armati fino ai denti, in compagnia delle ceneri di Dante, come proponeva il gerarca Pavolini nell’aprile 1945?
Gran parte dell’articolo, intitolato “Da quando i comici fanno i politici, gli storici hanno deciso di fare i comici” ha però come bersaglio Paul Ginsborg, lo storico di origine inglese, che ha recentemente pubblicato da Einaudi Salviamo l’Italia, definito da Veneziani un “libretto che dovrebbe far vergognare la categoria degli storici”.
Non è del tutto chiaro quali siano le qualificazioni del nostro Heidegger di Bisceglie per impartire lezioni a Ginsborg, visto che non risulta abbia mai insegnato storia in una università, nemmeno la Vita-San Raffaele di don Verzè, e la sua vasta bibliografia manca di ricerche storiche vere e proprie, pur spaziando da La sposa invisibile fino a Sul destino, passando per La cultura della destra. Il prolifico Veneziani ha trovato il tempo di occuparsi di ’68, di Lega Nord, di filosofi “comunitari”, di fare l’elogio della “tradizione” e di scagliarsi Contro i barbari ma non risulta abbia mai prodotto neppure un Bignami di storia per gli istituti tecnici.
Senza farsi intimidire da quello che definisce lo “storico violaceo che viene dall’Inghilterra”, Veneziani produce una lunga lista di contestazioni: “Apprendo poi che la Repubblica italiana è nata nel ’48, e dunque il referendum del 2 giugno del ’46 è una bufala e il primo presidente della Repubblica, De Nicola, tra il ’46 e il ’48 era dunque solo un clandestino, un abusivo napoletano”. L’ironia è giustificata da quello che appare un lapsus calami: “la Repubblica italiana, fondata nel 1948…” scrive Ginsborg a p. 14 del suo libro. In realtà, bastava andare a p. 66 per scoprire che l’autore è perfettamente al corrente del referendum del 1946 ma si riferisce ai due anni successivi come ad un “processo di fondazione” che si chiude solo con l’entrata in vigore della Costituzione, il 1° gennaio 1948 e quindi, al massimo, gli si può rimproverare di essere stato sbrigativo e un po’ criptico nello scrivere “fondata nel 1948”.
Veneziani, un cultore del verbo “apprendere” (usato 4 volte nelle 4 mezze colonnine di p. 2), continua così: “Apprendo persino che Dante è sepolto a Firenze e non, come sanno pure i bambini sin dalle elementari, a Ravenna”. Ginsborg ha scritto davvero così, “Dante è sepolto a Firenze”? Non proprio. Questo è il testo originale: “Nella Basilica di Santa Croce a Firenze, trasformatasi col tempo nel Pantheon della grandezza italiana, fra la tomba di Machiavelli e quella di Dante, si trova il sepolcro del drammaturgo e poeta Vittorio Alfieri, oggi certo molto meno noto dei suoi due illustri compatrioti…”. Tutta la pagina riguarda il monumento di Canova, dominato da una figura femminile che rappresenta l’Italia: la tomba di Dante è citata solo en passant. Forse i bambini delle elementari lo ignorano ma gli adulti che hanno a disposizione Wikipedia dovrebbero sapere che il sepolcro in Santa Croce, apprestato per ospitare le ossa di Dante nel 1829, fu una delle tappe della guerra tra Firenze e Ravenna per impadronirsi delle spoglie del poeta, guerra iniziata addirittura nel 1519 e proseguita per secoli (gli ultimi spostamenti dei resti di Dante risalgono alla seconda guerra mondiale) finora a vantaggio di Ravenna. Quindi, se è vero che la “tomba” del poeta fiorentino si trova in Romagna, non è meno vero che Ginsborg mai ha sostenuto che Dante fosse “sepolto” a Firenze.
Veneziani, però, ha ben altre frecce al suo arco: Ginsborg scriverebbe varie sciocchezze, tra cui “che il clientelismo nasce per colpa della Chiesa (ma i clientes, caro storico, esistevano già nell’antica Roma precristiana)”. Infatti, il testo che Veneziani evidentemente non ha letto, a p. 96 spiega: “Nel caso dell’Italia il clientelismo risale ai tempi dell’antica Roma, quando fra patrono e cliente veniva stabilito un patto formale in cui il secondo giurava fedeltà al primo ricevendone in cambio una serie di garanzie giuridiche riguardanti il comnportamento del patrono”. Nel subcapitolo dedicato a questo argomento, lungo sei pagine, esiste un solo paragrafo che parla della Chiesa, per dire che “Esiste un forte legame tra il clientelismo e le prassi sociali a lungo termine della Chiesa, che ha sempre incoraggiato una cultura di sottomissione e docilità nei confronti delle gerarchie sociali, accompagnata da complesse strutture di mediazione, sia spirituali sia mondane, individuali e collettive” (p. 98). Un po’ più complicato di come la fa il nostro censore di Bisceglie, a quanto pare.
Il collaboratore del Giornale non demorde: “Poi apprendo che Gioberti era razzista, confondendo il primato morale e civile degli italiani con il primato biologico e zoologico della razza”. A dire la verità “zoologico”, secondo il mio dizionario Devoto Oli, si riferisce al mondo animale e quindi non si vede cosa c’entri con i ragionamenti di Ginsborg su Gioberti, che era un uomo del suo tempo e non esitava a scrivere: “L’imitazione ci è tanto più interdetta, che il legnaggio pelasgico [la razza italiana] è la stirpe regia della gran famiglia giaipetica del ramo indogermanico; onde la nostra linea [razziale] sovrastando per l’antichità dell’incivilimento e per gli altri privilegi ricevuti dal cielo alle altre schiatte d’Europa, non può essere moralmente ligia a nessuna”. Questa prosa barocca e ampollosa viene definita da Ginsborg “uno di quei deliri di supremazia razziale tanto cari ai nazionalisti di ogni paese”: francamente sembra il minimo che si possa dire, tanto più che l’autore si affretta addirittura ad aggiungere che “l’opera di Gioberti, nonostante gli eccessi, sostiene una tesi che godeva di vasti consensi” nell’Italia di allora.
In cauda venenum, l’editoriale cita il passo del libro in cui si dice che Berlusconi usa “poco manganello e niente olio di ricino” e commenta: “mi sono perso le squadracce berlusconiane che manganellano, ma poco, i loro avversari”. Veneziani forse ha rimosso i fatti di Genova nel 2001, quando squadracce di polizia berlusconiana caricarono i manifestanti che protestavano pacificamente, ne ammazzarono uno (Carlo Giuliani) e ne massacrarono alcune centinaia nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, fatti per i quali la sentenza del processo d’appello del marzo 2010 ha chiarito le responsabilità degli agenti. Secondo i pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, “ragazzi e ragazze arrestati durante le manifestazioni furono picchiati, tenuti ore e ore in piedi con le mani alzate, accompagnati in bagno e lasciati con le porte aperte, insultati, spogliati, derisi e minacciati di guai peggiori, tra cui la sodomizzazione”. Strano che Veneziani “si sia perso” gli avvenimenti di Genova: quella settimana conduceva “Prima pagina”, la rassegna stampa di Radio Tre e difendeva a spada tratta i poliziotti nelle risposte agli ascoltatori.
[l’immagine in apice viene da qui]
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Grazie Fabrizio, meglio di MythBusters!
Si potrebbe dire che da una parte c’è uno storico che, per quanto non nasconda le sue idee politiche, sa il fatto suo; dall’altro un pubblicista cialtrone. Ma qui credo nemmeno si tratti di cialtronaggine, ma di limpida malafede. In altre parole, Veneziani lo fa apposta. Per questi fenomeni né la parola ‘destra’ né quella ‘intellettuale’ sono adeguate, si tratta di altra e ben più bassa cosa.
giusto per la precisione: mi assicura un italianista bene informato che le ceneri di Dante non si sa più bene dove esattamente siano, anche se ciò sembra strano. Erano state “messe in salvo” durante la seconda guerra mondiale e poi si è in qualche modo persa memoria di dove esattamente.
Inutile aggiungere che quel che invece importa è quanto di Dante rimane nei pensieri di tutti noi.
Che bella merce gli intellettuali di destra: Veneziani, Sgarbi, Buttafuoco, Perfetti, Rondoni, Barbareschi, Platinette. Ben diversi da Gentile, Malaparte, Longanesi, Celine, Schmitt, Junger.
Gli sciuscià del berlusconismo possono ben difendere il loro diritto alla coprofilia, ma che si appellino “intellettuali” è assurdo.
Le ceneri di Dante in un’urna in Valtellina, strette tra le mani del colto Pavolini e di quattro ringhiosi assassini di Salò, tipo Almirante o Pietro Koch, armati fino ai denti a far quadrato intorno al Buce, al Predappiomerda… che bella immagine.
Quelle ceneri, anche dopo seicentotrent’anni, si sarebbero talmente schifate che come minimo si sarebbero raggrumate in forma di sasso e si sarebbero auto-lanciate in fronte a tanta teppaglia.
E’ vero che è in corso una guerra, ma è solo tra bande opposte di (supposti) intellettuali e giornalisti. Conventicole che sparano su conventicole. Qualunque riferimento al 1945, Salò, resistenza et similia è solo aria fritta.
Solo a supporto dell’accusa di cialtronaggine del Veneziani.
Premesso che nascondersi dietro l’usbergo della ricerca dell’errore (ammesso che ci sia) nelle citazioni è indice di piccolezza intellettuale.
Se un libro è una stupidaggine non lo si legge o non lo si critica: lo si lascia perdere.
L’errore nella citazione (leggersi Marx,si parva licet) deve essere foriero di un un discorso critico più articolato,che, come si evince nel lavoro di Fabrizio, nell’articolo dell’editorialista è assente.
Ma questa è malattia cronica. Già il Nostro in ‘Antinovecento’, ed. Leonardo, elaborò un Pantheon con i numi tutelari di una ‘nuova’(?) destra, nel quale era incluso Gramsci e Lenin, e nel miscuglio anche il rinomato Berto Ricci, Pound, Junger, Sorel, mescolando, critica antisistemica, non conformismo (?) e critica antiborghese: la consueta accozzaglia da provincialotto abbeverato alle letture “da lucerna”.
Piolino