Il precario con la febbre
[Questo articolo compare nello speciale de il manifesto in edicola oggi dedicato alla scuola, Sbancati. Compratelo. Primo, per sostenere il manifesto. Secondo, perché è proprio un bello speciale.]
di Marco Rovelli
Dalle mie parti quando un oggetto è in bilico e rischia di cadere si dice che ha la febbre. Quando si ha la febbre si è in condizione di debolezza, e tendenzialmente assai più dipendenti dagli altri. Un precario è un oggetto con la febbre: subisce una reificazione anno dopo anno, che sconta sulla pelle, e il sistema che lo spreme e lo getta via all’occorrenza usa anche il rischio a cui è costantemente esposto, che lo mette in condizione di dipendere da qualcuno, senza potersi aiutare da sé, e senza poter fare rete con qualcuno nella sua condizione.
Io sono precario nelle scuole superiori da dieci anni, senza mai vedere la luce della fantasmatica immissione in ruolo.
Dopo un dottorato di ricerca all’università, avevo valutato che non ero in grado di reggere le trafile che vedevo fare a una serie di persone che mi avevano preceduto, tra attese di postdottorati, borse varie, rapporti da tessere, persone da ingraziarsi. Mi pareva invece che, volendo “lavorare con il sapere”, avrei potuto insegnare storia e filosofia nei licei, sarebbe stata più pulita. Erano i tempi delle orrende Ssis, scuole di specializzazione per l’insegnamento che però a nulla specializzavano. Era solo una gran bella tangente pagata allo Stato per avere l’abilitazione, con un consistente punteggio in graduatoria. Le réclame informali dell’epoca ci garantivano che nel giro di pochi anni saremmo entrati in ruolo. Il sistema aveva bisogno di polli da spennare, da una parte, e di creare un bell’esercito di riserva che si adattasse ad ogni richiesta, col vantaggio di costare meno allo Stato: ché questo è uno dei punti fondamentali, i precari non si pagano d’estate. E quell’esercito di riserva si mostrava pronto pure a esercitarsi in meschine guerre tra poveri. Si dovette infatti assistere a ricorsi e controricorsi, abilitati da concorso ordinario contro abilitati “sissini” e viceversa, insomma uno spettacolo inverecondo, ché ognuno aveva le sue ragioni, ma incomponibili: e la contraddizione era funzionale alle esigenze del sistema. Da allora, avendo la percezione di essere parte di un gioco in cui tutti i giocatori sono destinati a perdere comunque, isolato e privo di relazioni reali con altre persone che condividessero la mia condizione, mi sono interessato solo il minimo indispensabile alle questioni attinenti al mio ruolo di insegnante: un’evidente forma di alienazione, la mia, da manuale marxiano (il rapporto “con la propria attività come attività che non gli appartiene”).
Ora so che il tempo medio d’attesa per l’immissione in ruolo è di dieci anni: dovrei avere la cattedra, dunque, essendo al decimo anno di insegnamento, il sesto con supplenza annuale. Invece quest’anno è stato l’anno peggiore, ho rischiato di rimanere a terra, c’erano solo due posti nella mia provincia, contro i cinque dell’anno passato, e io sono il secondo nella mia fascia. Così ho preso nove ore in una scuola dell’entroterra apuano, a cinquanta minuti di casa (così che ai nemmeno settecento euro al mese del salario devo togliere i centocinquanta euro di viaggi). E di nuovo cambio scuola, di nuovo cambiano le cose… alla faccia della continuità didattica. Il mestiere di insegnante non è solo trasmissione di nozioni, ma anche prendersi cura di un “ambiente”, e delle persone che ci stanno: in te insegnante i ragazzi non vedono solo una “cinghia di trasmissione del sapere”, ti attribuiscono anche altri significati, ed è di questa molteplicità che occorre prendersi cura. Non è cosa che si fa in un giorno. Questo aspetto di “progetto” per un precario viene meno – e viene meno, specularmente, per tutti gli allievi che hanno un precario come insegnante. Il precario vive sempre in un costante spaesamento, sempre non appartenente al contesto, come un intruso, uno che è di passaggio e che tutti sanno che è un morituro. Ogni anno arrivi in una scuola nuova e ti devi accreditare, sei l’ultimo arrivato e non sei nessuno, ti guardano con sospetto perché potresti essere un elemento di disturbo, sei l’ultimo arrivato e chiedi garanzie e spazi. In questione allora c’è la tua identità, nientedimeno, e un senso perenne di frustrazione per questo ripartire sempre dal via. Esempio sintomatico, in quanto regola non scritta, l’assegnazione del giorno libero, dove il sabato è il giorno dei “nonni”: se sei precario il sabato libero, tendenzialmente, te lo scordi. Una regola da caserma, un nonnismo for dummies. Ma è così: siamo in una scuola che funziona grazie ai precari (un insegnante su cinque è precario; uno su sei considerando i supplenti temporanei), ma che i precari non vuole né può riconoscere nella loro dignità. Fino all’elemento di discriminazione tra insegnanti di ruolo e precari che è materialmente e simbolicamente centrale (cosa messa in questione, peraltro, persino dalla Corte di Giustizia europea), ovvero il fatto che ai precari non spettano scatti di anzianità nel salario. Si insegna, si diventa vecchi, si spendono anni tra le mura scolastiche alla stessa maniera – ma con un salario minore (eccettuati gli insegnanti di religione, s’intende, in Vaticalia questo va da sé). Il sistema lo sa bene che questa assenza di progettualità è nociva, tanto è vero, per fare un esempio, che non consente al precario di essere eletto in una Rsu: ma appunto il precario vive in una discriminazione di fatto che è la sua normalità. Una normalità talmente normale che ad essa il precario diventa assuefatto. Assuefatto, prima di tutto, all’impossibilità di fare “politica”: se è vero quel che diceva don Milani, “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”, il precario è colui che è talmente sradicato da sé che non può nemmeno pensare di essere per natura “animale politico”. E pensare che un suo compito eminente dovrebbe essere quello di educare i ragazzi alla “cittadinanza”.
Bellissimo intervento, questo di Marco Rovelli, se si può dire bello di qualcosa che ti lascia con un senso di sconfitta.
Ricordo anch’io tutta la retorica del tempo sulle SISS, per giustificare questa tangente di stato. Era il primo passo verso quell’accumulo di esperienze e dispersione di capitale (in termini di tempo, di salute e di soldi) che avrebbe poi condotto verso gli odierni scenari.
Sottoscrivo, da supplente precario, parola per parola. Non stanno distruggendo solamente la scuola, ma le persone; stanno togliendo loro le benché minime certezze, stanno sottraendo il minimo sindacale di sopravvivenza psicologica e spirituale.
[…] su nazione indiana da → precariato, rassegna stampa ← Le competenze del collegio dei docenti. […]
E’ precario da soli 10 anni e già si lamenta così?!
Io sono precario da ben 14 anni, sono 14 anni che prendo un incarico annuale dopo aver passato un concorso, e l’anno scorso nella mia graduatoria in provincia di milano ne hanno presi in ruolo l’esorbitante cifra di ZERO PERSONE.
Questo per quanto riguarda l’aspetto personale…
Per non parlare del fatto che non solo il mondo esterno (“il mondo deve sapere”) ma perfino gli stessi insegnanti/colleghi non sanno nulla della condizione dei precari e comunque se ne disinteressano bellamente; le famiglie nulla sanno, e spesso gli stessi colleghi precari subiscono con rassegnazione, che so, l’impossibilità di fare fotocopie per gli studenti o i ritardi di mesi con gli stipendi. Tutto questo per dire che oltre all’alienazione dal proprio ruolo (e quella la si riconosce, si impara addirittura a conviverci) c’è una solitudine vera, insopportabile.
E’ esattamente la fotografia che immortala l’immagine di tutti noi precari, soprattutto quelli della scuola… le nostre sono battaglie contro i mulini a vento e chissà quando potremo “guarire” da questa febbre…!
Non esiste un sindacato dei precari, che possa coordinare gli scioperi: scioperi collettivi dei precari e solo dei precari ??. Se non ci fosse, io proporrei di istituirlo, come per ogni battaglia è necessaria un’ associazione organizzata, e poi fate più scioperi e casino, non si sente nulla in giro a parte queste lamentele una tantum. Io coinvolgerei anche le associazioni dei genitori, che dovrebbero spuntare come funghi in ogni istituto scolastico. Bisogna smettere di lavorare, bisogna incrociare le mani e protestare cercando di coinvolgere anche i genitori e i ragazzi, invece si tende a compensare e prendersi responsabilità che non vi competono. Bisona smettere di mettere pezze ovunque, se l’istituzione scuola deve crollare, che crolli. Pompei sembra indicarvelo.
Bisognerebbe, Ares. Ma il sindacato non c’è su queste cose. E i precari sono stretti in un maglio dal loro isolamento, e dal fatto che la struttura si fonda proprio sul mors tua vita mea. I sindacati confederali, poi, hanno da salvaguardare quelli di ruolo, prima di tutto…
Se il sindacato non c’è si crea,
Chiamiamola Aassociazione Nazionale Precari A.N.P.
Insieme, si sciopera, insieme, ci si lamenta, insieme si fanno proposte e si danno alternative.
L’articolo 3 della costituzione, in assenza di un presidente della repubbica credibile, e in assenza di una corte costituzionale capace, va comunque fatto rispettare.
sono d’accordo con Ares, se non c’è, si crea, e prima si va in massa a strattonare i sindacati che ci sono, se c’è una critica che faccio a questa generazione è proprio questa, di non riuscire a inventarsi qualcosa per superare l’isolamento, possibile?
Due question. La prima, come dice Bologna che sulla questione del precariato e del lavoro autonomo ci ha riflettuto a lungo, è che un sindacato si fa sulla base dei settori produttivi e non della natura dei rapporti di lavoro. Non a caso la Cgil ha fatto nascere lo Spi, che è piuttosto inereùte, e non necessariamente per sua colpa, ma per una situazione oggettiva.
La seconda, che appunto il contesto sovradetermina le volontà. E laddove mancano gli ambienti fisici (i luoghi di lavoro comuni, la comunanza e la prossimità, le piazze, i circoli…) e a questa separazione fisica si aggiunge la distanza prodotta dal più classico divide et impera, beh la buona volontà non basta. Sarebbe come fare una colpa agli immigrati che non riescono a produrre un conflitto efficace nonostante siano milioni. Certo che questa generazione è inerte. Ma è un dato oggettivo, anzitutto. E si sa che l’essere che crea la coscienza e non il contrario.
hai ragione, alla mancanza dei luoghi fisici ho pensato anch’io subito dopo aver commentato, oltre a quello che dice Bologna, ma non mi basta per non pensare che l’inerzia sia troppa, che la rete (ed è questo che mi irrita a volte) finisca per essere uno sfogatoio retorico
Che la rete si riduca spesso a uno sfogatoio, è purtroppo vero.
(Rileggendo sopra, interessante lapsus: invece di scrivere Nidil ho scritto Spi, il sindacato dei pensionati, altra anomalia sindacale italiana. Evidentemente parlando di impossibilità il mio Es è andato all’impossibile pensione…)
Intanto Tremonti tra un taglio e l’altro trova i soldi per le scuole private.
http://www.atomodelmale.it/2010/11/06/tagli-alla-scuola-non-per-le-scuole-private-cattoliche-per-loro-tremonti-trova-200-milioni/
I luoghi fisici non sono indispensabili, basta un numero verde per il contatto telefonico e per ricevere tutte le indicazioni necessarie, e la rete, per creare un’associazione autonoma dei precari, i luoghi fisici possono essere creati successivamente.
Nessuno vieta di creare dei legami tra precari, che insieme si coordinano e scioperano nello stesso giorno e nelle stesse ore.
[…] (originariamente pubblicato su Nazione Indiana) […]