La letteratura sperata
di Emanuele Trevi
Già il fatto che David Shields definisca «un manifesto» il suo Fame di realtà (Fazi, prefazione di Stefano Salis, trad.di Marco Rossari, pp.264, euro 18,50) ci parla di uno stile di pensiero decisamente inconsueto, per non dire inattuale. A chi può mai rivolgersi, nel 2010, un manifesto? Il fatto è che la teoria letteraria di Shields chiama in causa i suoi lettori, li seleziona mentre procede. Dai manifesti delle vecchie avanguardie lo scrittore californiano, nato nel 1956, ha imparato a rivolgersi a una minoranza come se si trattasse, contro tutte le apparenze, di una moltitudine. Spazzando via d’un colpo, grazie alla sola energia del desiderio, il più triste dei prodotti dell’industria culturale: la rigida separazione dei ruoli, il Muro di Berlino che separa i produttori dai consumatori. «Non credo di essere l’unico», si legge per esempio a un certo punto, «che trova sempre più difficile leggere o scrivere romanzi».
Proprio questo è il punto: bisogna restituire al «leggere» e allo «scrivere» la loro salutare circolarità. Gli stessi disagi, e le stesse ambizioni. Shields non ha dubbi sul suo bersaglio: nell’Epoca dell’Egemonia del Romanzo, entrambe le funzioni perdono di senso, sono solo dei feticci rinsecchiti. Della perduta ricchezza, rimangono solo due prestazioni, asservite e speculari: la produzione di trame, e il loro consumo. I cosiddetti scrittori, nel clima asfittico e segretamente autoritario della fiction, muovono i loro pupazzi, più o meno abilmente. Ai cosidetti lettori, dall’altra parte del muro, non rimangono che le squallide prerogative dell’identificazione e il desiderio, ottuso e identico a se stesso come una coazione a ripetere, di vedere come andrà a finire. E la critica ? Basta aprire un giornale qualunque: la critica produce riassunti. Il suo massimo sforzo cognitivo consiste nel non rivelare qualcosa del finale, guastando il piacere. Al massimo grado del suo prestigio, il critico di oggi è il servo così sciocco e zelante da non avere mai bisogno dell’imbeccata del padrone. Facilmente gli verrà concesso di scriverlo anche lui, il suo romanzo.
In questa terra desolata, di fronte allo spettacolo di una letteratura ridotta al fanalino di coda dei saperi umani, Fame di realtà è un bellissimo anticorpo, un dono inaspettato. Fatto più unico che raro, anche fra coloro che si ostinano a pensare con la propria testa, la sua forma non è inferiore all’ambizione delle idee. Il fatto è che Shields, teorico del collage e dell’appropriazione indebita di materiali eterogenei, non commette l’ingenuità di predicare cose che la sua lingua non potrebbe sostenere. I 618 paragrafi di cui si compone sono in massima parte delle citazioni, estrapolate da una selva di materiali eterogenei e, se occorre, opportunamente modificate. Solo le comprensibili preoccupazioni dell’ufficio legale della Random House hanno imposto a Shields di pubblicare in coda al libro un elenco dettagliato delle sue fonti. Così, per fare un esempio tra mille, quando leggiamo affermazioni come «il mio mezzo è la prosa, non il romanzo», il fatto che queste parole provengano da un’intervista a W.G.Sebald non dovrebbe possedere, nelle intenzioni dell’autore, la minima importanza. E’ vero anche il contrario: quando Shields esprime il suo punto di vista senza ricorrere a parole altrui, potremmo considerare ciò che leggiamo una specie di furto da se stesso, abilmente intarsiato con il resto. Se i procedimenti letterari si devono giudicare in base ai loro risultati, bisogna ammettere che Shields ha vinto la sua scommessa, e che è difficile, una volta accettate le regole del gioco, rimanere indifferenti a Fame di realtà, anche quando ci si trova in disaccordo su questo o quel punto. Ma non si comprenderebbe bene l’energia di persuasione di questo libro limitandosi a constatare che si tratta di un collage, o di un mosaico, di citazioni. L’altro fattore importante da considerare è che la scrittura critica di Shields è fortemente, contagiosamente orientata: se parte da un’insoddisfazione («la trama è roba per gente morta») è verso un futuro possibile che punta la bussola, senza indulgere (fatto molto meritorio) a nessuna elegia dei bei tempi andati. E con questo entriamo nel territorio più spinoso della proposta di Shields. Se «il genere è un carcere di massima sicurezza», infatti, esso possiede almeno il vantaggio d’essere definibile, di godere di regole tutto sommato stabili. Basta leggere il recente e fortunato libro di James Wood, Come funzionano i romanzi, e confrontarlo a Fame di realtà per capire, fin dai soli titoli, quanto sia difficile costruire una teoria senza potersi avvalere di un affidabile repertorio di esempi – ovvero di un’idea molto pragmatica ma efficace di tradizione. Wood pesca i suoi precetti da un numero nutrito di grandi capolavori, che sono ovviamente diversi l’uno dall’altro, ma che contengono suggerimenti validi per tutti. Shields, dal canto suo, elenca dei libri che gli piacciono, ma che incarnano un’idea della letteratura sostanzialmente irripetibile. Gli stessi concetti di memoir e non-fiction, con il loro implicito principio di indeterminazione, più che creare dei criteri di leggibilità, intorbidano ancora di più le acque. Rimane il fatto che la lettura di Wood è deprimente, come in genere lo sono i programmi dei corsi di scrittura, mentre quella di Shields è elettrizzante. Ciò che vale davvero la pena di desiderare, è sempre ciò di cui non riusciamo a nutrire un’idea ben precisa. Come principio generale, può anche valere che «l’assenza della trama lascia al lettore l’agio per pensare ad altro». Ma bisogna subito aggiungere che lo stesso titolo scelto da Shields per il suo libro potrebbe essere foriero di equivoci. Reality Hunger non vuole affatto tessere l’apologia del memoir spacciato per verità oggettiva in forma di scrittura. Intanto, bisogna sempre ricordare che la memoria non è più affidabile di un autore di fiction esperto delle più sottili tecniche di mistificazione. La cosiddetta autenticità dell’esperienza è una merce, o ancora peggio, come sa chi ricorda l’indegno caso di J.T.Leroy, un valore aggiunto che rende appetibile una merce scadente. A Shields interessa tutto il contrario: una relazione fra il vero e il falso che non sia reciprocamente esclusiva, e che permetta al narratore di destreggiarsi come meglio sa all’interno di questi due poli. Figlia illegittima della confessione e della menzogna, la «rappresentazione del reale» è una cosa ben diversa dall’inafferrabile realtà. Appartiene di diritto alla letteratura, perché implica una soggettività integrale che non nasconde il suo lavoro e nemmeno i suoi fallimenti in nome del prodotto finito. E’ un’esplorazione di sé e del mondo, tipica del saggista e del poeta, che non ricava nessuna utilità dall’«impalcatura fittizia» della trama, del luogo, della scena e dei personaggi. Con tutta la passione di un artista che preferisce mille fallimenti a una strada già battuta («il solito monnezzone da quattrocento pagine») Shields punta tutte le carte sulla possibilità di «trascendere l’artificio». L’opera che ha in mente non ha nome (si potrà solo parlare, come il Pasolini di Petrolio, di «qualcosa di scritto») e la sua forma coincide con il suo divenire, è un sentiero che si percorre camminando nel buio. Come un tempo certe opere di Barthes, Fame di realtà è un libro di critica che si legge con emozione, che costringe a rimettersi in gioco. Il suo vero oggetto non è né un genere di scrittura né un certo numero di libri esemplari. E’ soprattutto una letteratura sperata, quella di Shields: ancora da leggere, ancora da scrivere.
(Pubblicato su Alias-Latalpalibri)
I commenti a questo post sono chiusi
Alcuni anni fa ebbi una crisi di purezza, anzi di purismo: aborrivo la trama considerandola un indizio di qualità scadente. Ma si trattava, appunto, di un rigurgito post-adolescenziale.
Mi stupisco sempre però quando questo assioma (trama uguale bassa qualità) viene riproposto con tanta acrimoniosa certezza. Beninteso, il fenomeno dei libri preconfezionati esiste eccome, ma confondere la parte con il tutto, mistificare e in definitiva fare di tutt’erba un fascio, ecco quello che davvero mi meraviglia. Come se, insomma, Flaubert o Melville o Dostevskij o Tolstoj o Conrad o Kafka o persino Proust o – a modo loro – Barth e Pynchon e DeLillo e Wallace facciano a meno della trama, ignorino o aborriscano la trama, non desiderino – anche – avvincere oltre che sperimentare e filosofare e scoprire; come se la trama non fosse in fondo l’organizzazione del mondo (unitamente al linguaggio, alle risonanze, all’estetica eccetera) di quell’autore, la sua maniera, quella volta e in quelle circostanze e in quel libro specifico, di dare un ordine al caos o di dare un caos all’ordine, come se infine la strada scelta per organizzare la propria materia poetica possa essere ininfluente o trascurabile – e a favore di cosa, poi?
E’ chiaro, occorre comprendersi su quel che s’intende per trama; per me la trama non è solo quella di Dieci piccoli indiani o di Io uccido, ma anche quella di Infinite Jest o Underworld e persino de L’arcobaleno della gravità. La trama è la tessitura, è la coerenza architettonica del mondo poetico dello scrittore: se si strappa, quel mondo cola via.
Io credo insomma che la trama sia dov’è sempre stata: in quella misteriosa terra di nessuno nella quale lo scrittore s’avventura e nella quale altresì, spesso nemmeno lui ben sapendo in che direzione e perchè, inizia a farsi largo fra la vegetazione, dentro la selva oscura.
[…] Il seguito di questo articolo: La letteratura sperata – Nazione Indiana […]
solitamente (non ne faccio una regola) chi legge romanzi moderni o postmoderni, e trame, non legge il tipo di letteratura che mi sembra Shields suggerisca.
l’inverso è invece (mi sembra) (solitamente) frequente, o possibile. ossia: chi legge prose senza tessitura, o testi che sembrano o sono frammentari, legge o può leggere anche i romanzi e le trame di cui sopra. (senza passione travolgente, magari). (fatto, quest’ultimo, che porta a cercare anche altro, appunto).
una dieta composita, varia, porta gioia & benessere. nel rispetto, ovviamente, di chi sceglie un orientamento differente, e non legge mai — né sente/apprezza — materiali lontani da trama, personaggi, romanzo, “identificazione”.
d’altro canto, un “manifesto” dovrà pur dichiarare una posizione (e — altrettanto logicamente — sollecitare contrasti). è normale.
“Quoto” Enrico.
Marco, hai dati per affermare quello che dici?
Ma “la «rappresentazione del reale» è una cosa ben diversa dall’inafferrabile realtà. Appartiene di diritto alla letteratura, perché implica una soggettività integrale che non nasconde il suo lavoro e nemmeno i suoi fallimenti in nome del prodotto finito”, significa qualcosa come i sovrabbondanti risultati concreti zoppi andrebbero amati per la loro ambizione teoretica elevata?
Non è che a pensarla così, in questo triangolo realtà-soggettività (dell’autore)-letteratura si snobba di nuovo il lettore?
Cari confratelli abbecedari,
la trama (organizzazione del caos), il mantrugiamento linguistico, non c’entrano niente.
La letteratura è prestidigitazione di mondi nuovi, introvabili, invisibili.
La scrittura taglia tempi e spazi verso scorci inascoltati, inavveduti, abissali … nello sgorgo della vita. E spesso gli autori cascano nel baratro.
Uno sperimento senza esaltazioni e cotillons. Chi ha visto e pronunciato il mondo – nella estremità e il riso – al contrario. Una quotidianità più fantasiosa del web, degli elzeviristi, dei poveri magazzinatori di librerie,
degli editori ballnzolanti tra businnes etico e retoriche di mercato, imbonitori di generi e addestratori di romanzieri …
Grazie a Shields e E. Trevi, per la boccata d’aria.
Ah, sì, .. dopo l’invenzione dell’Anima (Medioevo), la fabbricazione del Corpo (Modernità), chi sente il dolore della Terza Vita, il dolore della scrittura della Terza Vita?
@ Gianni: non dati ma istinto (o un certo numero – alto – di esperienze fatte). di qui l’opinione che ho espresso.
la lettura di Shields “è elettrizzante”, dice Trevi, Berardinelli sostiene invece che quel che dice lo dice male e in modo noioso, attenti alle sòle.
[@Marco, tendo a quotarti, anche la mia esperienza dei “tipi” di lettori va nella tua direzione]
“Alcuni anni fa ebbi una crisi di purezza, anzi di purismo: aborrivo la trama considerandola un indizio di qualità scadente. Ma si trattava, appunto, di un rigurgito post-adolescenziale.”
l’argomento è complesso, le questioni sono tante, sarebbero da vedere esattamente i termini del discorso di shields, metterli alla prova (per esempio l’idea di “trascendere l’infinito” mi suona debole per parecchi motivi) etc. etc. tuttavia, mi sembra che considerare automaticamente un problema estetico-letterario come una disfuzione legata all’età (solo perché, magari, al momento in cui lo si è posto non lo si è saputo affrontarlo altrimenti) non porti molto lontano.
la trama è un principio d’ordine e su questo non ci piove. è l’unico? è quello più adatto oggi? riesce sempre a dare al lettore il piacere (e il senso) che sta cercando?
avvertenza: prima di qualunque polemica ‘a gratis’, prego visitare la mia pagina anobii: http://www.anobii.com/bgmole/books
@bortolotti
Ma io non considero il problema della trama come una disfunzione legata all’età, perchè non lo considero proprio un problema. Tutta la questione è mal posta, anzi non esiste (a meno di voler ingenuamente considerare la trama solo così come la intendono Faletti o Grisham). E a dimostrarlo c’è la letteratura di tutti i tempi, compresi quelli odierni; non devo mica dirlo io.
@alcor
Ho letto l’articolo di Berardinelli, mentre non ho letto il libro di Shields; però il problema di Berardinelli, oramai da decenni, è l’ossessione di rivendicare una superiorità del saggio sul romanzo, e quasi ogni cosa che lui sostiene è inquinata da quest’ossessione, e questo fa torto alla sua notevole intelligenza e preparazione. Insomma se non mi fido di Shileds, non è per via di Berardinelli.
@ Macioci
Berardinelli ha le sue idee fisse, vero, e si può anche definire un conservatore, ma non rivendica piattamente la superiorità del saggio sul romanzo, non è mica uno scemacchione, se si annoia io prima di prendermi Shields gli darei una letta. Cosa che del resto intendo fare questa mattina.
ah, poi, trovo la trama di Dieci piccoli indiani perfetta nel suo genere, anche se oltre alla trama non c’è altro.
“Tutta la questione è mal posta, anzi non esiste”
è un’affermazione che non lascia molti margini ;-)
Ogni testo che mette in copertina la parola “Manifesto” implica l’esclusione del “resto del mondo” per mettere in luce la propria porzione di mondo. E’ un’ossessione monoteistica, oltranzista e fideistica. Ok, ci sta, figuriamoci, serve ogni tanto segnare dei confini per comprendere meglio la propria identità estetica, ma poi si superano, altrimenti si diventa dogmatici (e capaci di sterminare popoli – territori, narrazioni altre – nel nome dell’unico Dio). (inutile dire che varrebbe anche a chi mi propone il manifesto del realismo noiristico).
Anch’io, Gherardo, con Macicoci, credo che la questione in senso stretto non esista. Tu che sei lettore di narrazioni diversissime fra loro, dovresti sapere che il lettore puro non vive di pregiudizi così smaccati.
Io che sono rappresentato come un autore di trame (ma quando mai?) sono fondamentalmente un lettore accanito di testi, come dice Marco, “frammentari”.
Embè?
Chi ci dice che un lettore di trame non ami i frammenti, mentre, per dirla con Marco, è possibile il contrario? mi pare snobistico.
Io ho paura che siano sensazioni non suffragate dai dati, quindi fallaci. Pregiudizi. Un po’ come la perdita del congiuntivo, come dato di fatto. Poi studiosi attenti verificano le occorrenze e si accorgono che il congiuntivo non sta affatto male, e lo si usa.
A leggere la critica militante il romanzo è da centocinquantanni che sta per morire, come l’Occidente, che è da mo’ che deve tramontare. Ma poi, guarda un po’, non tramonta.
Ottimo e ben venga il libro di Shields, (io amante dei frammenti non potrò che apprezzarlo) ma com’è che io sono certo che di romanzi-romanzi, quelli fatto di trame, personaggi, narrazioni dal lungo respiro, etc. romanzi capolavori che (con le parole di Sterco) “taglia(no) tempi e spazi verso scorci inascoltati, inavveduti, abissali” ne leggeremo ancora?
Concordo con Biondillo, troppi funerali frettolosi.
@ alcor
Berardinelli è in gamba, ma prevenuto. Lui è bravo a distruggere, un po’ meno a costruire; e io diffido (ma è un mio problema) di chi ama soprattutto distruggere, forse perchè distruggere è molto più facile che costruire.
@bortolotti
E’ vero, sono stato tranciante, ma intendo dire questo. Se mi domandano: di che parla l’Ulisse? Di che parla L’arcobaleno della gravità? Di che parla Molloy? Di che parla Il pasticciaccio? Ecco, io rispondo e spiego, e utilizzo parole, e racconto. Racconto di cosa parlano queste narrazioni così anti-narrative. Se vado su ibs trovo la cosiddetta trama di ognuna di queste narrazioni, persino della Veglia di Finnegan trovo un recinto linguistico di definizione. Aggiungo: se mi si chiede di raccontare di cosa parlano, una per una, tutt’e 43 le Illuminazioni di Rimbaud io posso farlo, posso raccontare di che parla Dopo il diluvio, o Alba, o persino Infanzia e Notturno volgare e Saldo. Allora (magari sto provocando) mi viene da pensare che sinora l’unico atto davvero valido in quanto negazione della trama, in tutta la letteratura occidentale, sia stato il silenzio di Rimbaud, ciò che lui ha di fatto creato (o anti-creato) dopo le Illuminazioni, la sua estrema propaggine autoriale. Ma come ha ben sottolineato Susan Sontag questo silenzio è stato ed è significativo solo e proprio in quanto successivo alle opere di genio che Rimbaud ci ha lasciato, anzi ci ha (persino lui) raccontato. E’ in tal senso che secondo me la questione non si pone, perchè se la si pone si esce dalla letteratura – anzi dalla scrittura – e si entra nemmeno nella filosofia, ma nell’astrazione; il che va benissimo, ma non mi risulta di alcuna utilità nè come lettore, nè come scrittore.
@ Biondillo
credo che l’affermazione di Marco e la mia al seguito, riguardi il lettore medio di narrativa diciamo così d’intrattenimento, che difficilmente si sposta e che concorre a formare il maggiore bacino d’utenza degli editori medio grandi, in gran parte lettori generici che hanno poco interesse e anche poche informazioni per arrivare a prose diverse. Lo dico, per quanto mi riguarda, sulla base dei libri visti in case di gente che legge più o meno i libri in classifica, lì sono e lì restano, al piatto forte che gli offre l’industria editoriale.
marco dice “solitamente (non ne faccio una regola)” con questo avviso che fa, tendo a dargli ragione.
@Macioci
mah, berardinelli più che prevenuto è postvenuto.
Forse siamo noi italiani ad avere qualche problema con trame e romanzi. Forse perché, storicamente, non siamo una nazione che ha dato alla letteratura una tradizione di grandi romanzi, riconosciuta e universalmente diffusa.
Basti pensare che lo stesso Alessandro Manzoni, dopo aver ultimato il romanzo, si costrinse all’autocensura perpetua con quel meraviglioso capolavoro saggistico “Del romanzo storico…”: caso unico, credo, di schizofrenia creativa, dove l’inventore di un genere diventa poi il censore del medesimo.
Ecco, credo che in Italia, ancora oggi, funzioni più o meno così. Dal momento che da noi il romanzo rappresenta un genere “estraneo”, non stupisce che gli scrittori tornino, ciclicamente, a ripudiarne l’essenza e l’utilizzo. Non c’è niente di male, beninteso.
Noi infatti possiamo rivendicare una tradizione di prosa artistica di pari livello ed eccezionalità.
La recensione di Trevi e la proposta che ad essa si collega è un ulteriore esempio del desiderio di fuga dalla fiction, dal romance come prigione della letteratura. Certo, si può fare. Ma non sono sicuro che le cose stiano proprio così.
@enrico: sarebbe interessante sentire il riassunto anche di una poesia di celan, allora, o di “numeri” di sollers, per dire.
@gianni: lasciando da parte l’ironia, che mi spingerebbe a dire che se la questione non esiste la stiamo creando noi adesso, chiarisco che il punto che volevo sottolineare era il fatto che evidentemente ordini, anche narrativi, diversi dalla trama romanzesca esistono e soddisfano (tu ne sei testimone) e che non si può ridurre il problema ad una pulsione di purezza più o meno legata all’età.
su shields non mi spendo, nel senso che il manifesto non l’ho letto e alcune delle cose che riporta trevi (per esempio quel «trascendere l’artificio» – che nel commento di prima ho fatto diventare «trascendere l’infinito», col suo bel lapsus) mi insospettiscono.
@bortolotti
Qui si parla di narrativa, non di poesia; e Celan è un poeta. Mi sembra un distinguo fondamentale. Il Rimbaud delle Illuminazioni o della Saison è (anche) un narratore. E se uno è narratore non potrà (persino se è Rimbaud) sfuggire alla trama se non tacendo.
Poi vedo che insisti sulla mia prima uscita riguardo l’età adolescenziale eccetera; forse è stata un’uscita infelice o troppo icastica, allora lasciala stare e fai conto che non l’abbia detto. Ti dico adesso però, anzi ti ripeto, che porre la questione della trama vuole dire porsi in qualche modo al di fuori del linguaggio narrativo (e forse del linguaggio tout court); il linguaggio in quanto costruzione di senso è già trama – ove, ribadisco per l’ennesima volta, non s’intende per trama l’intreccio del giallo o del noir o la sorpresa finale oppure l’ammicco browniano, bensì un’edificazione estetica e cognitiva che prima non c’era e che soltanto grazie all’autore, alla sua autorità e capacità di accrescere il mondo (augeo) ora c’è.
grazie ad Alcor per le precisazioni, puntuali.
avrei infatti risposto così.
e: “una dieta composita, varia” (che suggerivo) mi pare sia l’opposto di un’esortazione snob. sono – fra l’altro – molto (e per niente ironicamente) felice quando gli amanti di trame e romanzi amano in parallelo difformi/diverse scritture.
credo sia essenziale. e costituisca la base per dialoghi proficui tra autori e lettori diversissimi per gusti ed esperienze.
resto però (statisticamente: ma per statistica applicata solo alla mia esperienza di 10 anni di lavoro in libreria; dunque non generalizzabile) persuaso del fatto che è più frequente trovare lettori onnivori di scritture di ricerca che leggono anche romanzi e trame-trame, piuttosto che lettori di romanzi che si avvicinano anche a prose esplose, installazioni verbali, opere iperframmentarie.
(en passant: dubito sia facile o in nulla forzato ‘sintetizzare’ certe cose di Rimbaud; by the way, sarà temo impossibile farlo con certe altre di Rodrigo Toscano o Alan Sondheim).
poi. buona cosa che Shields lo pubblichi Fazi. ma vorrei aggiungere serenamente e fuor di fallacia che (per dire) a parte questa cosa di Alferi, mi pare abbastanza raro trovare proposte saggistiche simili in libreria oggi. in Italia. sottolineo: in Italia. (senza contare che – essendo Alferi uscito 10 anni e passa or sono, e non per un editore a superpotente diffusione – anche quel titolo di Lanfranchi non sarà facile reperirlo in scaffale oggi). (con ciò verificando quanto Alcor afferma, sulla tutt’ora pronunciata scarsità di informazioni a disposizione del lettore che anche volesse curiosare e “arrivare a prose diverse”).
detto ciò, metto anch’io il cartellino “epoché” e mi defilo, dovendo ancora sogguardare e sfogliare Shields. cosa che immagino presto o tardi farò (ma sicuramente assai più tardi della scomparsa del thread dalla home).
@ Enrico:
mi sembra allora spiegato forse un primo equivoco. è forse possibile dialogare meglio: io penso che sia Shields che Bortolotti (e altri, nel parlare usuale) si riferiscano a “trama” secondo un altro significato, strettamente legato al ‘plot’ narrativo. in questo senso, sono allora infinite le opere dotate di senso (o di un ambiguo commercio tra senso e non senso) ma non dotate di trama.
corrige:
chiarito questo, credo siano allora infinite le opere dotate di senso (o di un ambiguo commercio tra senso e non senso) ma non dotate di trama.
“resto però (statisticamente: ma per statistica applicata solo alla mia esperienza di 10 anni di lavoro in libreria; dunque non generalizzabile) persuaso del fatto che è più frequente trovare lettori onnivori di scritture di ricerca che leggono anche romanzi e trame-trame, piuttosto che lettori di romanzi che si avvicinano anche a prose esplose, installazioni verbali, opere iperframmentarie.”
Anch’io la penso come Giovenale. E sulla trama sì, intendo ciò che Giovenale ha inteso nei suoi ultimi commenti.
Su Rimbaud: niente in lui è facile, anzi molto del miglior Rimbaud è en avant, al-di-là, è fuori dai comuni codici ermeneutici (almeno a me così pare, a 150 anni di distanza); la mia era una provocazione; proprio per via della sua celerité, sintetizzarlo è una (mezza) bestemmia.
Ecco, l’ho preso, l’ ho anche letto (fino a un certo punto, ché mi sono ben presto stufata) e condivido tutto quello che dice Berardinelli qui:
http://www.fazieditore.it/pdf/Shields%20-%20Corriere%20della%20Sera.pdf
Secondo me non aiuta la frettolosa traduzione di Rossari. Il frammento tratto da Virginia Woolf su cui si sofferma Belardinelli («Mi ritrovo a dire, succintamente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che chiunque altro»), può essere confrontanto con altre traduzioni della Woolf:
«Mi ritrovo a dire, brevemente e prosaicamente, che essere se stessi è molto più importante di ogni altra cosa.» Graziella Mistrulli, 1995.
«Mi sento invece di dire, brevemente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che non tutto il resto.» Maura Del Serra, 1993.
Per completezza, l’originale recita «I find myself saying briefly and prosaically that it is much more important to be oneself than anything else.» La questione cioè non è se sia meglio essere se stessi o qualcun altro, come lascia ad intendere la traduzione di Rossari.
Anche nel frammento riportato da Trevi «Non credo di essere l’unico che trova sempre più difficile leggere o scrivere romanzi», manca un “volere” a mio avviso importante: «I doubt very much that I’m the only person who’s finding it more and more difficult to want to read or write novels.»
Cara Oziosa, non direi che in questo caso il problema sia di traduzione più o meno riuscita, questo può valere per un altro libro consigliato qui su NI di recente, che ho lasciato sul bancone proprio perché l’infilata di opacità linguistiche che ho beccato al volo mi ha respinta, nel caso di Shields vale a mio avviso, molto banalmente, quel che dice BeRardinelli al’inizio dell’articolo, bastavano duecento righe per proporre la sua tesi, il libro in sé mi è sembrato una di quelle trovate all’americana, il lancio pubblicitario di una idea di fronte alla quale che chiunque conosca la rete da un lato, e la cultura europea dall’altro non può reagire che come davanti un déja vu. Tra l’altro, chi è abituato a tenere diari ha assemblato libri del genere a proprio uso e consumo già da un pezzo. Molti di quei frammenti sono tratti da opere che abbiamo letto e ricordiamo, li ha assemblati, embè? E’ il libro in sé, il risultato, a essere poco interessante, l’idea è anche carina, certo non sconvolgente. Tra l’altro io sono una lettrice di romanzi riluttante, perciò su molti punti gli do persino ragione:D
Sono d’accordo. Il mio voleva essere soltanto un commento a margine.
Rassegnazione stampa…
(autore e manifesto sul quale un giorno ci soffermeremo) (anche solo per farci due risate)…