Felicità
di Graziano Dell’Anna
Da quando l’anno prima si era trapiantato dal suo paesino del sud a Padova, non gli sembrava di ricordare un mattino così. Il sole batteva alla finestra proiettando un rettangolo sbilenco sul pavimento della stanza; un cinguettio indistinto – una taccola? una ghiandaia? – veniva dall’esterno. Forse era per questo che Tobi, lo spaniel color terra che aveva preso con sé per le battute di caccia (la sua più grande passione dopo formule e provette), era particolarmente su di giri. O che in qualche modo le narici del suo amico avvertissero l’odore del sole, l’imminenza della bella giornata?
Paolo fece una doccia, si preparò un caffè e mando giù tre biscotti al malto; poi andò in bagno a lavarsi i denti. Fece attenzione a strofinare a fondo quelli di sotto, dove da qualche mese il bisogno di rimettere in riga tre incisivi affollati lo costringeva a tenere ventidue ore al giorno un apparecchio Invisalign. Il suo riflesso nello specchio gli sorrise. Quindi tornò in camera e indossò un completo di cotone blu-royal: una sciccheria e uno spreco, considerando che tra pochi minuti sarebbe quasi del tutto scomparso sotto il camice bianco d’ordinanza del Centro di Crioconservazione dei Gameti Maschili.
Ma era un tipo meticoloso, lui. Di una precisione ossessiva. D’altronde era il suo lavoro a imporglielo. E non era per questo che il direttore del Centro, dottor Boschi, che con piglio da eterno studente Paolo si ostinava a chiamare «il Professore» come ai tempi dell’università, gli aveva chiesto di entrare nella sua équipe di lavoro? Ricordava come fosse ieri il giorno in cui il docente l’aveva preso in disparte in un corridoio della facoltà di medicina per fargli la sua proposta. «Il Centro» aveva detto col tono neutro e monocorde di un bottegaio che mette in mostra la sua merce, «è un laboratorio all’avanguardia in tutta Europa. Naturalmente la maggior parte dei nostri pazienti è di origine italiana, ma vengono qui da noi fin dalla Germania, dalla Francia, dalla Spagna, dagli Stati dell’Est e, inutile che te lo dica, si tratta per lo più di coppie affrante, infelici o sull’orlo dell’annientamento, che hanno votato il resto della loro vita a un unico obiettivo: avere un figlio. Ora, il nostro lavoro consiste nel darglielo, questo figlio, o quantomeno nel tenere accesa nelle loro vite la fiammella della speranza; ma dal punto di vista strettamente medico la cosa è molto più prosaica. Provette. Noi facciamo provette. Le riempiamo, le analizziamo, le cataloghiamo, le conserviamo, le impiantiamo. Nessuna possibilità di errore è ammessa. Perché… dì un po’, hai idea di quanto possa arrivare a costare una causa civile con risarcimento per una coppia con problemi di fertilità che dopo anni di disperazione, viaggi, esami, operazioni e una spesa di migliaia di euro, per un futile scambio di materiali dovuto alla distrazione di un attimo si ritrova col figlio… di un altro? Un lavoro del genere» aveva concluso la transazione, «richiede una mente scrupolosa, senza cedimenti, esatta. Per questo la mia scelta è caduta su di te.» Paolo si era sentito sollevare mezzo metro da terra. Un lavoro, e che lavoro! E per di più in un momento come quello, con tutti i suoi amici e ex compagni di università che si dibattevano tra l’eterna promessa di un assegno di ricerca e le cuffiette microfonate dei call-center! Stentava a crederci. La felicità gli sembrava qualcosa di solido, corporeo – una biglia, un’arancia, un fiocco da regalo. È lì, pensò Paolo, puoi toccarla. Basta che allunghi il braccio.
Guardò l’orologio: venti minuti alle otto, in perfetto orario. L’attacco di un’aria di Čajkovskij si diffuse dalla tasca destra dei pantaloni. Tirò fuori il cellulare; sullo schermo lampeggiava il logo della busta da lettere. Già sveglio? Pronto per la partenza? Buona giornata, amore. Digitò in fretta la risposta e salutò Tobi con un’energica, ruvida carezza sulla nuca; un minuto dopo le suole delle sue scarpe si affannavano sui pedali della bici in direzione del Centro.
L’azzurro lindo, disteso del cielo era impensierito appena da qualche nube in transito; macchie di sole sulla rètina. Sotto il ponte di Riviera Paleocapa, tra i ciuffi d’erba alta, le acque del Bacchiglione si accendevano di cupi bagliori. Pedalò per via Canaletto e oltre fino a sbucare all’ombra di Porta Pontecorvo; sulla scalinata d’ingresso del Centro, in anticipo sull’orario di apertura, un gruppetto di pazienti.
Fu una mattina intensa. Intensa e gratificante. Per la prima volta il Professore gli concesse di praticare una biopsia testicolare. Un caso di oligozoospermia come ne vedeva ogni giorno; ma fino ad allora si era limitato ad assistere con gli altri colleghi il direttore del Centro o il suo assistente più vecchio, mentre stavolta fu proprio lui a eseguire l’operazione. La sua maniacale puntigliosità, il rischio di sbagliare e deludere il Professore sulle prime gli annodarono i muscoli e i tendini, ma la tensione si sciolse magicamente nell’istante esatto in cui incise lo scroto col bisturi; tra le sue mani inguantate il taglio della lunghezza di una palpebra si schiuse in una riga di sangue e si allargò deponendo un uovo lattiginoso sul quale praticò un’altra incisione e da cui estrasse con una pinzetta un ciuffo di polpa; lo adagiò su una lastrina di vetro e da lì aspirò uno a uno gli spermatozoi, un mazzetto di larve danzanti. Tutto questo, chissà perché, gli mise addosso una specie di febbre. Senti la vita, la sua nuda sorgente agitarsi sulla punta dei tuoi polpastrelli.
Alle 13.01 esatte andò in pausa come tutti i giorni. Tramezzino speck e brie e mela biologica. Nella sala d’attesa il televisore a parete trasmetteva il tiggì del secondo canale. Il Premier annunciava che la situazione economica era raggiante e la tenuta del governo fuori discussione; Paolo osservò che il discorso trionfale e il sorriso da réclame di dentifricio del Presidente contrastavano con l’accenno di blefarospasmo che gli sbatacchiava la palpebra destra e un bozzo più che sospetto sulla fronte (pseudoaneurisma?) grosso come una moneta da due euro. Risuonarono un’altra volta le note di Čajkovskij. Tutto pronto, amore? Si parte? La tua Adri non sta più nella pelle. Baci.
Adriana era una studentessa di Bergamo al terzo anno di medicina. A catapultarla nella vita di Paolo era stata una conferenza sugli effetti nocivi della sauna sulla fertilità maschile tenuta qualche mese prima ad Abano. A quel tempo Paolo aveva chiuso da poco con Monica, un rapporto di amicizia dei tempi del liceo che era degenerato in un rapporto d’amore che, sotto un’incredibile mole di incomprensioni e accuse reciproche, era degenerato in un rapporto finito. Si erano lasciati a ridosso dell’ultimo Natale con lui che sbatteva la porta di casa sua e Monica che sbraitava alle sue spalle che tanto prima o poi sarebbe tornato da lei, che non ce l’avrebbe fatta a dimenticarla, che… Ma a quanto pare è andata diversamente. Così il giorno della conferenza quella specie di sesto senso che ha il destino aveva depositato Adriana sul posto accanto al suo. Sulle prime Paolo non l’aveva neanche notata, immerso com’era nell’ascolto del discorso di apertura del Professore. Poi una battuta scambiata con la studentessa al suo fianco, e una risatina chioccia e trillante come la caduta di un cucchiaino, avevano stuzzicato la sua attenzione. Da lì in poi sempre più spesso aveva spiato con la coda dell’occhio il profilo della ragazza accanto a lui: i lunghi capelli castani che arrivavano a carezzarle le spalle, la bocca piccola ma carnosa come l’infiorescenza di una pianta tropicale, la curva gentile del naso. Finché aveva cercato di rompere il ghiaccio chiedendole come trovava la conferenza. «Una barba!» era stata la risposta. «Voglio dire, tutti questi salamelecchi, queste smancerie, per non parlare delle arie da gran luminari che si danno i relatori. Come se in fin dei conti non fossero qui a parlare di… cazzi!» Di nuovo lo scampanellio di quella risata infantile. «Voglio dire, sono tutti un po’ troppo lei-non-sa-chi-sono-io, non trova?» Ma l’altoparlante scandì il nome di Paolo in sala: era il suo turno. Alzandosi, lui aveva rivolto un sorriso alle guance in fiamme della sconosciuta.
La sera stessa scoparono a casa sua. Selvaggiamente, con furia animale: morsi, schiaffi, unghie piantate nella carne; come se lo facessero dopo essersi desiderati per anni. Seguirono altri incontri e altre notti infuocate. Poi, di settimana in settimana, Adriana finì col lasciare il letto di Paolo ogni mattina più tardi. Gli dava la sveglia per il lavoro. Dava da mangiare a Tobi. Lo aiutava a pulire il fucile da caccia. A volte, anche dopo che lui era uscito, rimaneva lì per un pezzo a studiare per il prossimo esame; al terzo mese gli spazzolini da denti nel bagno di Paolo erano diventati due. Così un giorno – una domenica mattina di fine marzo, erano entrambi in camera mezzi svestiti e intontiti dal poco sonno – Paolo aveva chiesto ad Adriana di spegnere per favore il caffè di là in cucina, di abbassare il volume della tele e di diventare sua moglie. Lei aveva avuto un attimo di smarrimento, poi aveva risposto sì. Due giorni dopo, di comune accordo, avevano deciso di fare un salto al paese di Paolo, dove la futura moglie avrebbe conosciuto i suoi.
Tranquilla, tutto pronto. Pantaloni, magliette, ricambio di biancheria. La valigia è chiusa da ieri sera. Resta solo da preparare la borsa termica per il viaggio.
Non vedo l’ora! Che felicità! Non è vero che siamo felici?
Sì.
Il pomeriggio passò senza grandi sussulti; i soliti prelievi del seme e analisi di routine. Unico evento di qualche rilevanza un tizio che non riusciva a farsi bastare la propria immaginazione e il campionario di riviste osé che il Centro metteva a disposizione dei pazienti. Paolo decise di fare uno strappo alla regola e concesse alla moglie di entrare nel camerino del marito per «dargli una mano a concentrarsi». Quando lo raccontò ai colleghi – non al Professore, naturalmente – ne risero insieme. Alle 15.05 si sfilò il camice e lo appese all’attaccapanni della sala analisi.
Stranamente, nonostante le otto ore di lavoro, Paolo sentiva nelle gambe un’insolita energia. Pedalava per Prato della Valle – le statue sonnacchiose nel tepore dell’aria – quando una BMW gli tagliò la strada. Inchiodò con entrambi i freni, e il blocco istantaneo della ruota davanti fu lì lì per ribaltare la bici e farlo volare a testa in giù sull’asfalto. Razza d’imbecille! Gli ci volle più di qualche secondo per riprendersi dallo choc e imprecare contro la nube di gas di scarico dell’auto ormai scomparsa in fondo a Corso Vittorio.
Quando aprì la porta di casa, Tobi gli saltò addosso uggiolando. Paolo posò la valigetta di lavoro in soggiorno, poi andò in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Quindi si diresse nella stanza da letto con Tobi che insisteva nel suo assedio – che cos’hai, bello? che c’è? perché non mi molli un po’? – ma s’irrigidì con la mano sulla maniglia della porta. Tornò in fretta sui suoi passi, in cucina. Prese dal tavolo le due mattonelle di ghiaccio chimico per la borsa termica e le infilò nel congelatore. Poi riattraversò il corridoio ed entrò in camera, caricò il fucile – un Beretta sovrapposto calibro .12 – e, inginocchiatosi nell’angolo tra lo scrittoio e la libreria, appoggiò la canna alla gola.
Non è vero che siamo felici?
(dipinto della serie “Looking at the Woldgate Woods” di David Hockney)
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[…] Esiste la felicità? E se sì, in cosa consiste? Provo a dare una risposta -che non è una risposta- in un racconto -che non è un racconto- pubblicato qui. […]
Quello che mi ha colpito è il racconto luccicante come un ghiacciao, nitido.
E’ lo specchio della vita del personaggio trovando un lavoro in un crioconservazione dei gameti maschi. Un luogo dove nasce la speranza nonostante la freddezza. Invece fuori c’è il sole mela di una bella giornata, la vita, il cane. Invece siamo propio infelici. La fine è terribile. Invece siamo infelici allontanati della terra natale.