MARIANGELA GUALTIERI Bestia di Gioia
di Viola Amarelli
“Bestia di gioia” (Einaudi, 2010), ultima raccolta di Mariangela Gualtieri, delinea con una scrittura limpida e appassionata insieme una ricerca giocata – nel senso più alto del termine – non sulle ma con le parole. E’ tra il suono e la sua origine, il silenzio – lemma non a caso ricorrente come un fil rouge nel libro unitamente a “forza” e “potenza” – che s’inserisce il vettore mistico, vero protagonista dei testi (la trama misteriosa/che per certa sappiamo od, anche, ciò che viene splendido in dono). Si tratta tuttavia di una mistica saldamente radicata nel concreto, tra il nato fra le zampe e tutte le ragnatele, e che proprio per questo riesce a intrecciare senza soluzione di continuità un andirivieni stupito ma consapevole fra terra e cielo, in una natura talmente immanente da diventare chiave, e non solo simbolo, per l’oltre, per l’Essere ogni cosa. La stessa dimensione verticale di numerosi testi affollati di stelle e cieli e fuoco e nuvole e vento fluisce con l’acacia chiama l’ape che ricama/…/Nasce un cantare d’uccello/sconosciuto, un viavai d’alveare.
Su questo versante che si accosta, pur nella diversità di poetiche, a “L’Iddio ridente” di Luigi Di Ruscio, non c’è alcun quietismo, anzi. La natura, spesso definita magmatica, della scrittura della Gualtieri registra sismograficamente le luci e le ombre, le alternanze e gli scarti, le inevitabili “catabasi” che si rinvengono nella stessa struttura del libro, scandito in cinque sezioni: “come i cinque atti del teatro antico” recita la quarta di copertina, a richiamare l’impegno e la vocazione teatrale dell’autrice. Di fatto, le sezioni sembrano costituire le tappe di un percorso di scrittura esperenziale e, proprio per questo, mai lineare, conoscendo le faglie dell’oscuro (le sponde degli insonni; c’è buio per lei), e del dolore (gli arti percossi(le rosse gengive…/non vorrei mai farmi male) richiamate anche da alcuni eserghi di Amelia Rosselli, poeta non a caso molto amata dalla Gualtieri.
In tutte le sezioni predomina comunque l’energia della *parola*, talvolta espressionista, quasi una forza pilota della scrittura. Se, seguendo Agamben (da ultimo in “Categorie italiane”, Laterza, 2010) la “lingua della poesia (è)….un campo di forze percorso dalle due tensioni contrastanti dell’inno, il cui contenuto è la celebrazione, e dell’elegia, il cui contenuto è il lamento” è indubbio che “Bestia di gioia” si inscrive grande lucidità nel “primo tensore” che “frange il linguaggio nel grido di giubilo”, tensore decisamente minoritario nella poesia contemporanea, tuttora dominata da tonalità elegiache.
Il ricorso alle *ripetizioni* (si veda per esempio: per tutte le costole… per ogni animale… per tutte le seti ) e al *parallelismo* (era tutta scoscesa/nella grazia. Sassosa dentro/ vinta da tutto. Nel duro/) – tipici strumenti della salmodia – accentua la valenza da laude dei testi, specie nelle prime due sezioni, ma non mancano i toni icastici (Otto notti dentro l’aurora. Arrocco della speranza) o l’improvviso affollarsi di metafore (e si veda esposto tutto il clero alle divine faccende/ si spericolava) sempre peraltro ricondotti in una prosodia di stampo insolitamente classico, a tentare un riuscito equilibrio tra il suono e il silenzio, tra il sé cosmico (quel niente che accade) e l’ego maschera autoriale (un mio me/ soffre. Chi è? Chi scalcia sul fondo/ di questo quieto piroscafo). Ne deriva un affresco di forte impatto e di coese variazioni: lo stesso testo finale nell’ultima sezione, intitolata “mio vero” e incentrata sulla forza amorosa, sembra porsi come un quadro teatrale da prologo, riaprendo il cerchio del libro (e della vita, come recita un’altra delle poesie: –C’è solo vita/ niente altro. Solo vita), un gran bel libro perché, per dirla con Raimon Panikkar, da poco scomparso: “Se la parola non dice solo ciò che prima è pensato, se non va solo a rimorchio del pensiero, ma dice ciò che l’Essere è e dicendolo lo manifesta, allora poniamo le basi realmente al regno della libertà” (da “Lo spirito della parola”, Bollati Boringhieri, 2007).
da “Naturale sconosciuto”
Per tutte le costole bastonate e rotte.
Per ogni animale sbalzato dal suo nido
e infranto nel suo meccanismo d’amore.
Per tutte le seti che non furono saziate
fino alle labbra spaccate alla caduta
e all’abbaglio. Per i miei fratelli
nelle tane. E le mie sorelle
nelle reti e nelle tele e nelle
sprigionate fiamme e nelle capanne
e rinchiuse e martoriate. Per le bambine
mie strappate. E le perle nel fondale
marino. Per l’inverno che mi piace
e l’urlo della ragazza
quel suo tentare la fuga invano.
Per tutto questo conoscere e amare
eccomi. Per tutto penetrare e accogliere
eccomi. Per ondeggiare col tutto
e forse cadere eccomi.
che ognuno dei semi inghiottiti
si farà in me fiore
fino al capogiro del frutto lo giuro.
Che qualunque dolore verrà
puntualmente cantato, e poi anche
quella leggerezza di certe
ore, di certe mani delicate, tutto sarà
guardato mirabilmente
ascoltata ogni onda di suono, penetrato
nelle sue venature ogni canto ogni pianto
lo giuro adesso che tutto è
impregnato di spazio siderale.
Anche in questa brutta città appare chiaro
sopra i rumorosissimi bar
lo spettro luminoso della gioia.
Questo lo giuro.
a Sabrina M.
Oltre, lo sentiamo
forma non serve – nome nemmeno
si lascia qui l’ingombro si depone
perché poi si scavalca il mondo
e un volo si accende
immenso oltre l’aurora.
Ah! libertà vorticosa!
Stare bene profondo.
Essere ogni cosa.
da “Un niente più grande”
Le cose stanno perfettamente
obbediscono a mani laboriose
le cose immote savie silenziose
nelle ombre assegnate
nelle spigolature.
da “Per solitario andare”
Credo mi dolga questo essermi strappata
alla specie e poi messa qui di lato
in attesa vigilata delle sillabe.
Io credo mi dolga questo stare
abbandonata lateralmente
nel sospeso del mondo
a catturare
pezzi di una voce che ancora butta giù
e dice le sostanziate righe fulminanti.
Io credo mi sentano come traditore
i compagni per questo mio piantare in asso
con modalità or inusuale
nel parlottio cellulare. Stiamo
in stretta vigilanza, in un darci la voce
continuamente in questo deserto.
da “Mio vero”
Un certo giorno stretto fra gli altri ho visto un fondo
pesante. Sul pesante ho dormito come potevo, fra goc-
ce e un buio col fazzoletto bagnato e pezzetti di un-
ghie. Volevo andare alto, come nel sogno quando si
corre a quattro zampe. Volevo il mio riposo e le paro-
le giuste. Un giorno senza erbe, senza il chiaro delle
superfici, sono andata sul fondo pesante come i vecchi
cattivi o la donna diavolo sulle panchine di viale Car-
ducci. E piangeva per me, per una delle cinque o sei
cose che fanno piangere.
I commenti a questo post sono chiusi
!!! great
gran bel lavoro, Violeta, su un’artista a tutto tondo.
Oltre, lo sentiamo
forma non serve – nome nemmeno
si lascia qui l’ingombro si depone
perché poi si scavalca il mondo
e un volo si accende
immenso oltre l’aurora.
Ah! libertà vorticosa!
Stare bene profondo.
Essere ogni cosa.
[meraviglia e puro piacere.]
Bella recensione, attenta, puntuale.
Un libro senz’altro da leggere.
Complimenti a entrambe.
Complimenti per il canto a tre voci. L’iniziazione poetica è una lettura del mondo, un ‘ascensione dalla terra verso il cielo, un corpo fatto di aria e di liquidità. Linguagio raggio in centro. Viola rileva come la lingua poetica si libera della paura del vuoto o dell’ombra, una musica tra il silenzio e l’eco. La bestia è la forza privato del linguaggio, la poesia dà un nome a quello che non si pronuncia mai. La gioia materiale o mistica trasuda dalla lingua, una gioia festa della parola- fuori e dentro della brutta città.
recensione ariosa e impeccabile di un’artista che rompe il silenzio con la parola intesa non come fatto, ma come atto, come epifania finalmenta rivelatrice e gioiosa.
complimenti a l’una e all’altra.
floriana tursi
A volte il destino davvero sa prendere a gomitate: non più di dieci minuti fa ho letto altrove “Un niente più grande”, apprezzandola.
Era destino che di lei oggi leggessi e ne sono felice perchè ne valeva (e vale) assolutamente la pena.
Grazie.
clelia