Togliere gli errata dalla storia (2)
[Seconda parte di un fondamentale contributo sulla coppia di cineasti Gianikian e Ricci Lucchi. Per chi non lo conoscesse, consiglio la visione di Dal Polo all’Equatore. DP]
di Rinaldo Censi
Dettagli
Ecco qui esposto un dispositivo e insieme un piano d’azione.
Il lavoro dei Gianikian sembra qui incrociare le indicazioni teoriche contenute in un libro la cui importanza è ormai notoria. Mi riferisco a Le Détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture scritto da Daniel Arasse nel 1992. Faccio mie dunque alcune osservazioni sul concetto di doppia dislocazione del dettaglio, inteso come “particolare” e come “dettaglio”.
Per Arasse esiste una doppia natura del dettaglio:
– Particolare, «piccola parte» di un insieme, il dettaglio rispunta perché è necessario alla pittura mimetica che «mette davanti agli occhi», e specifica quindi, inevitabilmente, l’«aspetto» di questa pittura.
– Dettaglio, in quanto tale, presuppone un soggetto che «de-tagli» un oggetto (il quadro all’occorrenza), un soggetto che può corrispondere sia a colui che dipinge, sia a colui che guarda. La configurazione del dettaglio dipende dal punto di vista del «dettagliante» e, nel conseguente rapporto intimo con l’opera, il taglio del dettaglio sfugge a qualsiasi controllo, a qualsiasi norma. (…) Il dettaglio-dettaglio è, nel quadro, indizio di un programma di azione, della mano, dello sguardo, che si posano sulla superficie dipinta, e la percorrono.[1]
I Gianikian hanno spesso sottolineato proprio questi due aspetti: l’uso di un obiettivo simile a quello di un microscopio accompagna l’idea di un’azione della mano, per de-tagliare un’inquadratura e insieme per percorrerla con lo sguardo. Con un seguente paradosso: il dettaglio-dettaglio provoca una sorta di dislocazione.
Se il dettaglio-dettaglio segnalato da Arasse modifica il dispositivo spaziale che gestisce il rapporto tra il quadro e chi guarda, il dettaglio-dettaglio isolato dai Gianikian produce una variante, modifica a volte con violenza il significato di un’inquadratura, mette il pensiero in movimento.
Se parlo di violenza del taglio (de-taglio) è perché questo lavoro, questo programma di azione, mi sembra in sintonia con alcune ipotesi “archeologiche” e “genealogiche” formulate da Michel Foucault. In alcune pagine di riflessione su Nietzsche, Foucault, criticando il punto di vista soprastorico (supra-historique) sui fatti narrati (cfr. Nietzsche, la généalogie, l’histoire), fa suo il termine nietzschiano di wirkliche Historie – storia “effettiva” –, opponendolo al discorso degli storici. Si tratta di una messa in movimento, una rottura.
«La storia “effettiva” si distingue da quella degli storici per il fatto che non si fonda su nessuna costante: nulla nell’uomo – nemmeno il suo corpo – è abbastanza saldo per comprendere gli altri uomini e riconoscersi in essi. Tutto ciò a cui ci si appoggia per rivolgersi verso la storia e coglierla nella sua totalità, tutto ciò che permette di descriverla come un paziente movimento continuo, – è tutto questo che si tratta di spezzare sistematicamente. Bisogna fare a pezzi ciò che permetteva il gioco consolante dei riconoscimenti. Sapere, anche nell’ordine storico, non significa “ritrovare”, e ancor meno ritrovarci. La storia sarà “effettiva” nella misura in cui introdurrà il discontinuo nel nostro stesso essere. (…) Scaverà ciò su cui si ama farla riposare, e si accanirà contro la sua pretesa continuità. Il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione.»[2]
Non si tratta di comprendere ma di prendere posizione (de-tagliare). Tagliare il luogo comune, per esempio, per disseminare enigmi, per mettere in movimento le immagini. Da questa operazione nascono i film dei Gianikian.
Operazione violenta di due extraterrestri che studiano la nostra storia e vi scavano dentro con una nuova idea di archeologia. Alla violenza della storia, alla violenza dell’archivio, bisogna rispondere con violenza: i Gianikian – come gli Straub – potrebbero rispondere che Es hilft nur Gewalt, wo Gewal herrscht (solo violenza aiuta dove violenza regna).
Forse è proprio con Dal polo all’Equatore (1986) che i Gianikian hanno esplorato, nelle sue svariate potenzialità, la potenza di questo regime archeologico, utilizzando la camera analitica fino allo sfinimento, per fare emergere questa storia “effettiva”, rovesciando la forma del documentario fascista che emerge dal film realizzato dall’operatore Luca Comerio alla fine degli anni ‘20.
«Per il film Dal Polo all’Equatore sono stati scattati a mano 347.600 fotogrammi. La camera è munita di meccanismi per lo scorrimento laterale e longitudinale e angolare in tutte le direzioni, può rispettare integralmente il fotogramma; la sua struttura originaria e la sua velocità di apparizione in senso filologico. Oppure penetra in profondità il fotogramma per l’osservazione dei dettagli, nelle zone marginali dell’immagine, delle parti incontrollate dell’inquadratura. La camera può rispettare il colore del viraggio originale o della coloritura a mano del fotogramma, ma può anche dipingere autonomamente vaste zone del film. La velocità dello scorrimento è in funzione della velocità originaria sempre diversa in ogni brano filmico e di ciò che si intende sottolineare. In generale il valore del ralenti è di 3-4 per 1 fotogramma. Il valore aumenta nelle parti sfuggenti, negli accadimenti in un unico fotogramma e nei frammenti. La camera lavora all’interno della sequenza, talvolta componendola in più sequenze. Confronta le forme del repertorio primitivo per metterne in luce i particolari. Con le tecniche sperimentate per la prima volta da Mikhail Kaufmann nel 1928 viaggia nello spazio e nel tempo filmico.»[3]
Si tratta – attraverso la tecnica – di segmentare, de-tagliare, isolare, per permettere di vedere diversamente le cose.
Puro gesto
In storia – ricorda Michel de Certeau – «tutto comincia con il gesto di mettere da parte, di raccogliere, e quindi di trasformare in “documenti” alcuni oggetti suddivisi in altro modo. Il primo lavoro è questa nuova suddivisione culturale. In realtà essa consiste nel produrre tali documenti, con il ricopiare, trascrivere o fotografare questi oggetti cambiandone simultaneamente il posto e lo statuto. Questo gesto si riduce a “isolare” un corpo, come si fa in fisica, e a “snaturare” le cose per costituirle in pezzi che vengono a colmare le lacune di un insieme posto a priori. (…) L’archivio è la traccia degli atti che modificano un ordine ricevuto e una visione sociale.»[4]
Si tratta dunque di vedere meglio le cose. Si tratta anche di cogliere e trattenere ciò che nel film l’occhio umano non ha colto, ciò che all’occhio umano è sfuggito. Ci sono dettagli nascosti che chiedono di emergere dall’oblio. Siamo dunque vicini a Muybridge e a Marey: proiezione, approccio analitico, scientifico, sul materiale filmato. In più, incontriamo qui la questione indissolubilmente legata alla precedente da noi affrontata. Cosa tagliare? Cosa isolare? Cosa ri-fotografare? E quanto tempo fare durare l’inquadratura ri-filmata?
In Dal Polo all’Equatore (versione originale di Comerio) c’è una brevissima sequenza che mostra Comerio uccidere un orso polare a fucilate. Christa Blüminger si è soffermata su questa sequenza:
«La rilettura e la nuova concatenazione dei frammenti ricostruiti ridimensiona temporalmente la ricerca spaziale e l’atto di mirare, di mettere a fuoco: le immagini di orsi minacciati e terrorizzati, che saltano fuori dall’acqua o si tuffano per sfuggire ai colpi di fucile, vengono ripetutamente rallentate e riproposte. Rispetto alla versione di Comerio, Gianikian e Ricci Lucchi hanno allungato la scena che precede il colpo finale del cacciatore sulla nave, intento a mirare agli orsi, in modo da farla diventare dodici volte più lenta della versione di Comerio.»[5]
Cosa isolare? Oggetti, le rigature sulla pellicola, le macchie di decomposizione (in Su tutte le vette è pace la decomposizione della pellicola divora i corpi e le figure inquadrate, le fa svanire). Su cosa soffermarsi? Sui gesti, soprattutto. Il dettaglio, il suo programma d’azione, si esprime in questo isolare gesti, nell’evidenziarli. La vocazione scientifica e insieme archeologica dei Gianikian si manifesta proprio qui. Qui risiede il suo aspetto cruciale.
Gianikian e Ricci Lucchi ci sembrano qui assecondare un’ipotesi di Giorgio Agamben. Per Agamben, l’elemento del cinema non sarebbe l’immagine, ma il gesto. Sul primo numero di Trafic compare un suo testo, fortemente voluto da Serge Daney: Note sul gesto.
«Il cinema – scrive Agamben – riconduce le immagini nella patria del gesto. Secondo la bella definizione implicita in Traum und Nacht di Beckett, esso è il sogno di un gesto. Introdurre in questo sogno l’elemento del risveglio è il compito del regista.»[6]
Il cinema si fa strada proprio nell’epoca in cui la borghesia perde i suoi gesti e si rifugia nell’interiorità, nella psicologia, sostiene Agamben attraverso la lettura di Max Kommerell (insieme a Benjamin uno dei più importanti pensatori tedeschi dell’epoca). Soprattutto: «Nel cinema, una società che ha perduto i suoi gesti cerca di riappropriarsi di ciò che ha perduto e, insieme, ne registra la perdita. (…) La danza di Isadora e di Diaghilev, il romanzo di Proust, la grande poesia dello Jugendstil da Pascoli a Rilke e, infine, nel modo più esemplare, il cinema muto, tracciano un cerchio magico in cui l’umanità cercò per l’ultima volta di evocare ciò che le stava sfuggendo di mano per sempre.» (p. 48)
Sintomo nietzschiano (Also sprach Zarathustra), è in questo stesso periodo che si fa strada il progetto di Aby Warburg. Le sue ricerche hanno come centro il gesto inteso come cristallo di memoria storica. Scrive Agamben:
«Poiché queste ricerche si attuavano nel medio delle immagini, si è creduto che l’immagine fosse anche il loro oggetto. Warburg ha, invece, trasformato l’immagine in un elemento decisamente storico e dinamico. In questo senso, l’atlante Mnemosyne, che egli ha lasciato incompiuto, con le sue circa mille fotografie, non è un immobile repertorio di immagini, ma una rappresentazione in movimento virtuale dei gesti dell’umanità occidentale, dalla Grecia classica al fascismo.»[7]
L’unico testo di Max Kommerell disponibile in Italia si intitola Il poeta e l’indicibile. E’ un testo dedicato a Heinrich von Kleist. Giorgio Agamben ne ha curato l’introduzione, soffermandosi proprio sull’importanza cruciale del gesto (il testo si intitola “Kommerell, o del gesto”), avvicinando Kommerell a Warburg, ricordando come in un ulteriore testo, dedicato a Jean Paul, lo stesso Kommerell parlasse precisamente di puro gesto: non gesti dell’anima e neppure gesti della natura, ma qualcosa di differente. Si tratta di gesti che: «si sono emancipati da un testo scritto e da un ruolo integralmente definito e oscillano eternamente fra realtà e virtualità, vita e arte, singolarità e genericità.»[8]
Qui – in questo spazio – si gioca il lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Questi gesti, isolati, rallentati, rimandano nella loro purezza alla vita stessa: iniziano alla vita. Non al suo senso, ma solo a se stessa. E’ quello che scopre Kommerell nelle sue pagine dedicate al Wilhelm Meister:
«La vita inizia non al suo senso, solo a se stessa. A qualcosa che, nel suo materiarsi di bellezza, passione ed enigma, e in ogni punto confinando col senso, ma senza mai proferirlo, resta del tutto innominabile. Essa ha dunque un segreto – no, è essa stessa segreto.»[9]
Il lungo sguardo
Un ultimo passaggio.
Giorgio Agamben segnala l’importanza cruciale del montaggio in un testo dedicato al cinema di Guy Debord, sottolineando le due opzioni fondamentali che il montaggio offre:
– ripetizione
– arresto
«Questo Debord non l’ha inventato, si è limitato a portarlo alla luce. E Godard farà lo stesso nelle sue Histoire(s). Non c’è più bisogno di girare, non si farà altro che ripetere e arrestare. Si tratta di un evento epocale nella storia del cinema. (…) Si fa del cinema a partire dalle immagini del cinema.», scrive Agamben.[10]
Due condizioni di possibilità del cinema: ripetizione e arresto. La ripetizione restituisce la possibilità a ciò che è stato, lo rende di nuovo possibile. Di qui la prossimità tra ripetizione e memoria. La memoria restituisce al passato la sua possibilità.
L’arresto invece permetterebbe – secondo Agamben – un’esitazione prolungata tra immagine e senso. Nell’arresto l’immagine si espone in quanto tale, come un enigma.
Ripetere, arrestare, de-tagliare. Ciò che emerge è una nuova potenzialità delle immagini: l’oggi attraverso i materiali di ieri. Risvegliare alcuni gesti prolungandoli e facendoli emergere alla luce, dilatandone la durata, rallentandoli: è l’arrière-monde di cui parla Raymond Bellour, in un saggio importante, dedicato ai Gianikian.[11]
Spogliare i gesti, le immagini, dalle incrostazioni ideologiche: c’è una sorta di metrica dietro a questa operazione. La durata del gesto scandisce una nuova temporalità; nei film dei Gianikian ciò che nel materiale d’origine durava pochi secondi viene a volte dilatato fino allo sfinimento, come se gli ingranaggi del proiettore si stessero inceppando. La macchina detta il tempo accentuando uno sguardo sospeso in una catena determinista. Proprio in questo modo emerge un tempo critico, sperimentale. E’ il volto della donna che cercava Jacques Austerlitz. Per i Gianikian sono le mani di una donna nuda intenta ad alzarsi una calza, come se volesse coprirsi (Essence d’absynte). Oppure è lo sguardo di una donna che improvvisamente si volta e fissa l’obiettivo o quello di un bimbo che rotea gli occhi, mentre sta in posa per un ritratto di famiglia (Images d’Orient). Questo gesto si prende il suo tempo: è tempo.
Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi non deviano pallottole, come i due etnologi extraterrestri ricordati da Schefer, si limitano ad analizzare le immagini con applicazione quasi religiosa (sono gli esercizi di Ignazio analizzati da Roland Barthes): lavorano ad un secondo montaggio per effrazione, tagliano, isolano, per comporre fotogrammi che non chiedono di essere guardati, non solo: piuttosto fissano, interrogano, “producono” in un certo senso il proprio spettatore.
Questo tempo è anche una struttura, una struggente melodia. Potremmo dire – con Theodor Adorno, nel suo saggio su Mahler – che questo tempo sperimentale è quello che emerge da un lungo sguardo:
Scrive Adorno: «Il lungo sguardo si appunta a tutto ciò che è condannato.»[12]
E’ lo sguardo dei Gianikian, lo sguardo di due extraterrestri. Das Lied von der Erde è il titolo di una delle ultime composizioni di Mahler e anche il titolo di un film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, a Mahler dedicato.
Come la composizione della materia musicale di Mahler, questo nuovo tempo nasce dunque da una serie di irruzioni, di sospensioni fino ad un adempimento.
– Irruzione: è intromissione dall’esterno, è ciò che prorompe, fa breccia; è l’incontro con l’altro.
– Sospensione: è appunto una diversa concezione del tempo. La durata non è altro che tempo della forma che si dispiega liberamente, tempo che si concede, ignorando ogni vincolo precostituito. Il tempo necessario affinché un gesto si dispieghi.
– Adempimento: definisce un’intera sinfonia, informa la sua struttura, ma può decidere anche di disgregarla.
Togliere gli errata dalla storia è un po’ anche questo: ci perdoni George Steiner.[13] Si tratta di rinunciare all’assoluto delle cose, negando presunte totalità. Si tratta piuttosto di scoprire in un varco, attraverso una fessura, che l’essenziale è nascosto proprio in ciò che veniva eliso dallo sguardo generale. Adorno si chiedeva se la metafisica non sopravvivesse forse nel residuo, in ciò che è minuscolo e disadorno. Questo lungo sguardo che stiamo evocando non è allora altro che uno sguardo al microscopio, penetrante e pronto a cogliere e a correggere ciò che a prima vista ci era sfuggito, per salvare ciò che è stato condannato.
Il lavoro del filologo? Così la pensa Nietzsche, nella prefazione al suo Aurora:
«Questa prefazione viene tardi, ma non troppo tardi; che importano, in fondo, cinque, sei anni? Un libro del genere, un problema del genere non ha fretta: inoltre, noi siamo entrambi amici del lento, tanto io che il mio libro. Non per nulla si è stati filologi, e forse lo siamo ancora: la qual cosa vuol dire, maestri della lettura lenta; e si finisce anche per scrivere lentamente. Oggi non rientra soltanto nelle mie abitudini, ma fa anche parte del mio gusto – un gusto malizioso forse? – non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente «frettolosa». Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del «lavoro», intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol «sbrigare» immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo; per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati…»[14]
È il miglior elogio che io possa fare a Yervant Gianikian e a Angela Ricci Lucchi.
Questo saggio è la versione italiana, leggermente riveduta, di una conferenza del 2007 tenuta a Gradisca d’Isonzo nell’ambito della V MAGIS – International Film Studies Spring School. Il testo in lingua inglese è apparso nel volume a cura di Alice Autelitano, The Cinematic Experience. Film, Art, Museum, Campanotto, Udine, 2010. Questa nuova versione tiene conto dei film che nel frattempo Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi hanno realizzato e introduce alcune modifiche nell’apparato delle note.
[1] D. Arasse, Il Dettaglio. La pittura vista da vicino, Il Saggiatore, Milano, 2007, p. 209.
[2] M. Foucault, “Nietzsche, la genealogia, la storia”, in Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino, 1977, p. 43. [corsivo nostro]
[3] Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, Dal Polo all’Equatore, «Griffithiana», n. 29-30, 1987, p. 96.
[4] M. de Certeau, La scrittura della storia, Il pensiero scientifico, Roma, 1977, p. 82. [traduzione leggermente modificata]
[5] C. Blümlinger, Dentro il fotogramma. Dal Polo all’Equatore, in P. Mereghetti, E. Nosei (a cura di), Uomini Anni Vita. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Il Castoro, 2000, p. 87. [Il titolo del saggio di Blümlinger e il testo della citazione sono state modificate. La traduzione falsava ampiamente il senso del lavoro svolto dai Gianikian sul frammento qui preso in considerazione.]
[6] G. Agamben, “Note sul gesto”, in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Boringhieri, Torino, 1996, p. 50.
[7] G.Agamben, “Note sul gesto”, cit., p. 49. Su Warburg si veda almeno il bel libro di P.-A. Michaud, Aby Warburg et l’image en mouvement, Macula, Paris, 1998; vedi anche G. Didi-Huberman, L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Minuit, Paris 2002.
[8] G. Agamben, “Kommerell, o del gesto”, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza, 2005, p. 242.
[9] M. Kommerell, Essays, Notizen, poetiche Fragmente, cit. in G. Agamben, “Kommerell, o del gesto”, in La potenza del pensiero, cit. p. 248.
[10] G. Agamben, “Il cinema di Guy Debord”, in e. ghezzi, R. Turigliatto (a cura di), Guy Debord (contro) il cinema, Il Castoro, Milano, 2001, p. 104. La questione del continuo, discontinuo, della ripetizione e dell’arresto riguarda da vicino Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, ed è naturalmente un tratto distintivo delle avanguardie storiche. Rimandiamo almeno a P. de Haas, Cinéma integral. De la peinture au cinéma dans les années vingt, Transédition, 1985. Così come riguarda intere generazioni successive di filmmaker: il cinema strutturale (Peter Kubelka, Kurt Kren, Malcolm Le Grice tra gli altri) e filmmaker come Bruce Conner, David Rimmer, Ken Jacobs, Arthur Lipsett, Maurice Lemaître, fino a Peter Tscherkassky, Bill Morrison, Jürgen Reble, ecc.
[11] R. Bellour, “L’arrière-monde”, in L’Entre-Images 2, P.O.L., Paris, 1999.
[12] T.W. Adorno, “Il lungo sguardo”, in Mahler. Una fisiognomica musicale, Einaudi, Torino, 2005 [nuova edizione], p. 193. Questo lungo sguardo si posa su corpi anonimi, figure colloidali obliate, deturpate spesso dalla guerra e dalla violenza (Oh, uomo, ma anche la recente installazione presentata al MART di Rovereto: Il Trittico del ‘900). Nuova vita per gli uomini infami: «Il “qualunque” cessa di appartenere al silenzio, alla voce passeggera o alla confessione fugace. Tutte queste cose che costituiscono il dato ordinario, il dettaglio senza importanza, l’oscurità, le giornate senza gloria, la vita comune possono e devono essere dette, anzi scritte: sono diventate descrivibili e trascrivibili, nella misura in cui sono attraversate dai meccanismi di un potere politico. Per lungo tempo non avevano meritato d’essere dette seriamente che le gesta dei grandi. (…) Che possa esserci nell’ordine di tutti i giorni qualcosa come un segreto da svelare, che l’inessenziale possa essere in certo modo importante, tutto ciò è rimasto escluso fino a che non è venuto a posarsi su simili minuscole turbolenze lo sguardo impassibile del potere. Da ciò nasce un’immensa possibilità di discorso.» cfr. M. Foucault, La vita degli uomini infami, Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 49-50.
[13] G. Steiner, Il correttore, Garzanti, Milano, 1992.
[14] F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Adelphi, Milano, 1994, pp. 8-9.
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grazie.
grazie a te fabio
Signori, a proposito di Storia, con la S maiuscola, vi segnalo l’ultima fatica del mio assistito, Tommaso Giancarli, al mondo Tamas, leggibile e scaricabile gratis su Iussuu.com http://issuu.com/edograndinetti/docs/tagestamas
Chiedo venia per lo spam ma, come si dice, ubi maior