Stefano Gallerani e Franco Cordelli, un dialogo
[Questa intervista di Stefano Gallerani a Franco Cordelli appare in «Il Caffè Illustrato», nr. 55, agosto-settembre 2010.]
di Stefano Gallerani
La parola spetta ad un critico. Anzi, due. E se nel primo caso poco contano nomi e circostanze dell’intervento, nel secondo tanto gli uni che le altre sono di un’evidenza flagrante. Nell’ordine: «la descrizione degli oggetti non conduce a nulla, ma alla stessa conclusione conduce anche la descrizione degli ‘stati d’animo’. Che ci si rivolga all’oggetto o al soggetto, all’interiorità, che si faccia romanzo ‘nuovo’ o del romanzo tradizionale, secondo X si trova solo un’assenza»; e ancora: «prima della scrittura non esiste nulla, tutto è già ‘testo’, la stessa realtà è libresca, ‘le nostre vacanze un corpo a corpo così breve / o un cauto omaggio all’inizio di un quaderno’ (…) Che tipo di recupero del vissuto si presenta dunque in Cordelli?, ossessione – si direbbe – della memoria, prima che tutto si confonda in putrefazione, a parte il naturale fascino per la propria dissoluzione (romanzesca): impedire la morte: ma dove? e per chi? La memoria è dunque qui un curioso strumento: memorialismo certo antisentimentale e non proustiano: tutto è già trascorso ma – proprio perché di scrittura si tratta – tutto è ancora suscettibile di variazione e di manipolazione: non si tratta, cioè, di un’immodificabile colonna biografica-psicanalitica. Il testo diventa così il luogo dell’immaginario biografico». L’oggetto di queste parole s’è capito, l’autore, invece, va menzionato, ed è Marco Vallora, che così chiosava la raccolta poetica Fuoco celeste, da Franco Cordelli licenziata nel 1976 per i tipi di Guanda, a tre anni dall’esordio nel romanzo, con Procida. Un esordio che avvenne, come lui stesso ebbe a scriverne presentandosi nell’Autodizionario degli scrittori italiani (1989) curato da Felice Piemontese, in un clima – quello della prima metà degli anni Settanta, appunto – al romanzo peculiarmente sfavorevole. Lo ricordava anche nel 2006, nella nota che accompagnava la nuova edizione di Procida: «Il punto cruciale è questo: come si può avere la faccia tosta di scrivere (di volere scrivere) un romanzo quando tutto lo vieta e lo sconsiglia? Lo sconsigliava una qualche consapevolezza che la forma-romanzo, forma della narrazione moderna, era esaurita; e lo sconsigliavano l’età dell’autore e il luogo in cui egli si trovava a scrivere: quale storia la sua età avrebbe potuto mai suggerirgli? E l’Italia di quei giorni, all’inizio degli anni Settanta, quando il suo risveglio (alla modernità!), benché doloroso, era appena cominciato, che cosa, o quale prospettiva gli avrebbe potuto fornire? L’Italia era un paese dormiente, e là dove non dormiva affatto, dove il risveglio era già cominciato, nelle arti, nell’anticipatrice sfera estetica, la sovversione era posta come sigillo, della stessa modernità. Le avanguardie non annunciavano, e non molto indirettamente, un tempo nuovo. Erano non già, o non ancora, l’antico giudizio (Matteo, 12.36): ‘gli uomini renderanno conto di ogni parola oziosa che avranno detto’; bensì la presa d’atto di un esaurimento storico». Oggi, addì 2010, mentre Rizzoli ha appena pubblicato La marea umana, chiedo a Franco Cordelli se questo clima sia cambiato oppure no. «No, non credo. Ritengo, infatti che esso sia ugualmente negativo. Di più, in qualche momento di quest’ultimo quarantennio, mi parve di capire che la svolta che negli anni Ottanta sembrava aver reso il romanzo non solo possibile, ma finanche gradito al pubblico, al mercato, non era che una conferma dello sfavore del quindicennio precedente – dal ’68 al 1983, grosso modo – nella nuova forma dell’inflazione, che rappresenta l’altra faccia della penuria. Quanto al perché ciò sia accaduto, penso sia compito di un sociologo, di uno studioso del gusto e dei consumi, indagarlo. Vero è che già nei primi anni Settanta, come ancora oggi, ritenevo la forma romanzo come qualcosa di già perfettamente compiuta, rispetto alla quale l’unico sentimento possibile era ed è quello di una scrittura postuma. In una lettera che ho da poco ricevuto dall’amico Roberto Rossi, già mio compagno di lavoro in Guanda, alla Marea umana – e per contraddizione – è riferito quel passo di una lettera di Flaubert in cui si stigmatizza il comportamento dei lettori, e dunque degli scrittori, che leggono un libro, e lo scrivono, solo per sapere se la tale baronessa finirà per sposare il visconte tal’altro. Ebbene, oggi come ieri, è proprio questa la letteratura che respingo. Non ho intenzione di leggere romanzi di questo genere e tantomeno intendo scriverne. Il formulario romanzesco non mi interessa, non mi ha mai interessato. Il che non significa che io sia – o pensi a me stesso come – un antiromanziere. Così facendo non accetterei che l’ennesima formula di comodo dei cosiddetti sostenitori del romanzo-romanzo. Qual è, allora, la domanda? Perché uno scrive romanzi? Non lo so. Non posso rispondere. So che li scrivo, perché esistono, li ho scritti, li hanno pubblicati, però di fatto credo che una qualsivoglia forma di narrazione – come ritengo essere il romanzo – sia tale in quanto manifestazione di un complesso intellettuale ed emotivo che non potrebbe essere reso con la stessa potenza in altre forme di scrittura in prosa. Sto pensando, ovviamente, a scritture di tipo saggistico.
G: Questa contrapposizione, lo schieramento di romanzo da un lato e romanzesco dall’altro – o del formulario romanzesco, come lo hai appena definito – mi fa venire in mente, quasi ne fosse un’ulteriore declinazione, l’ennesima, quella tra realismo e realtà – o meglio, per dirla con Bataille, reale.
C: Di fatto i miei romanzi…queste scritture, chiamiamole proprio così, nel senso in cui Barthes ha formulato il termine écriture, nascono precisamente da un’interrogazione sul significato, sul senso di realtà, ovvero sul rapporto tra immaginazione e cosiddetta realtà. Quanto è reale la scrittura, quanto lo è il reale. Qual è il loro legame, insomma. Nella sostanza, è una domanda filosofico-esistenziale che spinge la macchina della narrazione – o della scrittura come io la penso, e cioè proprio in quanto scrittura e non in quanto racconto nel senso tradizionale.
G: Ed è corretto dire, partendo per l’appunto da questa distinzione, che nei tuoi romanzi l’andamento della macchina-scrittura si rifletta sulle cadenze della macchina-narrazione determinandone l’organizzazione, la struttura?
C: Io penso che tu usi il termine struttura in un modo che, per quanto esatto, pure non è giusto – bada bene, anche a me capita di usarlo in questo modo, ma poi mi pento, sebbene spesso non faccia in tempo ad emendarmi perché magari ho già licenziato il pezzo in cui ne faccio uso. Il termine struttura come tu lo stai adoperando adesso è, secondo me, architettura. E dunque sì, è determinante e deliberato. Non dico sia progettato, però man mano che la scrittura cresce la forma architettonica si va precisando, se ne acquista coscienza e si decide di continuare sulla strada che si è imboccata oppure abbandonarla. Però la struttura è un’altra cosa. La struttura è profonda, è invisibile. Non sto pensando a Lacan, non intendo che sia indicibile, però ricostruire la struttura come struttura dell’inconscio è davvero un’altra cosa. La reale struttura di un libro è cosa ben diversa dalla sua architettura, è quasi sempre inafferrabile, tanto da poter essere detta assente o comunque nascosta. La mente umana è portata a indagare fino a supporre di poter ricostruire la parte inabissata della costruzione architettonica, cioè della struttura psichica, però non so nemmeno se ciò sia realmente possibile. A volte i critici strutturalisti pensano di aver scoperto la struttura, ma la loro è piuttosto una convinzione, e dunque una fede: essi sono, in molti casi, dei critici religiosi, nel senso che sono lettori con una latenza religiosa, certe volte a loro stessi ignota.
G: A proposito di religiosità, mi sembra di poter dire che essa, in quanto palinsesto sentimentale, emotivo o morale, sia fortemente presente non solo ne La marea umana, ma anche nel Duca di Mantova, e che in entrambi i romanzi si presenti non tanto sotto le spoglie di un problema di coscienza quanto, piuttosto, nei modi e nei termini di un rapporto dinamico polare, di un vincolo per la precisione.
C: Beh, in questo ultimo libro l’altro termine della polarità mi si configura come alterità radicale. L’Indonesia, che è un luogo in cui pensiamo la religione abbia una pertinenza più cospicua che nel mondo occidentale contemporaneo, per me non è altro che una metafora – forse più di una metafora – dell’alterità. Ma l’alterità cos’è? Essa non è l’altro con la maiuscola, l’Altro religioso nel senso ovvio e immediato della nostra percezione. È ancora e sempre la realtà. In questi termini noi – o io – credo di avere un rapporto con l’altro, ovvero con la realtà, un rapporto, come dici tu, di vincolo: un rapporto vincolato e, in quanto tale, problematico. Credo di avere, della realtà, una percezione come un qualcosa di impossibile da dire e impossibile da acciuffare. Volendo radicalizzare quello che sto cercando di dire, potrei affermare che la realtà è dio o dio è la realtà. E però, obietto a me stesso: la coscienza dei singoli, in quanto realtà, è dio? Ma a questa domanda non so – e non credo – si possa rispondere.
G: È, in fondo, il paradigma latente delle domande che l’io narrante della Marea rivolge, quando esplicitamente quando in maniera indiretta, ad Aki. Domande dalle quali non aspetta una risposta né, tantomeno, ciò che più è sorprendente, Aki sembra mai preoccupato o intenzionato a rispondere. Quasi si accontentasse dell’estraneità del suo detto.
C: Di questo mi sono reso conto fino a un certo punto. Aki restava, man mano che andavo scrivendo, piuttosto elusivo, sordo alle domande dell’io narrante, quasi che non gli interessasse altro che andare a quello che ritiene essere il nocciolo della questione, ovvero la riconquistata prossimità fisica. Dunque un vincolo, che poi potrebbe essere il vincolo, è proprio questo. E proprio questa potrebbe essere l’unica possibile risposta alle domande poste dall’io narrante. Di conseguenza, la risposta materialistica, corporea, empirica – come si voglia chiamarla – comporta che tutte le domande non sono, infine, che pura metafisica, pura astrazione, puro romanzo; non sono nulla. Il romanzesco è un corredo. Aki è l’unico che abita il cuore di ciò che appena si può definire la realtà ridotta al suo elemento più naturale.
G: E pure, sempre raffrontando La marea umana con Il Duca di Mantova, questo vincolo di prossimità sembra mutare di forma e di segno col mutare del tempo. Dove lì, cioè, si affrontava di petto il presente, ebbene si instaurava con le persone, con gli amici – rigorosamente al plurale – un rapporto che definirei conventi colare, qui, nella Marea, una volta che l’io si confronta con il passato, il legame è piuttosto monastico e declinato al singolare.
C: Mi sembra che una possibile risposta sia questa. Anche nel Duca di Mantova c’è un altro, un altro più impegnativo – è più pesante – perché ha un nome reale: Berlusconi. Che corrisponda o meno a una realtà empirica, aneddotica – e poiché quel nome rappresenta, semplificando al massimo, il potere, ovvero qualcosa che si allontana sempre più dalla vita quotidiana di un qualunque io narrante possibile e comunque dall’io narrante del libro – diversamente dall’Altro-Aki che si avvicina; ebbene, questa distanza produce nell’io narrante stesso – ma questo lo so adesso, ovviamente – una reazione ironica, sarcastica, di fatto difensiva, quantunque aggressiva, perché proprio quell’io narrante veniva, dalla realtà che si configurava sotto forma di potere, sempre più estraniato, allontanato. Ciò si rende addirittura plateale quando si definisce Berlusconi femmina: ovvero, semplificando, il potere è femmina e l’io narrante maschio non può afferrarlo. Qual è l’unica reazione plausibile? Aderire a quella che tu hai chiamato una realtà conventicolare – per non restare soli. Dunque l’amicizia sostituisce l’amore, e per esso la possibilità di un rapporto buono con la realtà. L’amicizia monastica, se vuoi, più intima di quella conventicolare, non è invece una sostituzione, ma una forma sublimata. Aki viene da lontano, ma il suo lontano è in realtà è il più vicino possibile all’io narrante, il prossimo, un che di sedimentato che riaffiora e che questi riconosce immediatamente intimo. Anche il fatto che Aki non risponda alle domande viene percepito come naturale.
Probabilmente l’io narrante già sapeva, già aveva capito che non c’è risposta se non in ciò che sta accadendo: il ritorno di Aki, il riaffiorare di quanto era sepolto e la coscienza che il sentimento della vita – come intimità, complicità, emotività, affettività – è attivo. Anzi, non c’è che quello, ciò che accade in quel momento, e che (come si vede) perfino dura nel tempo.
G: Tanto che il vincolo con Aki finisce per tradursi in un rapporto di fiducia…
C: Certo.
G: Cambiamo per un attimo la prospettiva. Nel corso del tempo hai scritto molti interventi sulla letteratura italiana del Novecento – interventi che in massima parte nel 2002 sono stati raccolti da Massimo Raffaeli per Le Lettere nel volume Lontano dal romanzo, sorta di riflesso speculare de La religione del romanzo, sulla letteratura straniera e per lo stesso editore. Ebbene, nel primo, dicevo, il suo nome non compare mai, se non tangenzialmente forse, certo non in modo ‘monografico’. Poi, qualche anno fa, almeno così mi piace ricostruire la vicenda, indipendentemente che sia questa o meno l’effettiva sua scaturigine, uno scambio notturno di messaggi tra noi, l’accensione di una scintilla e di colpo la tua attenzione si sposta sul nome di Guido Piovene. Scrivi lunghi saggi, articoli di giornale e, infine, il nome dello scrittore vicentino entra da protagonista ne La marea umana, accanto a quelli di Eugenio Colorni e Paolo Volponi. Cosa è succcesso? Cosa rappresenta, oggi, per te, Guido Piovene?
C: Innanzitutto, partendo dal dato più attuale, nella Marea l’io narrante in quanto scrittore si identifica con Piovene in quanto scrittore. In questo senso Piovene rappresenta un’immedesimazione di fatto, a differenza della figura di Colorni, che potrei definire, semmai, un’idealità di fatto. Più in generale, credo che sia occorso un elemento romanzesco nella vita, una coincidenza in virtù della quale due fattori si sono ritrovati accendendo, come dici tu, una scintilla. I due fattori, estranei l’uno all’altro, sono il riaffiorare del nome Colorni e il fatto che da una certa quantità di tempo, provenendo da tutt’altra parte, era riemerso il nome di Piovene. Questi due nomi, che erano già storicizzati in quanto prossimi – sebbene io, pur sapendolo da sempre, come nozione, come notizia, non ne avessi una conoscenza storica approfondita – mi ha portato non dico a studiare il personaggio di Colorni, ma, cosa più importante perché riguarda la mia vicenda di scrittore, a rileggere, perché di vera e propria rilettura si è trattato, gli ultimi quattro romanzi di Piovene – Le furie, Le stelle fredde e i postumi Verità e menzogna e Romanzo americano – più la lunga riflessione de La coda di paglia. In particolare, leggendo Le stelle fredde ho capito che c’era un elemento, forse più d’uno, che, rimosso o dimenticato, doveva aver agito nel momento in cui scrissi Procida tornando sotto forma di immagini, figure, situazioni. Le stelle fredde è del ’70, ed io so con esattezza di aver cominciato a scrivere Procida nello stesso momento, non saprei dire con esattezza in che punto del ’70, ma in quello stesso anno. Allora mai avrei ammesso che potesse influenzarmi Piovene, il mio interesse era rivolto a scrittori completamente diversi da lui. Oggi questo dato si fa più interessante perché mi svela qualcosa del profondo della mia coscienza. È come il rapporto dell’io narrante della Marea umana e Aki. E cioè, posto che l’io narrante sia lo stesso del Duca di Mantova, i suoi amici sono tutt’altri che Aki. E ancora, Aki riaffiora dal passato come Piovene riaffiora dal passato. Si tratta davvero di dimenticanze o rimozioni, di ritorni, di lontananze che di colpo si riconfigurano in vicinanze, come intimità. E però, dal momento che cominciai a pensare Piovene come intimità ignota, il peso che egli, come scrittore, lasciava si faceva progressivamente più consistente. L’io narrante lo assume e accetta il confronto con quella che lui chiama realtà, il confronto con dio, per proseguire con la metafora che ho usato prima. Ovvero il confronto con il suo sentimento di colpa, che nasce non da una colpa specifica da espiare, ma proprio dall’aver dimenticato o rimosso Piovene. La colpa è, dunque, aver sostituito un nome con altri nomi. È non aver capito un po’ di più la natura dell’uomo, dello scrittore Piovene e la sua importanza per me, Franco Cordelli in quanto scrittore.
G: E però, trovo curioso, e coerente con lo statuto d’ambiguità che caratterizza vuoi l’uomo vuoi l’opera, che Piovene non sia solo l’Altro sé in cui si rispecchia la coscienza dell’io narrante della Marea, ma anche l’Altro da sé, come Aki, anch’egli appartenente al passato, anch’egli rimosso e anch’egli riemerso.
C: Questo è uno schema incrociato a cui non avevo pensato e che mi si appalesa nel momento in cui lo dici…
G: Tanto che mentre parlavi del sentimento di colpa e dell’aver dimenticato Piovene, se ti fossi interrotto prima di concludere la frase io avrei scritto, come riflesso condizionato, proprio il nome di Aki…
C: Parlavo di Piovene per l’esattezza, ma è vero quello che tu dici. Il dimenticato è da una parte Piovene e dall’altra Aki, che sono metaforicamente agli antipodi. A rigore, Aki rappresenta il Colorni dell’io narrante della Marea umana, per un motivo che viene appena accennato, ovvero perché se ne va dall’Italia, perché non so se nella coscienza di Aki, ma certamente in quella dell’io narrante affiora rapidamente l’idea che Aki sia andato via dall’Italia come in esilio. Una situazione analoga alla prigionia di Colorni negli anni Trenta. Quindi, il personaggio dell’io narrante in quel momento ha anche un’altra colpa, ammesso che sia tale, ed è quella di essere rimasto. Ma qui si pone un dilemma di carattere etico: se sia colpevole rimanere in campo, con l’illusione, o l’alibi di combattere, aver dato battaglia, se c’è stata – ma forse sì, perché è stato scritto il Duca di Mantova. Insomma, se sia colpevole sporcarsi le mani. L’altra eventualità è che l’esilio non sia un esilio ma una fuga. Certo, fuga o esilio, c’è un prezzo che si paga. Più volte l’io narrante insiste sull’essere fermo in un punto perché sradicarsi, muoversi da quel punto è estremamente doloroso, e l’io narrante, sebbene in Aki non traspaia, percepisce come doloroso l’essere andato via. C’è però indubbiamente, come tu osservi, quest’aspetto cui non avevo pensato, ovvero la sovrapposizione, quasi la coincidenza, in quanto ritorno del dimenticato, del lontano, tra Aki e Piovene. ..
Mi viene poi in mente che finora abbiamo sempre fatto ricorso all’appellativo di io narrante de La marea umana e mai al suo nome, Franco…
G: Che nel romanzo figura una sola volta…
C: Esatto. E qui ritorno di nuovo alla lettera del mio amico Roberto Rossi, che ti leggo: «Io penso che aver chiamato Franco quel soggetto permetta almeno due considerazioni: la prima, che sia un’esca offerta su un piatto d’oro ai lettori più ingenui o più logorati dalla lettura della produzione narrativa, non solo italiana, corrente. La Marea è un romanzo autobiografico (il nemico giurato di Saint-Beuve non aveva voluto, chiamando Marcel il suo narratore, avere una prova in più della bêtise dei saintebeuvisti?); la seconda è qualcosa di ben più complesso. Non è più soltanto giocare col fuoco di un genere o di una metodologia critica, perché se noi togliamo di mezzo psicologia e autobiografia, la scelta di Franco diventa ancora una volta una questione strutturale. Per me il nome Franco nel testo rimanda non a un extratesto ma alla sua soglia, direbbe Genette, cioè allo scriptor. E qui, per me, il rapporto cruciale di un’omonimia che nella marea ha trovato senza più esitazioni il modo di dichiararsi, non maschera sul volto né maschera su un’altra maschera, ma coincidenza tra auctor e narratore, cioè le due posizioni strutturali».
G: Il che mi fa pensare ai termini della riscrittura di Procida, al ripristino delle date e dei nomi che compaiono nella prima stesura e che poi, rivedendo il libro prima di pubblicarlo avevi sostituito con nomi a vario titolo presi in prestito dalla letteratura.
C: Perché li avevo mascherati? Probabilmente non ero abbastanza consapevole di ciò di cui Rossi mi fa consapevole…e di cui penso di essere consapevole oggi. Nel momento in cui ho scritto Franco nel libro sapevo perfettamente ciò che stavo facendo. Sapevo perfettamente che se avessi voluto avrei potuto scrivere Giorgio, o addirittura non scrivere nessun nome. La scelta radicale sarebbe stata scrivere un altro nome, semplicemente, e nessuno avrebbe potuto dire che si tratta di un libro autobiografico. Adesso tutti sono legittimati a dirlo. E cioè Franco è Franco. Angelo Guglielmi, nella sua recensione a La marea umana per “La Stampa”, usa il nome Franco non come se stesse parlando del personaggio, come in effetti è, ma quasi si riferisse all’autore. La soglia di cui parla Rossi riferendosi a Genette, da Guglielmi non è percepita come fatto strutturale ma solo come fatto aneddotico. Ma qual è la differenza? Se lo percepiamo come fatto strutturale mettiamo ancora una volta in dubbio lo statuto di realtà; se, invece, lo riteniamo un fatto puramente aneddotico, la realtà diventa quella cosa corrente, o addirittura corriva, che ci si appalesa nel mondo della nostra vita quotidiana.
G: Dopotutto, cito Ernesto Sabato, ma si tratta piuttosto dell’enunciazione di un’evidenza: «Tutti i personaggi di un romanzo rappresentano, in qualche modo, il loro creatore. Tutti, in qualche modo, lo tradiscono».
C: Pensa a Proust, richiamato da Rossi. Certamente lo scrittore francese ha usato momenti della sua vita precedente alla stesura della Recherche, altri li ha inventati, ma quello che racconta non è quello che ha vissuto, è evidente perché lui lo rende evidente attraverso il nome Marcel. Ciò detto non è che abbia pensato a Proust quando ho scritto il libro, quantunque vi si palesi come tema dominante il tema del tempo o, più esattamente, il tema della lontananza. La quale comprende, io ritengo, almeno tre cose: il tempo nel senso proprio; lo spazio, poiché Aki viene da lontano – infatti quando parlo di marea umana mi riferisco a mondi fisici e geografici distanti tra di loro; e la lontananza in senso psicologico, se non addirittura tale da potersi configurare solo attraverso un’esplorazione psicoanalitica. Ecco perché non so se è dimenticanza o rimozione.
G: Come vedi, oggi, in sequenza, il rapporto tra i tuoi otto romanzi?
C: Nonostante li abbia scritti tutti senza avere nessuna forma di progettualità, tanto da arrivare al punto di convincermi, dopo quasi quarant’anni, d’essere uno scrittore sonnambulo – il che è anche paradossale poiché credo di avere una certa consapevolezza della storia del romanzo, della sua forma , dei problemi che essa forma pone -, penso, a distanza di tanto tempo, che nei primi sei si sia andato configurando vieppiù un elemento strutturale e architettonico per me evidente. Mentre La marea umana e Il Duca di Mantova sono stati scritti senza questa progettualità. Ciò che è più evidente nel primo, per la sua sonorità scanzonata, allegra…una sonorità molto forte contrapposta alla musica da camera della Marea, che somiglia piuttosto all’assolo di una tromba, di uno strumento a fiato suonato senza toni particolarmente alti, su scale sempre basse. La sua natura è per ciò stesso destrutturante. Non c’è progettualità e, arrivo a dire, non c’è nemmeno un’architettura che la rifletta. Sia l’uno che l’altro sono due quadri astratti. Sono astratti perché il mio sentimento è astratto. Nella mia mente profonda, e dunque nella mia psiche, è avvenuto un mutamento, per cui un’architettura finisce per somigliare a un significato, cioè a una risposta che non la supporta più. In Un inchino a terra, tanto per intenderci sulla distanza non solo temporale che separa quella parte della mia opera da questa più recente; in Un inchino, dicevo, c’è addirittura l’idea di un percorso catartico che, oggi come oggi, per me come persona, è inconcepibile. Non vedo la ragione di qualsivoglia catarsi. Nonostante possa dare l’idea di una traiettoria, La marea umana comincia con un congedo e finisce con un congedo, momenti che si specchiano l’uno nell’altro come due aperture e rappresentano altro dall’io narrante, da Franco. Mentre ti parlo, arrivo a pensare che l’abbandono di Fumiko, che al momento della sua stesura non mi si figurava che come episodio, ora potrei immaginarlo – posso leggerlo – come l’inizio della vita; come l’abbandono del corpo della madre, che alla fine viene anche nominata.
G: Ma forse questa… questa è un’altra avventura… più strana ancora.
C: Già…Sì, più strana di quanto potessi o possa immaginare.
I commenti a questo post sono chiusi
[…] Fonte: Stefano Gallerani e Franco Cordelli, un dialogo – Nazione Indiana […]
Sì. Questo sembrerebbe ci si dovesse attendere da un luogo di possibile scambio di idee sulla letteratura e le altre arti: riflessioni personali e profonde, non inficiate dalla fretta di dire tutto e subito e facilmente.