B-logos: ovvero discorso sopra la rete in cui si impigliano le parole
A proposito del romanzo Dublinesque di Enrique Vila-Matas
di
Francesco Forlani
Qualche tempo fa, discutendo con una mia amica scrittrice e blogger, Loredana Lipperini, di rete e siti vari, tastandoci il polso per verificare lo stato della fiducia di entrambi nelle capacità del mezzo di produrre messaggi di una qualche importanza, mi manifestava, non senza rammarico, la sua difficoltà a venire sul sito Nazione Indiana. Quel che la tratteneva dal farlo non era affatto la qualità dei post, degli articoli pubblicati, ma il “commentarium”, spesso sul piede di guerra, e assai sovente, e nervosamente, incline a mandare in vacca ogni discussione, a soffiare sul fuoco delle polemiche facili, Saviano sì Saviano no, collaborazionisti o puriduristi, insomma, a sputare sul benché minimo focolare di discussione con l’intenzione chiara di estinguere insieme alla fiamma la sete della propria incazzatura. Perché una premessa del genere a proposito del bellissimo – bellissimo vi dirò perché – libro di Vila-Matas?
Perché a pagina 46 troviamo un passaggio illuminante. Nelle pagine precedenti abbiamo appreso dal protagonista Samuel Riba e dall’elegante voce narrante di Vila-Matas che quella degli editori colti e letterati è una razza ormai in via d’estinzione, che la letteratura o industria culturale , all’epoca del web, pretende la scomparsa degli autori letterari, e che tutto il suo futuro – e passato di editore aggiungiamo noi- è affidato all’invenzione di un viaggio, la trovata di un funerale che avrà luogo a Dublino, il Bloomsday e che si svolgerà come un capitolo dell’Ulysses di Joyce, funerale a cui dovrà presenziare insieme a tre amici scrittori di lunga data. Ebbene, cosa succede a pagina 46? Scrive infatti Vila-Matas che Riba “Entra in molti blog per informarsi su quanto si dice dei libri che ha pubblicato. E se trova qualcuno che dice qualcosa di minimamente fastidioso, manda un post anonimo tacciando di ignorante o imbecille la persona che lo ha scritto.”
Ecco la soluzione, mi dicevo, al problema “lettore critico amatoriale” che via i canoni, ovvero la complessa officina di attrezzi e disciplina in grado di attribuire letterarietà o meno a un’opera, valore di opera o semplice valore di libro a uno scritto, risolve ogni questione con un click, pollice verso o meno, attribuendosi un ruolo che in un altro tempo veniva ricoperto dai critici. Così accade, per esempio nel più famoso sito del mondo dedicato ai libri, Anobii.com, dominato dai lettori critici amatoriali. Una dittatura terribile quella dei lettori critici, dove, per intenderci, si possono trovare I fiori del male o Aspettando Godot, quotati con una sola stellina di gradimento. Ma dove, si badi bene, si respira anche aria nuova, più fresca di certi dipartimenti di letteratura comparata o di una redazione di riviste per addetti ai lavori.
Un esempio di critico lettore, agli antipodi del lettore critico fu sicuramente J.L.Borges il quale scriveva, in tempi non sospetti: “se io potessi ascoltare in che modo verrà letta, tra un secolo una mia pagina, saprei dire che cosa sarà, tra un secolo, la letteratura”. Ah se solo potessimo tutti rileggere le letture che abbiamo fatto a un secolo di distanza.! Un secolo, che in un’epoca di tempo reale e immediato – sapete quante ore vive un libro in una libreria? – si riduce al nulla.
Vila- Matas e con lui Samuel Riba, non ci sta a tutto questo. Se funerale deve esserci ci dovrà pur essere un morto, un cadavere, no? E allora perché non confondere gli assassini e con un gioco di specchi indurli all’errore, trasportarli di libro in libro, di autore in autore, fargli smarrire ogni possibilità di afferrare un senso ultimo delle cose, poter dire, ecco cos’è la letteratura, e salvare la letteratura dai libri – perché la letteratura è qualcosa di più dei libri, assomiglia un po’ alla vita.
Dicono gli editori non letterari, gli autori non letterari, i lettori non letterari e critici che il mondo della carta brucia e che quindi non ci saranno più libri, non più storie ma narrazioni poco importa quanto prodotte da gente senza talento, l’importante è che affabulino, intrattengano e corrano di touch screen in touch screen, in nuove forme elettroniche infinitamente leggere anzi senza peso alcuno. Tutto è allora perduto?
No, affatto. Vila-Matas ci fa intravedere un interstizio da cui sia possibile scorgere la luce. Quell’interstizio è l’invenzione romanesque. La realtà così intensa e rumorosa nelle pagine ambientate a Barcellona, e che diventa rarefatta in Dublino, si intreccia a citazioni di illustri scrittori, ai tic di autori ormai consacrati alla tradizione, e non si sa dove finisca l’una, la realtà e cominci l’altra, la letteratura. L’invenzione genera narrazioni e la finzione può sostituirsi all’esperienza.. Durante il mio lungo soggiorno parigino a me è capitato di incontrare almeno tre persone, due irlandesi e un americano, che mi hanno raccontato di una spiaggia fredda e desolata in Normandia, di un uomo da solo davanti a una scacchiera, quindi di averci giocato e perso, uno diceva di avere addirittura vinto, e che quell’ignoto giocatore – avrebbero scoperto molti anni dopo, da una fotografia, da un articolo, era Samuel Beckett.
Già, Beckett. Perché possiamo dire che Dublinesque è una corda tesa tra i due irlandesi. A un certo punto, Samuel Riba ripensa alla splendida formula di Julio Cortazar “Un ponte è un uomo che attraversa il ponte”, così siamo tentati di dire che perché quella corda esista sarà necessario un critico lettore. Joyce procede nella sua scoperta della verità ultima per addizione, ci ricorda Vila- Matas, mentre l’inventore di Godot procede per sottrazione. Dopo Beckett nulla può essere, laddove dopo Joyce può e deve esserci ancora qualcosa o qualcuno, Beckett, per esempio. E così, la tela – i francesi chiamano la rete, la toile – della letteratura sembra farsi con l’uno e contemporaneamente disfarsi con l’altro. Si ha perfino l’impressione, a un certo punto, che Riba abbia trovato Beckett cercando Joyce, in fondo si chiamano tutti e due Samuel.
Dublinesque sembra allora suggerirci che proprio in ciò che sta oltre si giocano i destini dei libri. Un oltre che è la rete?
E si chiude l’ultima pagina con il forte desiderio di ritornare su uno dei suoi passaggi folgoranti, la descrizione della fine di un amore, l’universo asfissiante di certi ambienti familiari, o più semplicemente una nota, la citazione di Gadda, alle prese con una ricetta di risotto o le letture joyciane di Nabokov. Il tutto, mentre arrivano chiare le note finali della poesia di Philip Larkin, Dublinesque, che ci hanno seguito dal principio.
And of great sadness also.
As they wend away
A voice is heard singing Of Kitty, or Katy,
As if the name meant once
All love, all beauty.
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Che bel pezzo, Francesco. Leggero, ma intarsiato di rimandi. Un pezzo di bravura che non finisce per oscurare il libro di cui parla ma lo mette in risonanza. Bravo.
Fra le regole della scrittura di Vila-Matas spicca l’invenzione arbitraria del gioco, il gusto di intrattenersi all’infinito col proprio finale di partita, trascinandovi, quando va bene, il lettore. Possiede attrezzi che gli permettono di sostenersi sul toro meccanico da lui stesso ideato e non scivolerà perché conosce a fondo l’argomento. Immaginiamo il suo tavolo pullulare di appunti, citazioni e rinvii che verranno utilizzati puntualmente e sempre con elegante e sorprendente perizia. Ha l’accortezza (o la viltà?) di non mettere mai il piede fuori della propria officina nella quale si sente sicuro e magister.
In questo Vila-Matas si dimostra effettivamente superiore a qualcuno dei critici e degli articolisti di NI ai quali sembrerebbe riferirsi, gentile Forlani: nel sapersi nascondere all’interno della propria liturgia funeraria e ironica, in sostanza, nel saper allestire una convincente confabulazione interna. Gli elementi che prende da fuori, dagli altri libri, di gusto sempre fin troppo squisito, direi, hanno la mansuetudine di lisciarsi nella messa in forma che un lettore accondiscendente sarà comunque incline ad approvare, sentendosi però spesso anche a un millimetro dalla fregatura. Ma Vila-Matas possiede spirito, questo vale a perdonarlo d’ufficio.
Ci avrebbe del resto persuaso anche se non avesse messo in opera, davvero tutti fino all’ultimo, gli espedienti sottilissimi dell’autore scaltrito come già nell’incipit, l’introdurre il soggetto (Samuel Riba) soltanto dopo mezza pagina.
Ma gentile Francesco Forlani lei usa Dublinesque in modo pretestuoso, infatti le qualità di tale opera non sembrano essere necessarie e neppure indispensabili se l’intento è semplicemente manifestare una ben precisa insofferenza verso alcuni commentatori, diciamo, poco costruttivi.
A quei commentatori talvolta dobbiamo un poco di spaziosa lampeggiante intelligenza, forse effimera forse eterna, che appaga per un momento un nostro bisogno di palpito, di scambio, di lucida e radicale disputa.
I “commentari” che appaiono su NI posseggono talvolta un poco di quell’elettricità che forse non troviamo negli articoli.
Chiunque può citare Gadda, ma inventare qualcosa non è da tutti e lì sta il nocciolo del problema.
textes et pretextes (prima dei testi)
Gentile Maurizio se le dicessi che sono quasi completamente d’accordo con quanto dice – a proposito dell’elettricità?
effeffe
Forlani lei dice: ” Dopo Beckett nulla può essere “.
Si sbaglia. Dopo Beckett sarà il teatro, perché i suoi testi sono drammaturgia pura, non parole mese in bocca a un personaggio più o meno a casaccio. E’ come se qualcuno scrivesse di calcio in modo che chi esegue le sue lezioni, nel momento stesso in cui esegue le sue lezioni, alla lettera, diventa bravo come Maradona. Dopo Beckett il teatro potrebbe anche diventare bello come uno sport.
sai che noia un commentarium pulito ordinato civile corretto “costruttivo” in linea per alzata di mano! :)
mi sembra un po’ puerile schizzinarsi come fa la tua amica
eccchessaramai un inframezzo di portate tera tera fra le sublimi ricette che proponete!
io vi amo nè e amo oltremodo i commenti elettrici
ma chi ti sta sulle palle caro francesco? :)
bacio
la fu
Vila-Matas nel suo mosaico dublinese/catalano, senza come al solito aggiungere una virgola all’approfondimento del problema inserisce uno spezzatino che considera cruciale dello stesso Beckett:
“Compresi che Joyce… Faceva delle addizioni progressive… invece la mia via consisteva nell’impoverimento, nella mancanza di conoscenza e nel togliere, nella sottrazione piuttosto che nell’addizione”.
Carmelo Bene usava il termine depensare, depensarsi, che aveva preso ai suoi francesi.
Ma togliendo e togliendo cosa rimane? Non certo uno sciocco mondo assurdo, al contrario. Quando s’arriva per così dire all’osso, quando s’è riusciti a spappolare la ciccia degli oggetti convenzionali, rottami nella sabbia, articoli divenuti inconcepibili, culturali o sentimentali che siano, e persino infine l’osso stesso l’ha sbranato il cane, quello che resta è il luogo laddove la Legge vige perfetta in un paesaggio geometrico di archetipi (ciò che dico non risuterà proprio per tutti oscuro). Jung aveva saputo avvicinarsi alla cosa, sembrò trovarsi a un passo, ma… gli mancava un Virgilio.
La scena di Beckett è ridotta a un sol uomo ulteriormente semplificato nelle sue parti essenziali e indivisibili, nei suoi elementi primigenei: un corpo, un’anima, una mente, uno spirito, un’attitudine sociale marionettistica e mortale al massimo, mai nata piuttosto.
Ogni personaggio è l’allegoria di uno di questi elementi colto proprio sul punto di sfracellarsi in un’ultima impossibile riduzione ad unum. Entrerà in scena pure Pozzo, il diavolo, e su tutto, tela di fondo, pesante, Godot, immobile.
gentile maurizio,
ti trascrivo queste impressioni (di novembre:) del nostro amato su beckett, tratto da esercizi di ammirazione
“per intuire quello spirito singolare e isolato che è Beckett, bisognerebbe insistere sull’espressione “tenersi in disparte”, motto silenzioso di ciascuno dei suoi istanti, su ciò che essa presuppone di solitudine e di ostinazione sotterranea, sull’essenza di un essere situato al di fuori, che prosegue un lavoro implacabile e senza fine.
di colui che tende all’illuminazione si dice, nel buddhismo, che deve essere accanito come “il topo che rosicchia una bara”.
ogni vero scrittore compie uno sforzo simile.
è un distruttore che accresce l’esistenza, che l’arricchisce scalzandola”
baci
la fu
Per Joyce il romanzo è ancora possibile se non necessario- vd ritratto dell’artista da giovane- beckett decide, coscientemente di oltrepassare la linea gialla dell’ancora metafisica facendo esplodere – implodere per alcuni- ogni forma di riscatto del discorso. In Dublinesque come ho scritto. credo permanga una tensione costante tra i due movimenti, il tutto all’interno di una dicotomia che Vila-Matas introduce immediatamente con la questione della letterarietà – il canone? Pretesto era allora il commentario e non il testo che invece abborda una delle questioni cruciali oggi, per chi scrive, per chi legge, ma soprattutto per chi fa entrambe le cose, commentatore o autore che sia
effeffe
Gran bel pezzo, caro effeeffe. Domani vado a comprarmi Dublinesque…
Il vizietto della Lipperini è che vorrebbe scegliersi i commentatori solo tra i sino-bolognesi*-°
Testo luminoso.
Ma ormai ho un po’ timore di scrivere un commento :-)
posso solo dì che m’è piaciuto assai … posso aggiungere che a me Saviano nun me piace pe’ gnente? O nun c’entra na mazza?
[…] Forlani in un post su Nazione Indiana di qualche tempo fa a proposito di Dublinesque, l’ultimo libro […]
carissimo Vito grazie per le indicazioni (vd trackback) ci farò un salto, in quella rete. effeffe