Foto di gruppo senza piazza
da «il Fatto Quotidiano» (sabato, 2 ottobre 2010)
di Evelina Santangelo
Immaginate una piazza o il corso principale di uno dei tanti centri minori o province che costituiscono l’Italia. Immaginate dei ragazzi – adolescenti e post-adolescenti – che, seduti sui motorini, più o meno parlano, perché qualcuno ha un cellulare di ultima generazione tra le mani e invia raffiche di sms magari a chi gli sta di fronte, mentre qualcun altro se ne sta a dimenarsi con le cuffie dell’ipod nelle orecchie. Immaginate di ascoltarli, questi ragazzi di un ceto indefinito.
Questi qui in questa piazza o corso, ad esempio, hanno impiantato tutta una discussione su facebook, sulla quantità di contatti (non di amici) che ognuno di loro può vantare in rete, e adesso stanno litigando accusandosi reciprocamente di rubarsi i contatti: più contatti hai più sei in gamba, questo sembrano dirsi. E, ad ascoltarli per bene, ciò di cui discutono non c’entra un bel niente con l’amicizia, la simpatia, l’intelligenza, né con la simulazione dell’amicizia, c’entra piuttosto con una forma di competizione per assicurarsi una sorta di surrogato di surrogato della popolarità. Urlano, e urlando si caricano, si aizzano, mentre si perde ogni filo logico o consequenziale in quei loro discorsi che si accavallano e si frantumano in impennate isteriche, improperi dove le parole «invidia», «autenticità», «falsità» suonano come pure riproduzione di schemi espressivi buoni per ogni occasione. Così, tu che li ascolti e non sei dei loro, a un tratto, hai l’impressione di esser finita in certi vacuissimi scambi d’opinione televisivi dove il pubblico di un ceto indefinito dice la sua su un tema dato. Una sensazione corroborata anche dal fatto che quella discussione, dopo un po’, così com’è nata, si dissolve, senza lasciare traccia, senza che sia di fatto accaduto davvero qualcosa. Nessun dialogo, nessuna circolazione di sentimenti o idee, nessuna reale modificazione dei rapporti.
Fate solo un piccolo salto. Immaginate una qualche periferia urbana, e dei ragazzi – adolescenti e post-adolescenti (stesso ceto indefinito) – che, seduti sui motorini, più o meno parlano.
Una scena sempre identica a se stessa
Forse intorno ci sarà più degrado, ma la scena non cambierà di molto. Così come per le diverse province d’Italia, potrebbe cambiare qualche cadenza, qualche accento o peculiarità linguistica, che è spesso un gergo diretto ed essenziale comunque. Potrebbe anche cambiare qualche dettaglio dell’abbigliamento, che è però sempre molto telegenico, di quella telegenicità più o meno vistosa, ostentata, artificiosa e a volte artificiale, che è poi il canone estetico oggi imperante tra i giovani di questo ceto indefinito delle province e periferie d’Italia, e tra i giovani tout-court. Canone, che ha come corollario un fatto abbastanza inquietante: questi ragazzi sembrano tutti finiti nel posto sbagliato, e sembrano tutti, o quasi, degli avatar che rimandano a qualcun altro di cui, però, non è dato sapere, a volte neanche a loro stessi. Figuriamoci a noi: sia che li guardiamo sconcertati, disperati o al contrario affascinati, decisi a volerli capire cercando di fissare in un discorso compiuto quel loro mondo franto e disperso che si muove tra centri commerciali sempre più estesi con i loro McDonald’s e King Burger che sanno di templi megalitici, videogiochi di ultima generazione, ritrovati tecnologici sempre più sofisticati, chat ed sms sempre più sincopati, dove la parola è sigla, gioco di emoticon sorridenti, tristi, buffi… e dove l’interiorità è rimossa o dissimulata. Forse per questo gran parte dei racconti generazionali, oggi, suonano così finti ed esteriori nel tentativo di dare durata e profondità a ciò che non le contempla, e preferisce riconoscersi in ben altre forme espressive.
Ora, questi ragazzi sui motorini in una qualche provincia o periferia d’Italia sembrano davvero in tutto e per tutto l’incarnazione di quei nuovi valori che Pasolini intravedeva nella nascente società dei consumi e dell’edonismo, quei «valori del superfluo», inculcati e diffusi dalla televisione, che rendevano «superflue, e dunque disperate le vite».
Eppure in questi ragazzi di ceto indefinito che più o meno parlano c’è piuttosto una sorta di vacuità perseguita con una determinazione che diventa persino rito: dal gesto estremo, adrenalinico, esibizionista, aggressivo, allo sballo, al disprezzo ostentato per tutto ciò che non coincida perfettamente con i confini del loro mondo semitribale, dove il singolo e la sua singolarità contano niente, l’interiorità si manifesta in schemi emotivi preconfezionati, emoticon appunto (salvo finire magari in labirinti di angoscia senza più parole né condivisione, senza via d’uscita), e dove la diversità è sentita come una colpa. Né potrebbe essere diversamente per chi sembra avere una percezione di sé e del mondo intero fondata sul valore assoluto del sentirsi, dell’immaginarsi uguali, anzi, identici.
Ora, quei ragazzi lì sui motorini così telegenicamente abbigliati e atteggiati, così tecno-muniti, così convinti d’esser globali e globalizzati, così virtuali, autistici, autoreferenziali, così ignoti a se stessi, così superflui ci dicono qualcosa di profondamente vero anche su alcuni aspetti essenziali di questo nostro Paese.
Etimologia di una parola abusata
Se con «provincia» s’intende un «centro minore» lontano dal «benessere» e dalla «modernità» delle città, allora dobbiamo dire che in questo nostro paese non esistono più luoghi che si possano definire «province», nonostante cresca il consenso nei confronti di movimenti politici che, ostentando finalità locali (come la Lega), pretendono di conservare demagogicamente quel che già oggi non esiste e meno che mai esisterà domani.
Se con «periferia» s’intende ciò che è «marginale» «accessorio» o «subalterno», cioè «escluso dall’esercizio effettivo del potere», allora il nostro è un Paese che, concentrando il potere nelle mani di una minoranza interessata a garantire se stessa, sta trasformando tutto il resto del paese in realtà marginali, accessorie, subalterne, cioè in un’immensa periferia dove i più periferici, irrilevanti, superflui sono soprattutto i giovani senza-potere e, tra i giovani, proprio gli adolescenti e post-adolescenti di quel ceto indefinito che vivono nelle province e periferie d’Italia così eguali nei consumi, ma così terribilmente diversi nelle chance di formazione, crescita e realizzazione professionale che saranno loro date in una logica in cui il «premio al merito» è inteso sostanzialmente come sostegno soprattutto per élite, socialmente e culturalmente, oltre che economicamente, avvantaggiate, senza che venga minimamente affrontato il problema della compensazione rispetto alle differenze sociali, economiche, culturali di partenza.
Se con «provincialismo» s’intende: «un atteggiamento, una mentalità considerati per lo più tipici di chi è originario o risiede nei centri minori di un paese, e caratterizzati da meschina angustia di vedute, ingenua prosopopea, cattivo gusto, goffaggine o ineleganza di modi, arretratezza di costumi (oppure all’opposto, supina e ostentata soggezione alle ultime mode), mancanza di aggiornamento, ristrettezza di orizzonti culturali proprio di chi opera al di fuori dei centri di più vivace elaborazione culturale e rinnovamento delle idee», allora questo nostro Paese ogni giorno di più assume i tratti di un’immensa provincia d’Europa, dove quei giovani lì così globalizzati nei consumi, così illusi della loro «modernità», così marginali nei diritti e così drammaticamente inconsapevoli sono l’icona più drammatica di un paese che, trincerandosi dietro una modernità di facciata, rischia di condannare alla marginalità intere generazioni. Anche il futuro così sarà un privilegio per pochi.
I commenti a questo post sono chiusi
Ho apprezzato molto questo articolo. Io però credo che in italia ci sia ancora molta differenza tra città e piccolo centro. Basta spostarsi a 30 km da Milano per accorgersi che non è davvero la stessa cosa (in peggio, ovviamente). La mutazione antropologica di cui si sta parlando non assume i medesimi tratti in ambienti che restano, fondamentalmente, diversi (il caso di Adro non vi dice nulla?).
Sì, ma restano uguali alcuni tratti, come ad esempio il modo in cui viene vissuta la «modernità» in termini di consumi, cosa che prima non era affatto così.
Oggi non ci sono più province-remote cui non arriva la «modernità» e periferie-appendici più o meno degradate di città intese come centri di irradiazione culturale e civile.
Oggi tutto è tendenzialmente periferia-appendice (culturalmente più o meno degradata) di un fantomatico centro che non coincide con un luogo esatto, ma è piuttosto disseminato, così come è disseminata la Rete, direi.
Il problema è che in un contesto del genere il futuro, così come la «modernità» (intesa come assunzione di una visione e di un modo di operare che si serve criticamente delle possibilità offerte dalla modernità), a mio avviso, finirà sempre più per essere un privilegio di pochi, anzi, di una sorta di elite intellettuale transnazionale.
Ps: Me ne sono resa conto in modo evidente già durante gli anni di studio che ho trascorso negli Stati Uniti. C’era, diciamo, quella che sarebbe stata probabilmente la classe dirigente di tutti i paese del mondo, o quasi (indiani, cinesi, coreani, giapponesi, africani, moltissimi sudamericani… pochi italiani), anche di quei paesi che comunemente sono ritenute «periferie del mondo civile» e c’era una sorta di substrato culturale comune, pur nelle diversità profonde.
Per questo, tornando all’Italia (e al suo provincialismo, destinato a crescere, a mio avviso, se non si invertirà la tendenza), ho l’impressione che tutto ciò accada in scala minore, molto minore, e con l’aggravante di una politica che non è in grado di ripensare se stessa e il proprio ruolo nella delicata gestione di tutto quel che coporta oggi il vivere in un mondo interconnesso.
Scusi se ho messo troppa carne al fuoco. Spero di esser riuscita, almeno in parte, a spiegare la mia visione.
Grazie per la risposta. Il problema dell’italia è proprio la mancanza di futuro, il venir meno di un’idea di società, di monod verso cui procedere. Questo tratto è comune a tutto l’occidente, credo, ma in Italia è più accentuato, anche per via di una classe dirigente francamente impresentabile. Che dire, ad esempio, di una Gelmini e di chi la muove dietro le quinte, dal momento che io faccio l’insegnante? La loro indadeguatezza, non solo culturale, è macroscopica. Fino agli anni ’80 nel nostro paese si erano visti degli spiragli (si pensi a come stava cambiando, in meglio, la condizione degli omosessuali). Ora è tutto angosciantemente fermo o in regresso e probabilmente, come accennavo nella mia reazione a caldo all’articolo, vivere in una grande città, ad esempio – nonostante tutto – Milano, consente, se lo si vuole, di non essere direttamente a contatto con gli aspetti più deteriori di questi anni, a cui invece, in provincia, non si può sfuggire.
E anche nelle perferie non si sfugge… no? Periferie, che sono tantissime e intrecciate senza soluzione continuità pure ai centri delle metropoli come Milano.
Grazie a te per la riflessione.