Roberto Bolaño, l’insopportabile!
Al festival internazionale di letteratura di Buenos Aires (FILBA) gli scrittori Juan Villoro (messicano), Alan Pauls (argentino) e Horacio Castellanos Moya (salvadoregno) parteciparono ad una tavola rotonda dedicata allo scrittore Roberto Bolaño moderata da Pedro Rey dal titolo:
Roberto Bolaño: El escritor insufrible
La trascrizione della discussione è stata pubblicata nel blog della FILBA
Verso Roberto Bolaño: lo scrittore insostenibile traduzione dallo spagnolo di Maria Nicola 2
Parte I
Pedro Rey:
Passioni, e anche avversioni, è il tema di fondo di questa tavola rotonda, Roberto Bolaño: Lo scrittore insostenibile. E questo per un motivo molto curioso: Bolaño, come si vede nei suoi articoli giornalistici, nei suoi saggi, nelle poche conferenze che diede, era un tipo passionale, pieno di passioni, di avversioni e anche di contraddizioni. Quello che colpisce, almeno me, è che ciò si appaia anche nella sua letteratura, nella sua narrativa. Ho la sensazione che tutta la sua opera sia come permeata da queste passioni a volte mutevoli.
I tre scrittori che abbiamo la fortuna di incontrare oggi hanno tutti in un modo o nell’altro qualcosa in comune con Bolaño, oltre ad averlo letto. Innanzitutto Bolaño ha scritto meravigliosamente bene di tutti e tre, lasciandoci pagine molto belle che colgono nel segno. E, a loro volta, tutti tre hanno scritto cose molto interessanti su di lui. E tutti e tre, in un modo o nell’altro, lo hanno conosciuto.
Con Juan Villoro – lo racconta Bolaño, e Juan da parte sua lo racconta anche lui, sebbene le date non coincidano, come immagino avrai notato – si erano conosciuti da ragazzi; Bolaño dice che allora aveva diciassette anni, Juan che ne aveva venti. E poi si erano ritrovati vent’anni dopo a Barcellona. Tu eri ancora in Messico, se non ricordo male? Anche Horacio lo ha conosciuto, ha passato insieme a lui una giornata o un lungo pomeriggio – dopo lo racconterai –, e Alan non l’ha conosciuto direttamente ma ha avuto con lui uno scambio di mail e gli ha parlato per telefono.
Quello che vorrei chiedervi, quindi, visto che lo avete conosciuto, visto che lo avete letto e frequentato e avete familiarità con queste sue passioni e avversioni, è di tracciare un vostro ritratto personale di Roberto Bolaño.
Juan Villoro
Be’, con Roberto Bolaño è successa una cosa estremamente curiosa, e cioè che abbiamo avuto la possibilità di vedere come si costruisce un classico in tempo reale. Quello che è successo negli ultimi tempi con la sua opera è stato come un “reality” della fama postuma, il consolidarsi di un’ascesa ormai inarrestabile. Soltanto poco fa dicevamo quanto si sarebbe divertito Bolaño a vederci in questo frangente, costretti a [parlare in tono encomiastico della sua vita e la sua opera. Lui disse che da morto gli sarebbe piaciuto iscriversi a un seminario tenuto da Pascal e discutere con lui. Non disse che cosa avremmo dovuto fare noi, ma poteva benissimo immaginarselo che avremmo sempre fatto una figura ridicola, nello sforzo di mostrarci all’altezza di quel che lui ha lasciato.
A questo proposito mi viene sempre in mente un aneddoto sul padre di Leonard Bernstein, che era abbastanza crudele con suo figlio e lo picchiava spesso quando era piccolo. Una volta gli venne chiesto: «Ma com’è possibile che lei abbia maltrattato così suo figlio?» E lui: «Scusate, ma io non lo sapevo che era Leonard Bernstein». Beh, con Roberto è successa la stessa cosa, era un nostro caro amico, e spesso noi non sapevamo che fosse Roberto Bolaño.
All’inizio diceva che faceva una fatica enorme ad attenersi a una forma poetica che in qualche modo gli chiedeva di raccontare una storia. Lui era un idolatra della poesia, da giovane lui voleva scrivere poesie e le sue poesie fin dall’inizio avevano la tendenza a diventare delle storie. Questa tensione che lui aveva dentro, sin dalle origini della sua esperienza poetica, sarebbe riuscito poi a rovesciarla in modo brillante, trasformando le sue storie in messe in scena della ricerca poetica. Una ricerca poetica che non si spiega a partire dalla scrittura di un’opera, e nemmeno a partire dalla scrittura di un’opera clandestina e segreta, ma a partire da un’esperienza di vita che giustifichi la poesia. Quindi, se Ricardo Piglia dice che il detective stabilisce un contatto fra la cultura popolare e la riflessione intellettuale – diciamo che è un intellettuale popolare che indaga sulle tracce sparse della realtà –, il detective selvaggio di Bolaño, per analogia, porta avanti un’indagine poetica, un’indagine silvestre, un’indagine in contropelo che è quella del poeta.
Horacio Castellanos Moya:
Forse sottolineerei un aspetto dell’impressione che mi fece Roberto Bolaño. Il mio rapporto con Roberto fu molto circoscritto, e credo che ebbe luogo grazie a Juan. In seguito ci scambiammo delle mail, cominciammo a scriverci, e scoprii che lui aveva un legame molto particolare con El Salvador, perché quando ritornò in Cile nel ’73, per vivere l’esperienza del governo di Allende, e poi fu catturato, l’unico posto in cui dice di essersi fermato durante il viaggio fu El Salvador, dove fu ospite in casa di un amico, Manuel Sort, un mio amico, regista teatrale, che a Città del Messico aveva fatto parte degli infrarrealisti, come Orlando Guillén e un gruppo di poeti maledetti.
Durante un viaggio Barcellona andai a trovarlo, e questa è tutta la mia esperienza con Roberto, e l’impressione che ne ho tratto e di cui posso parlarti è che fosse un tipo profondamente compulsivo, un tipo incontrollabile; e un tipo, come ho detto, compulsivo, che sentiva di trovarsi al limite, molto vicino all’abisso, sia rispetto alla letteratura che rispetto alla vita. Si discorreva con lui e lui, su ogni argomento, era perentorio; era perentorio pur lasciando la discussione aperta, e sempre con un’enorme tristezza e senso di morte. Quando lo conobbi era il 2002, gli restava un anno di vita, non di più.
Da dove è venuto fuori Roberto Bolaño? Suo padre faceva il camionista, sua madre era maestra elementare in un piccolo paese del sud del Cile. Poi, fu sempre un outsider. Basta vedere la definizione di sé che diede per la borsa Guggenheim. Alla domanda su quali fossero le sue esperienze, scrisse: «Tutti i mestieri». Come, tutti i mestieri? Si sa che noi scrittori siamo mitomani, ma lui, dove era stato? Che cosa aveva fatto in quei vent’anni a parte lavorare al camping? Io non so nulla di quel periodo. E ho la sensazione che si portasse dietro questo aspetto contestatario, che abbiamo visto anche nel suo momento di auge, quando ormai era diventato lo scrittore che conosciamo ma continuava a opporsi al sistema. Non sto parlando di politica, ma di una tendenza naturale alla ribellione, che poi è quello di cui stavi parlando, la sua tendenza a essere sempre in disaccordo, a opporsi ai valori costituiti.
Alan Pauls:
Io ho un’esperienza abbastanza singolare di rapporto con Bolaño, che non ho mai conosciuto di persona, ma con quale ho parlato una volta al telefono, in una telefonata che lasciò molto a desiderare tecnicamente; c’erano un mucchio di interferenze sulla linea, e credo ci fossero degli amici comuni in casa sua, da dove lui chiamava, che cercavano di impedirci di parlare normalmente. Però in quell’unica conversazione, in quell’unica esperienza dal vivo che ho avuto lui, credo di essermi reso conto che sostanzialmente a Bolaño piaceva molto conversare. In quella breve telefonata mi accorsi, in pratica, che Bolaño non voleva mettere giù. Non gli importava che la comunicazione fosse un disastro, che ci fossero delle interferenze, che non riuscissimo a sentici, lui non voleva mettere giù. E mi pare che questo, forse, spieghi quel repertorio così eclettico di amori e di odi che lui aveva; amori e odi, che, del resto, lui non cercava mai di giustificare. Bolaño non era un ragionatore in questo senso, non era critico in questo senso. Non sembrava che ci fossero, dietro questa galleria di amori e di odi, dei principi estetici, o politici, o letterari, che potessero far presagire i suoi prossimi odi e i suoi prossimi amori. Mi pare piuttosto che ci fosse in lui, da una parte, una certa propensione un po’ bellicosa – un po’ teppistica, diciamo –, molto salutare secondo me in un momento in cui la letteratura latinoamericana era un po’ troppo isolata in una specie di comodità pantofolaia. Io credo che in questo senso lui contribuì a restituire alla letteratura latinoamericana una certa aggressività di cui si sentiva la mancanza.
E al tempo stesso, mi ha sempre colpito che questo aspetto di Bolaño, questo suo aspetto litigioso, bellicoso, provocatorio, fosse in contraddizione con il tipo di letteratura che faceva lui, che è piuttosto una letteratura estremamente onnicomprensiva. Mi pare che la letteratura di Roberto sia una letteratura non esclude nessuno, neppure i suoi nemici. Anzi, ho l’impressione che in tutto quello che scriveva lui volesse annettersi tutto. Non solo i generi, non solo le tradizioni, non solo i diversi tipi di pubblico, ma anche i nemici. Ecco, in questo io vedo qualcosa che mi è sempre parso significativo: uno che scrive un’opera estremamente coloniale, imperiale, nel senso che è un’opera che sembra voler conquistare di continuo territori sconosciuti, anche quando le sono ostili; o soprattutto quando le sono ostili. E uno scrittore, una figura, una posizione nel dibattito pubblico che è quella del teppista, dell’agitatore.
Juan Villoro:
Io credo che ogni scrittore interessante abbia bisogno di tensioni e, perfino, di contraddizioni. In Roberto, per esempio, rispetto al Messico, c’era un’idolatria del ricordo. Lui non volle mai tornare in Messico, e ricostruì un Messico fantasmagorico, e diceva che se mai fosse tornato in Messico, sarebbe morto in Messico. Aveva questa fantasia di annullamento riguardo al Messico, e diceva che in fin dei conti, quello è il paese di Pedro Páramo. Io credo che in fondo non volesse tornare perché il Messico era un territorio letterario. L’ultima parola di narrativa che scrisse, alla fine di 2666, è la parola «Messico», che è la parola che chiude il romanzo.
Questa propensione a separare, a individuare amici o avversari e a tenere sempre pronti i riflessi del polemista, credo avesse un po’ a che fare con il desiderio di ritrovare l’energia dell’avanguardista che ormai mancava di uno scenario in cui far crescere la sua letteratura altra, la sua letteratura di rottura, perché non fu questo quel che cercò di fare in Spagna. A Blanes, il porto dove sorge la prima rocca della Costa Brava – a lui questo dato geografico piaceva molto – la prima rocca, credo credo che lui si sentisse come quella prima rocca, e non è un caso che le sue ceneri siano state disperse lì, da suo figlio.
Pedro Rey:
C’è una frase che mi piace moltissimo e che vorrei ricordare, di un suo racconto, che è un racconto su uno scrittore che scopre di essere un pessimo scrittore. Questo scrittore che si rende conto di essere mediocre, decide avvicinarsi a un altro, quasi per proteggerlo, a uno che è un disastro, e dice che «i cattivi scrittori sono – o dovrebbero essere – gli scudieri dei buoni scrittori». Mi pare che questo si leghi all’idea di una sorta di comunità, come diceva Juan. Mi piace pensare che questo racconto, che si trova in Chiamate telefoniche, sia precedente alla sua consacrazione. Tutti quei momenti in cui Bolaño può aver pensato di non essere uno scrittore di valore, diciamo. Non so se qualcuno di voi l’abbia conosciuto allora.
Juan Villoro:
Io credo che lui fosse del tutto sicuro di essere un grande scrittore. Voglio dire, non ho mai conosciuto nessuno con una determinazione più forte e una maggiore sicurezza riguardo a quel che sta facendo. In questo senso, lui aveva anche la certezza che quel che stava facendo era gli sarebbe sopravvissuto. Questo non vuol dire che lui si vantasse di essere un grande scrittore, o che cercasse riconoscimenti facili, ma che se il lettore, il mondo, gli editori, non fossero entrati in contatto con la sua opera, tanto peggio per loro. Lui era assolutamente convinto di questo, perfino nel suo periodo “pellerossa”, di cacciatore di scalpi, come diceva lui, quando cercava di vincere i premi letterari organizzati dai comuni nei posti più sperduti, o da riviste che non lo interessavano, premi a cui concorreva esclusivamente per denaro; anche allora lui era assolutamente convinto di dare oro zecchino in cambio di quel poco che avrebbe ricevuto.
In questo senso, il fenomeno della fama non gli interessava, anzi, la combatteva. Per questo, se alcuni dei suoi amici più cari avessero avuto in vita la fama che lui ha oggi, lui l’avrebbe trovato spaventoso, perché detestava questa idea di celebrità e di consenso, e vi si opponeva. Il grande paradosso è che la vitalità di questa lotta, di questa tensione, ha fatto sì una grande varietà di lettori si interessi alla sua letteratura.
Horacio Castellanos Moya:
Credo che lui questo lo dica nel su discorso di Caracas, quando riceve il premio Rómulo Gallegos, quando parla della sua idea di scrittore letteralmente in pericolo, non perché voglia ammazzare il prossimo, ma perché si espone al pericolo nella profondità e nell’avvicinarsi all’essere umano fin dove può. 2666 fu la sua grande avventura in questo senso, fu calarsi profondamente in una realtà delittuosa, in una realtà infernale, che da Blanes deve essere stato difficilissimo scrivere.
Alan Pauls:
Io non vedo Bolaño come uno scrittore d’avanguardia; lo vedo piuttosto come un romantico e come un fanatico, perché in realtà la vera pulsione che anima la letteratura di Bolaño è il fanatismo. In questo senso io lo vedo come un preavanguardista. Infatti è questo il tipo di figura di artista che appare nella sua letteratura; la sua è una letteratura piena di poeti, di scrittori, di artisti che però in pratica non producono nulla, noi non sappiamo mai che cosa si scriva, che cosa scrivano Belano e Lima nei Detective selvaggi. Mi pare che quel che Bolaño fa sia riappropriarsi molto intelligentemente di una tradizione che in termini estetici, non so se si sia già estinta, ma certamente ha imboccato un vicolo cieco, ovverosia la tradizione dell’avanguardia; e che da questa tradizione lui riprenda più che altro un repertorio di forme di esistenza, di modi di vita; che poi, in realtà, è quel che gli è sempre interessato..
Se uno legge quello che Bolaño ha scritto, si accorge – e con questo torno anche all’idea di una letteratura onnicomprensiva – che la sua non è letteratura d’avanguardia, perché la letteratura d’avanguardia non può essere, per definizione, onnicomprensiva. Direi che la letteratura d’avanguardia deve necessariamente lasciare fuori qualcuno, deve dividere il pubblico. Quindi mi sembra di vedere in lui un certo uso della tradizione delle avanguardie che ha a che vedere più con gli stili di vita che con le pratiche, i procedimenti, le poetiche. E d’altra parte mi pare che vada bene così, direi che questa è stata un po’ la grande scoperta di Bolaño: trovare il punto in cui la tradizione delle avanguardie poteva ancora essere in qualche modo produttiva.
Per me ci sono due Bolaño: uno è quello che chiude, in qualche modo, il ciclo del grande romanzo latinoamericano, e in questo senso I detective selvaggi è il romanzo che chiude; e poi c’è l’altro Bolaño, quello di 2666, che secondo me apre qualcosa. Qualcosa che finora, per chiunque abbia letto il romanzo, continua a essere un enigma totalmente sconosciuto. Direi che non sappiamo che cosa potesse venire dopo, nell’opera di Bolaño. 2666, a differenza dei Detective selvaggi che è un romanzo che chiude, è un romanzo che apre, ma non sappiamo che cosa. E per di più è un romanzo che non definirei romanzo postumo – il cui completamento sia stato interrotto dalla morte – ma un romanzo praticamente scritto dopo la morte, un romanzo scritto dall’aldilà. Quando Bolaño scrive I detective selvaggi, quello che fa è dire a Fuentes, a García Márquez, a Vargas Llosa: «Voi credevate di avere scritto i grandi romanzi latinoamericani? Ebbene, vi siete sbagliati, questo è il grande romanzo latinoamericano». E mi pare che questo sia come il momento «teppistico» di Bolaño.
Juan Villoro
Sì, parlando della relazione tra la vita e l’arte, mi sconcerta la frase tante volte ripresa dalla stampa, secondo cui Bolaño sarebbe lo scrittore che ha dato la vita in cambio di un romanzo, come se la sua vita non fosse stata scrivere quel romanzo e come se non ci fosse identità tra la vita e l’opera. Questo è il vecchio dilemma che si poneva Thomas Mann: O vivo o scrivo. E se scrivo dalla distanza riflessiva della scrittura, abbasso l’intensità dell’esperienza. Che fare? Vivere o scrivere? Io credo che la scelta di Bolaño di fronte della scrittura sia appunto quella di vivere, vita e scrittura.
Mi pare interessante quello che stavi dicendo, Alan, di 2666 come una specie di fuga verso un altrove che non sappiamo dove sarebbe arrivata. Trovo molto interessante, in 2666, un elemento del tutto nuovo rispetto al Bolaño precedente, che lui aveva più volte tentato: la fusione di questa sua idea dell’arte e dell’esperienza attraverso la prima persona. Sono molti le prime persone che parlano a partire da un’interiorità nella quale la loro vita si trasforma, forse inavvertitamente, in testimonianza. 2666 è un romanzo nel quale la vita interiore dei personaggi si dà a partire dall’esteriorità della trama.
Fine parte I
- Il titolo della tavola rotonda, ispirato a El gaucho insufrible, tradotto in italiano con il gaucho insostenibile, ha suggerito la traduzione di insufrible (insopportabile) con insostenibile↩
- Sollecitato dalla discussione che ha avuto luogo su Nazione Indiana e altri blog sulla responsabilità degli scrittori, un lettore e commentatore di NI, Carmelo Pinto mi aveva proposto il testo della conferenza. Maria Nicola, traduttrice di molti libri di Roberto Bolaño, su mia richiesta, ha rivisto la traduzione di Carmelo e ci è sembrato giusto, alla fine attribuirgliela. Per ragioni di lunghezza lo abbiamo diviso in due parti sperando possa portare un contributo alla “giusta causa”. effeffe↩
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Interessante. Condivido la definizione di “fanatico”; condivido che non lo si possa definire “avanguardista”, è riduttivo. 2666 è in effetti un romanzo di tale forza, creatività e originalità da lasciare sconcertati.
Molto bello e vero. E’ vero dire “avanguardista” è assolutamente riduttivo : Bolaño è semplicemente nuovo, diverso e fortemente innovatore.
Credo che l’intervento di Alan Pauls sia assolutamente decisivo. Per anni RB è stato considerato un “outsider” per le ragioni sbagliate. Il suo attaccamento alle tendenze avanguardiste mi sembra solo un ulteriore dimostrazione della sua passione infuocata per la Letteratura. Per quanto un romanzo come “I detective selvaggi” sia struttralmente “di rottura” (un romanzo che chiude, come afferma Pauls), specialmente se posto accanto a un Fuentes o ad un Garcìa Marquez, credo che “I detective selvaggi” sia una dichiarazione di amore nei confronti della scrittura e della letteratura, un tentativo di ricostruire una tradizione/generazione che Bolano non condivideva in toto e nella quale certamente non si riconosceva, ma che comunque amava febbrilmente.
confesso di conoscere poco Bolano, almeno fino ad ora. Tuttavia il ritratto che emerge dal dibattito ha stimolato la curiosità . Merito degli autori e forse anche di una traduzione efficacia che coinvolge il lettore sui ‘misteri’ di questo autore che sicuramente attira per la ‘forza dirompente’ della sua scrittura , per la sua condizione di scrittore vissuta come ‘assoluta’.
Si avverte la sensazione di essere di fronte ad un ‘predestinato’, forse non capito, se non addirittura osteggiato, dai contemporanei, ma il messaggio ma l’idea che la sua è una letteratura inclusiva e’ molto bella e il messaggio intrinseco che la letteratura vada coniugata con la vita valga non solo per gli scrittori ma anche per i lettori è forte e stimolante. L’idea che s’intravede di una letteratura che ‘cambia’ il lettore è quanto di piu’ impegnato si possa immaginare.
confesso di conoscere poco Bolano, almeno fino ad ora. Tuttavia il ritratto che emerge dal dibattito ha stimolato la curiosità . Merito degli autori e forse anche di una traduzione efficacia che coinvolge il lettore sui ‘misteri’ di questo autore che sicuramente attira per la ‘forza dirompente’ della sua scrittura , per la sua condizione di scrittore vissuta come ‘assoluta’.
Si avverte la sensazione di essere di fronte ad un ‘predestinato’, forse non capito, se non addirittura osteggiato, dai contemporanei, ma il messaggio ma l’idea che la sua è una letteratura inclusiva e’ molto bella e il messaggio intrinseco che la letteratura vada coniugata con la vita valga non solo per gli scrittori ma anche per i lettori è forte e stimolante. L’idea che s’intravede di una letteratura che ‘cambia’ il lettore è quanto di piu’ impegnato si possa immaginare !
non mi piace impantanarmi nelle definizioni. ma dopo aver letto 2666 ho avuto l’impressione di aver letto un futuribile classico. R B è tra i pochi scrittori che mi dà il piacere della lettura.
condivido il comune sentire degli interventi, che parlano di amore per la letteratura, di piacere della lettura.
giustamente i critici nelle loro analisi si sono soffermati molto sullo stretto rapporto tra letteratura e vita fino al punto che i due aspetti dello scrittore finiscon oa volte per confondersi.
Ma bolano ha sempre rivendicato il primato della lettura, ha sempre affermato che leggere è di gran lunga piu’ importante che scrivere. coniugare la letteratura con la vita, non vale solo per gl iscrittori, ma anche e soprattutto per i lettori. Perchè la letteratura non è un passatempo, ma forse la forma di conoscenza dell’uomo e del mondo, piu’ profonda e potente. Perchè la letetratura ci apre gli occhi e cambia il nostro rapporto con il mondo.
Confesso di non aver letto nulla di RB ma i vostri interventi ne tracciano un originale profilo di scrittore fuori dagli schemi che mi incuriosice molto. Interessante la supremazia della lettura sulla scrittura sostenuta da RB.Lo penso anche io. Scrivere impone, leggere (e capire) corregge a proprio uso e consumo il contenuto.
Fa piacere leggere qualcosa anche dell’uomo Bolano, da parte di chi l’ha conosciuto o anche solo ci ha parlato. Qui http://www.archiviobolano.it/ c’è un sito un po’ disordinato ma abbastanza nutriente sulle sue opere, interviste, e frequentazioni.
Le citazioni e i vari riferimenti letterari contenuti in 2666, l’unica sua opera che ho letto – compiuta e imperfetta, perfetta e incompiuta, corposamente colta, animale, umanissima -, sono partecipativi e funzionali ad un idea di romanzo all’antitesi dell’ovvio. Denso di percezioni esistenzialiste, immaginifico senza che sia enfatico, ironico e sgomento, realistico, crudo, carnale e visionario insieme, prolifico di storie abbozzate e decostruite anche oltre il campo visivo.
2666 sì, è un testo all-inclusive che non contiene un pacchetto turistico, ma è frutto di una capacità-monstre di affabulazione di Bolano, gran dilatatatore di tempi che sanguina storie da ferite della Storia assai difficili da rimarginare.
Non so se fu un grande uomo. Grande scrittore, sì.
@paolo castronovo
è interessante quello che dici
vorrei capire meglio l’operazione di Bolano
“strutturalmente “di rottura” come affermi, perchè è in dubbio che lui rivoluziona la letteratura latinoamericana (e forse non solo latinoamericana) ma al tempo stesso alla ricerca delle ‘radici’, in quell’ “amore per la letteratura “
c’e un aspetto interessante della discussione quando Juan Villoro dice:
Sul lavoro diceva che gli costava aderire a una forma poetica che, in qualche modo, gli stava chiedendo di raccontare una storia, ma lui era un idolatra della poesia; dunque lui voleva scrivere poesie e le sue poesie stavano tendendo sin dal principio ad essere storie. E questa tensione che c’era, sin dalle origini della sua esperienza poetica, sarebbe riuscito poi a risolverla in modo brillante, convertendo le sue storie in messa in scena della ricerca poetica.
Bolano si è sempre sentito un poeta eppure il meglio di se lo ha da tao nel romanzo. Sono state dette molte cose al riguardo. Si è parlato di letteratura “transgenere”, di ibridazione… In effetti nella sua prosa si avverte un respiro poetico di sottofondo.
Chiara Bolognese che ha scritto un bellissimo libro su bolano (pistas de un naufragio, buenos aires) afferma che:
“””””In bolano si nota costantemente una stretta relazione tra la narrativa e la poesia. I due generi si completano reciprocamente, il che coincide con le sue idee al riguardo:”Nicanor Parra dice che il buon romanzo è scritto in endecasillabi […] Harold Bloom dice che la migliore poesia del secolo XX è scritta in prosa. I sto con entrambi””””””””
A me piacerebbe conoscere l’opinione dei poeti e dei critici al riguardo
se cioè si puo’ parlare di una poesia scritta in forma di prosa e di una prosa che abbia un respiro poetico.
mi piacerebbe tanto per esempio conoscere l’opinione di franco buffoni, o di alfano o di barbieri o di raos o di inglese o di forlani o di pinto e ditutti glia altri che seguono il sito
Beh io penso che Bolano sveli molto più di quanto è lasciato intendere superficialmente nei saggi conclusivi di “Il gaucho insostenibile” e ne “I detective selvaggi”. Come è noto, Bolano non era convinto che la letteratura latinoamericana fondasse sui capisaldi machisti alla Garcìa Marquez. Tuttavia non si allontana mai dalla tradizione: vuole riscriverla. Ho anche la sensazione , tutta personale e assolutamente poco convinta, che l’amore di Bolano per la poesia fosse un tentativo di recuperare un atteggiamento “d’avanguardia” che nel romanzo era andato perso. Un piccolo tratto della sua genialità? Proprio il respiro “lirico” dei suoi romanzi.
@paolo acstronovo
in qualche modo hai ragione probabilmente. In una intervista Alan Pauls dice:
….[bolano) si rese conto che la sua opera poetica non funzionava e cio’ che fece fu tener conto di questa esperienza poetica, una certa vita del poeta, e una certa opera insufficiente del poeta, lasciare fuore la parte opera, e restare con la parte vita e fondare su questa idea, su questo nucleo di base, una specie di geniale opera romanzesca i cui eroi sono quasi sempre poeti però dei quali non sappiamo mai che cavolo scrivono. Non c’e’ in tutta l’opera di Bolaño un solo riferimento a quale tipo di scrittura sia la scrittura dei poeti de I detective selvaggi etc. etc. Direi un mondo romanzesco che mi inetressa molto soprattutto nei romanzi gmaggiori e in Stella distante, che ruota attorno alle vite dei poeti. Non di narratori: di poeti””””””
Insomma un po’ speculare al film di david lyinch dove il cantante urlava “No hay banda!”
qui invece
“no hay obra!”
@paolo castronovo
ringrazio per il contributo all’interessante dibattito e per le risposte ai parerei richiesti , nel mio caso, da appassionato e curioso lettore.
Vorrei sottoporre alla Vostra attenzione questa mia considerazione: il carattere inclusivo della letteratura di Bolano mal si concilia con il suo disprezzo per gli autori che strizzavano l’occhio al mercato e noiosamente riproponevano la letteratura che i lettori si apsettavano dai latinoamericani.
Mi risulta che Bolano abbia parlato male di molti scrittori latinoamericani.
@sergio
In realtà Bolano aveva un profondo disprezzo di quegli scrittori asserviti al mercato, ai gusti del pubblico, alla condiscendenza dei critici. Mentre nutriva profondo rispetto per quegli scrittori che pur non essendo garndi scrittori non tradivano la letteratura. Il punto è proprio questo: la letteratura (e vale sia per i lettori che per gl iscrittori) diventa parte integrante della vita.
in 2666 a pag 542 leggiamo
“””””””””””””””””””””””
Lei mi dirà che la letteratura non è fatta unicamente di capolavori ma è piena di opere cosiddette minori. Anch’io lo credevo. La letteratura è un grande bosco e i capolavori sono i laghi, gli alberi immensi o stranissimi, gli splendidi fiori eloquenti o le grotte nascoste, ma un bosco è fatto anche di alberi normalissimi, di ciuffi d’erba, di pozze d’acqua, di piante parassite, di funghi e fiorellini selvatici. Ebbene, sbagliavo. Le opere minori, in realtà non esistono. voglio dire: l’autore di un’opera minore si chiama Tizio o Caio. Tizio o Caio esistono, non c’è dubbio, e soffrono e lavorano e pubblicano su giornali e riviste e di tanto in tanto pubblicano addirittura un libro che non spreca la carta su cui è stampato, ma quei libri e quegli articoli, se lei fa bene attenzione, non sono scritti da loro. “ogni opera minore ha un autore segreto e ogni autore segreto è, per definizione, uno scrittore di capolavori. Chi ha scritto quell’opera minore? Apparentemente uno scrittore minore. La moglie del povero scrittore lo può testimoniare, l’ha visto seduto, chino sulle pagine in bianco che si contorceva passando la penna sulla carta. sembra una testimonianza inespugnabile. Ma quello che ha visto è solo l’esterno. Il guscio della letteratura. Un’apparenza” disse il vecchio ex scrittore ad Arcimboldi e Arcimboldi ripensò ad Ansky. “In realtà a scrivere quell’opera minore è uno scrittore segreto che accetta soltanto i dettami di un capolavoro”.
“il nostro buon artigiano scrive. E’ assorto in quello che va plasmando bene o male sulla carta. La moglie, senza che lui lo sappia, lo osserva. In effetti, è lui che scrive. Se però la moglie avesse una vista a raggi x si renderebbe conto che non assiste propriamente a un esercizio di creazione letteraria ma piuttosto a una seduta di ipnotismo. Dentro l’uomo seduto a scrivere non cè nulla. Nulla che sia lui, voglio dire.
“”””””””””””
io mi limito a citare cosa dice al riguardo patricia espinosa, critica cilena
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La letteratura sarebbe paragonabile ad un bosco, dove i grandi autori trovano posto ma dove anche lo trovano i minori. In tal modo la letteratura non sarebbe solo definita da capolavori e opere minori, in quanto le opere minori in realtà non esistono. Un’opera minore è infatti dettata all’autore da uno scrittore segreto di capolavori. Pertanto, in ogni opera minore ci sarebbero le tracce di un’opera maestra. In definitiva, secondo la teoria di Bolaño, ci sono unicamente opere maestre: in un caso totali, nell’altro frammentarie.
Quanto detto nega dunque il carattere minoritario di un testo. Ogni testo, nel momento in cui condivide frammenti di un capolavoro, si libera della sua condizione di inferiorità. Adesso la presenza di ciò che è passato dal capolavoro all’opera minore risulta essere come un segreto o una traccia che solo il lettore potrà smascherare o seguire. Con questa teoria, Bolaño sovverte la gerarchia tra l’opera minore e il capolavoro. Tuttavia definisce un canone: quello delle opere maggiori. Questo canone, di cui non viene definito un nome o caratteristiche, opera come un territorio segreto, ma costituito da quali opere? E da quali scrittori? . Questo canone, in quanto luogo segreto, si snatura, perde la sua funzione primaria di instaurare un registro di testi o autori che definiscano una matrice o un modello selettivo.
“””””””
Mi pare che la cosa più importante la dica Pauls. Dei due romanzi-capolavoro di Bolaño, “I detective selvaggi” è davvero nel solco del grande romanzo sudamericano: pur con tutte le destrutturazioni introdotte da Bolaño, non si può negare che appartenga alla stessa famiglia dei “Cent’anni di solitudine”. L’idea che chiuda un’epoca è molto affascinante. Quanto a “2666”, non so cosa ne sarebbe uscito con un’elaborazione più lunga, perché così com’è a me sembra mancare di editing, però è chiaro che è comunque di un’altra famiglia. Non so se apre un’altra epoca perché mi pare che esprima soprattutto la grande potenza narrativa di Bolaño, perciò rimarrà forse un episodio a sé. Di certo c’è che gli unici a credere nel romanzo, nel senso ottocentesco e primo-novecentesco, sono e sono stati i sudamericani. Forse per questo “2666” sembra aprire una nuova rotta, perché noi continuiamo a vederci in mezzo il postmoderno, che per i sudamericani semplicemente non esiste.
è vero federico, una grande opera non nasce dal nulla. Bolano era un grande garndissimo lettore, leggeva libri di guerra di strategia, di giochi, i manuali deggli investigatori, leggeva e rileggeva la letteratura nord sud e centroemericana. Anche quella USA. Conosceva e amava Twain (qualcuno ha ritrovato molto di Twain nei detective) Melville etcc.
Su questo punto il più lucido è stato Javier Cercas che dice:
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Si ripete, per esempio, che la sua opera sorge da una reazione contro gli autori di ciò che viene definito, nel bene e nel male, boom della letteratura latinoamericana, contro i quali sarebbe insieme l’antidoto e la via di fuga, o una delle vie di fuga. Sebbene alcune insolenze negli scritti dello stesso Bolaño sembrano avallarla, questa idea può essere frutto solo dell’inettitudine o dell’impotenza di chi la difende (quando non della sua cattiva indole) e di una lettura molto superficiale dell’opera di Bolaño. Essa ha l’inconveniente tremendo di proporre un Bolaño inetto ed impotente, oltre che indocumentato, incapace in ogni caso di capire che scrivere qualcosa di valido consiste non nell’ ignorare i grandi, ma piuttosto – per quanto penoso o lesivo dell’amor proprio di taluni possa sembrare – nel riconoscerli e arrampicarsi sulle loro spalle, sebbene si incorra alle volte nella civetteria veniale di disprezzarli tra i denti. Quello che voglio dire è che Bolaño non fu in alcun modo ( salvo in alcune intemperanze dell’ultima ora) un detrattore del boom, quanto precisamente il suo continuatore più disciplinato: il suo lavoro non solo è inimmaginabile senza una lettura sottobraccio di Borges, ma neanche senza la trasparenza colloquiale della prosa di Cortàzar, o senza le astuzie narrative e le architetture romanzesche di Vargas Llosa, senza dubbio il romanziere in vita, in lingua spagnola, più ammirato da Bolaño, e uno di quelli che assimilò con più attenzione.””””””””””
Uno scrittore immenso
è il più grande
Bolano è anche un costruttore e decostruttore di miti, racconta la costruzione di una figura malefica (stella distante) denotandola di mistero, contraddizioni, perlustrando le fasi di un giallo e del reportage giornalistico…è chiaramente vicino a Borges quando forma il mito e quando riporta dicerie come presentazione (Silva, detto l’Occhio)..delle volte ha il puro gusto della descrizione di un contesto facendo sfumare il plot fino a farci sentire la paura di un ambiente sconosciuto..il significante che nella forma poetica di solito è ricercato e incatenato come un marchingegno in lui è una perla sparsa in un racconto..la sua poesia è il rapporto di due personaggi, l’atmosfera di un racconto, l’omaggio a scrittori veri e finti..per me il suo pellegrinaggio narrativo è una rappresentazione di un mood..di un’aria tenebrosa..di una potenzialità indefinita..di un essere incontenibile e irrappresentabile…queste utlime cose le scrivo perché lo amo
…..di una potenzialità indefinita..di un essere incontenibile e irrappresentabile…queste utlime cose le scrivo perché lo amo “”
@max
secondo me stai esprimendo un sentimento che accomuna tutti (o quasi tutti i lettori di Bolano): stai esprimendo la sensazione di potenza che si avverte nella sua scrittura. C’e’ una cosa secondo me che i critici non possono capire e che è un privilegio, un dono che bolano trasmette ai suoi lettori: “il virus della lettura la passione incontenibile per la letteratura.
c’e’ un’altra cosa che invece gl iscrittori, megli oancora gl iaspiranti scrittori dovrebbero secondo me imparare da bolano.
Bolano è un autodidatta, a sedici (16) anni abbandona la scuola secondaria e comincia a leggere voracemente, cosa che farà tutta la vita. per venti anni resta sconosciuto ma continua a leggere (la poesia farncese wittgenstein, pasolini, manganelli, montale, sanguineti, i tedeschi i russi…gli slavi i latinoamericani, i classici, non c’e’ niente che lui non abbia letto ) conduce una vita miserabile ma non gliene importa solo gli importa la letteratura, senza compromessi. nei momenti di disperazione l’unica cosa che riesce a inventarsi è quella di scrivere al poeta cileno che non conosce Enrique lhin
Insomma bolano forse è grande perche’ è fuori da ogni canone accademico o mercantile. Fuori da ogni scuola o tendenza. fuori da ogni condizionamento.
Tutti quelli che aspirano a scrivere un capolavoro e pensano di poterlo fare iscrivendosi a una scuola di scrittura creativa dovrebbero ricredersi.
Le scuole creative forse possono insegnare come non si debe scrivere, forse possono insegnare a scrivere un prodotto standard ma per i lresto è tempo sprecato.
Non vorrei sbagliarmi ma c’è qualcosa di enormemente ambiguo nel corpus letterario bolanano. Una riflessione che descriverei come “triplice”, circa la visione dello “scrittore” bolanano. C’è da parte di Bolano un grandissima considerazione nei confronti dei poeti, addirittura più grande che nei confronti dei grandi romanzieri. Ne parlavamo giusto sopra.
Si avverte ovviamente un potente attrazione verso verso la figura del Poeta, una certa esclusività, assolutamente non sociale ma emotiva, non accademica (come potrebbe essere altrimenti?) né culturale ma di sensibilità. I poeti e gli scrittori popolano tutti i romanzi del cileno. Tuttavia, accanto a questa evidente ammirazione – un’ammirazione che sfocia in coscienza del proprio talento, nel caso di Bolano – è presente anche una aura “maledetta”, un respiro affannoso, una vita ai limiti, un’esistenza che sembra mancare di tutto il resto, lettura e scrittura a parte. E’ il caso di “Stella distante” (nessuna umanità in un poeta assassino); è il caso di Arcimboldi (nessuna faccia fino all’ultima sezione del romanzo); è il caso di “Notturno cileno” (nessun orgoglio ma solo commiserazione).
Ecco dunque che gli “eroi” – ma a questo punto sarebbe meglio dire “antieroi” – bolanani vengono inghiottiti dalla loro stessa passione per la letteratura. Bolano non può che guardali come guarda se stesso, con un misto di fierezza, nostalgia e doloroso rancore.
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