Storie di ritorni

di Helena Janeczek

Mi mostra il tratto dove ha visto arrivare l’enorme chiazza petrolifera, indica con qualche cenno i lidi frequentabili, mi porta al punto dove il fondale è più chiaro. Non c’è quasi nessuno e nulla è veramente come me lo aspettavo: la passeggiata nuova sul lungomare, la spiaggia che alterna tratti liberi a ombrelloni e sdraio, il parco giochi, l’acqua ghiacciata a fine giugno. E’ il primo bagno della stagione, questione di principio, scherzo, prima di finire immersa senza fiato. Giuseppe, più di me, pare assolvere a un duplice dovere: verso l’ospite forestiera e verso il suo mare. Il vento ci mette poco a asciugarci quanto basta per tornare a casa.

“Alla fine, vengo qui tutte le estati. Non riesco a andare al mare da qualche altra parte con gli amici di Milano.”

Sua madre ha apparecchiato sul tavolo della grande cucina che comunica con un giardino ombreggiato dal ventaglio di una palma altissima, eredità del suocero morto da tempo, mentre suo padre centenario oggi pranza da un figlio rientrato dall’Emilia in una casa bianca in riva al mare.

“L’ha portata dall’Africa”, spiega Giuseppe, “era stato laggiù per lavorare.”

Vorrei sapere più del nonno, ma è pronto a tavola. La madre di Giuseppe rigira la pasta accompagnata da mulingiani mbuttunati cui la cottura non ha tolto il viola lucido. Le chiedo la ricetta, la madre di Giuseppe dice che il periodo per lei più bello è agosto quando passa le giornate a preparare per tutta la famiglia che si riunisce intorno alla sua tavola.

“Abbiamo costruito per i figli, come si usa da noi, un piano alla volta, ma se ne sono andati”.

All’ultimo piano, la madre di Giuseppe si è fatta fare una cucina luminosa che non usa. Con mobili di legno solidi e maioliche tradizionali, perché le case vanno allestite per durare.

“Se penso che finirò in qualche buco strapagato, forse è la sola cosa cui fatico a abituarmi.”

La madre di Giuseppe non è una donna che riempia con se stessa lo spazio vuoto di una casa. Persino la voce è delicata, e nelle sue cucine non c’è televisore che l’aiuti a rimpiazzarla. Non è una casalinga, ma un’insegnante. Adesso dirige le scuole elementari del circondario, però ha seguito anche lei le rotte migratorie dei docenti meridionali: entrata in ruolo a Cesano Boscone, richiesta di avvicinamento, incarico a San Luca presso la Scuola Elementare Corrado Alvaro dove andrò a ritirare un premio letterario.

“Mi sono trovata bene perché i bambini sono tutti uguali”, dice con un sorriso apologetico. “Basta dare delle regole”, aggiunge che è già in piedi per togliere dal forno il pesce spada.

Anni prima di dover trovare il tempo per tornare, Giuseppe si era fatto dare i soldi per partire. Da Locri a Sydney: un viaggio che era stato un segnale.

“Quel che spendereste per la festa dei miei diciott’anni, potrei usarlo per andare a trovare zio in Australia?”

Giuseppe lo ricorda vedendo una distesa di eucalipti ai bordi della provinciale. Devono averceli portati, commenta, come il nonno fece con la palma.

Affidare alla terra la promessa del ritorno. Reimpiantarsi. Così anche le costruzioni faticano poco a simulare lo sforzo di non mutare. Si confondono quelle semivuote, vuote, congelate, abbandonate per qualsiasi altro motivo con le case a più piani per i figli o di chiunque abbia cercato in vano di tornare. Puntano indistinguibili nel cielo i piloni, antenne rugginose che appaiono inclinate dall’azzurro troppo carico.

“Qui non è difficile far finta che tutto sia più o meno uguale. Prevale la montagna, la terra, il mare. Persino i vecchi che arrivano straniti dalle immagini del passato, si siedono davanti a casa, riprendono a parlare in dialetto, e in pochi giorni hanno dimenticato.”

Non so quando ho cominciato ad associare la Calabria alla Baviera, né quando mi è venuta in mente la storia di un altro ritorno, di un nostos negato. Il protagonista ha il doppio degli anni del figlio riaccolto con melanzane e pesce spada, ma è finito a abitare a poca distanza e fa un lavoro simile. Giuseppe ha vinto un concorso per programmista-regista alla Rai, l’altro lavora per l’opera e il teatro, quando e dove capita. Anni fa, quando l’ho conosciuto, mi disse che aiutava pure a esportare le scarpe prodotte dalla piccola azienda di suo suocero. Adesso i calzaturifici hanno quasi tutti chiuso, mentre nell’Alto Milanese le famiglie calabresi si sono sempre più radicate.

A Cerro Maggiore, dove vive il regista di teatro, è morto di recente un uomo che aveva testimoniato contro un capoclan originario della Locride. I giornali locali hanno scritto che il cuore non avrebbe retto a anni di minacce reiterate. Anche il regista aveva denunciato una famiglia ed è così finito in quel pezzo d’Italia senza palme e quasi senza più fabbriche. L’uomo che aspettava una giornalista al binario delle Ferrovie Nord, è rimasto uguale a quello che mi era venuto incontro oltre un decennio fa in una stradina di Gallarate. Stesso naso, stessa fronte, stessa capigliatura pettinata all’indietro sul testone identico a quello del bisavolo. Nessuno in tutto il clan insediato sulla collina di Bayreuth, somiglia a Richard Wagner quanto il pronipote Gottfried che ha rifiutato di ritrattare un libro sull’amicizia della stirpe per lo “zio Wolf”, nomignolo di Hitler, e l’adesione al nazismo in generale. Per questo non gli hanno detto che suo padre stava morendo, non l’hanno fatto venire al funerale, non sa nemmeno dove abbiano disperso le sue ceneri. Dimentica la moka sui fornelli della cucina di Cerro Maggiore mentre racconta all’intervistatrice l’atto finale della sua cacciata. “Persino nei necrologi pubblicati a piena pagina non hanno elencato il mio nome”. Damnatio memoriae dei diseredati.

Per San Luca esiste solo una strada che sale dalla provinciale e termina al paese, attraversando un altopiano di aridità dorata, chiazzata di qualche rododendro. La fiumara, spiega la madre di Giuseppe, che fiorendo in primavera valeva le sue ascese in utilitaria.

“Non vengo quassù da quindici anni, da quando ti hanno trasferita, mamma”.

Non stupisce che uno non capiti per caso a San Luca o a Platì, collegata sempre da un’unica strada che si annulla nell’Aspromonte, ma Giuseppe mi ha fatto capire che le località che sembrano turistiche o almeno specchio della nuova predilezione per le zone balneari, restano colonie dei paesi arroccati sulla montagna.

“Meno male, hanno tolto le insegne traforate”, dice la madre di Giuseppe entrando a San Luca, e mi stupisce che sembra aver preso sufficiente confidenza per avvisarmi che l’aria di media arretratezza è un inganno.

Dentro ormai c’è ogni sfarzo, mi hanno detto”.

Davanti alla scuola ci sono più forze dell’ordine e auto blindate che ospiti e premiati. Dico a Giuseppe che vorrei un caffè prima di sorbirmi una cerimonia che prevedo interminabile. Troviamo un bar privo d’insegna, vecchio bancone, frigo antediluviano. Giuseppe ordina per me e si rigira bianco. Colgo, riflesso in uno specchio, la ritirata degli avventori –  tutti maschi e giovani – verso il retro da dove un secondo televisore trasmette i mondiali. Mi spiace per Giuseppe, blatero con calcato accento lombardo facendo la parte che mi spetta, ma è squisito il caffè servito con un bicchiere d’acqua.

La premiazione dura tre ore. Parla per primo il nuovo prefetto di Reggio Calabria, poi il nuovo Vicepresidente del Consiglio della Regione, poi il nuovo Assessore alla Cultura, poi l’Assessore alla Cultura provinciale. Si appellano alla società civile contro qualcosa che si compiacciono di chiamare Malapianta, ma assaporano pure la temerarietà con cui la parola “ndrangheta” risuona in quell’aula magna di scuola elementare. E’ la “presenza dello Stato” messa in scena davanti a un paio di vecchi, forse parenti dei membri della Fondazione Corrado Alvaro.

Il sindaco di San Luca, come tutti avvocato, ringrazia le autorità civili e militari convenute in un italiano affaticato.

Il presidente del consorzio del Parco Naturale dell’Aspromonte ricorda le radici del monachesimo basiliano collegate al santuario di Polsi e auspica che a raccontare il territorio si incentivi la gioventù locale, non vi sia più solo gente mandata dal Corriere della Sera a scrivere ciò che vuole.

L’onorevole incaricato dal sindaco di Roma per i rapporti con la comunità calabrese, invoca la memoria del Genocidio del Popolo Calabrese nel decennio 1860-1870, vergogna ancora coperta da un segreto di Stato, su cui solo la Lega sarebbe disposta a fare luce.

Consegna i premi anche il vicepresidente della fondazione, il parroco Don Pino Strangio, guida delle processioni alla Madonna di Polsi dove la Malapianta compie annualmente le sue plenarie rimpatriate.

Nei paesi, si sa, tutti si chiamano allo stesso modo. Lo confermano i cognomi sulle targhe davanti a altri relatori, uguali spesso a quelli delle famiglie coinvolte nella faida sfuggita di mano con la strage di Duisburg che ancora dopo tre anni le autorità in trasferta non possono, purtroppo, ignorare. Ma ora si celebra l’altra San Luca che porta il volto di Corrado Alvaro, morto da mezzo secolo e sepolto nell’Alto Lazio, a differenza dei tre ragazzi sanluchesi riaccolti dalle parole di Don Pino ai famigliari vestiti non del nero del lutto, ma del bianco della pace.

“Mir san mir”, dicono, in dialetto, dalle parti dove sono nata: noi siamo noi. Abbiamo la nostra festa padronale, la nostra sagra della birra, la nostra banda di ottoni in pantaloni alla zuava, il tavolo fisso all’osteria riservato ai notabili, persino il festival wagneriano di fama mondiale. “Noi siamo noi”: come ha raccontato Thomas Bernhard, o Il Nastro Bianco dell’austriaco Michael Haneke. Nel nostro bel paesaggio di pascoli e gerani, si inserisce bene qualche ristorante italiano, specie se arredato come una Stube nostrana. Grazie alle indagini seguite alla strage, ne hanno perquisiti e sequestrati in tutta la Germania meridionale, ma quando l’integrazione comporta mutuo profitto, è certo che presto risorgeranno.

Quando sono stati distribuiti anche i premi per le ricerche scolastiche su Corrado Alvaro, la cerimonia chiude finalmente il cerchio. Ricevono la targa in bronzo con il profilo tondo dello scrittore anche i nuovi rappresentanti dello Stato che si sono recati a San Luca in visita omaggio. E’ un premio simbolico, ma ha l’aria di un acconto sul reale. Esistono comunità che non concedono alternativa fra assorbimento e espulsione, territori dove la Malapianta sembra una variante di flora locale che trae la sua linfa da un “noi siamo noi”, supposto preesistente e immodificabile. E il desiderio del nostos di chi ha dovuto andarsene, – la nostalgia – a volte, senza volerlo, finisce per annaffiarla.

Al pronipote di Wagner scaraventato dalla collina di Bayreuth nella pianura padana, vorrei offrire un’altra conclusione. Quando Giuseppe stava in Australia, gli si era aggrappato e si era addormentato all’istante un koala. Il piccolo marsupiale aveva preso per un ramo d’eucalipto la gamba del ragazzo diciottenne per la prima volta lontano da Locri e dall’Italia. Chissà se un’altro mondo è possibile, ma l’ordine naturale riesce a ricrearsi in pochi attimi. 

pubblicato su “Il Manifesto”.

 

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12 Commenti

  1. C’è qualcosa che non va, credo, in questo post.O lo vedo solo io?

    S’interrompe bruscamente e, pare, ricomincia da capo, qui:

    ” Il piccolo marsupiale aveva preso per un ramo d’eucalipto la gamba del ragazzo diciottenne per la prima volta lontano da Locri e dall’Italia. Chissà se un’altro mondo è possibile, ma l’ordine naturale riesce a ricrearsi in pochi attim

    Mi mostra il tratto dove ha visto arrivare l’enorme chiazza petrolifera, indica con qualche cenno i lidi frequentabili, mi porta al punto dove il fondale è più chiaro. Non c’è quasi nessuno e nulla è veramente come me lo aspettavo: la passeggiata nuova sul lungomare, la spiaggia che alterna tratti liberi a ombrelloni e sdraio, il parco giochi, l’acqua ghiacciata a fine giugno.”

  2. Storia di ritorni, ritorni a frammenti, con una terra dove le palme si traslocano, vengono da terre di sole più rovente,se il sole della Calabria ha perso la sua arsura, è la malinconia di un paese dove il tempo è caduto tra montagne, mare, paesi. Il tempo si ferma. L’ho sentito nella scrittura di Helena Janeczek, la madre nella sua cucina in un filino di voce, presente e assente, la ceremonia con colori del passato. Sotto la sembianza tranquilla, addormentata, la cadenza del dialetto, l’ombraggio della palma, la parola malapianta è una fitta nel cuore. Paese malato, con esili in terra dov’è subito la notte, dov’è la frescura di un mare in anteprima estate annunziala lenta agonia del paese, fuga e ritorno, ritorno e fuga, con la paura all’orlo della solitudine, l’uomo il cuore spaccato per avere denunciato. Paesi e ritroni crudeli in tasca poco speranza, tranne la dolcezza di una madre o di un nonno, o la carezza
    inaspettata di un koala.

  3. Porca miseria!!!! Spero che qualcuno giunga in soccorso indiano, visto che non posso metterci mano io fino al pomeriggio….scusate scusate

  4. Sono originario di quelle parti e la cosa che mi ha più colpito, in questo bellissimo articolo, è l’accostamento fra l’ideologia nazionalpatriottica del “Blut und Boden” e quella forma di “amore disperato del loro paese” (Alvaro) che caratterizza il modo di pensare di molti calabresi, e che li induce a giustificare anche gli aspetti più inaccettabili della realtà locale. “Esistono comunità che non concedono alternativa fra assorbimento o espulsione”, osserva spietatamente Helena Janeczek. Io che ho scelto l’esilio volontario non mi sento di darle torto. Tuttavia è giusto riconoscere che c’è chi ha deciso di rimanere in Calabria, e sta cercando, con molto coraggio, di cambiare quella società dal suo interno. Inserisco qui di seguito un link ad una pagina che parla dell’interessante esperimento di accoglienza dei migranti tentato da alcune comunità del versante jonico.

    http://utopiecalabresi.blogspot.com/2008/09/immigrati-e-rifugiati-politici-in.html

  5. grazie, Salvatore….a me interessava solo far intravedere come certe dinamiche – in primo luogo culturali- non siano solo meridionali e come riescono a manipolare anche i sentimenti di appartenenza più buoni e irrinunciabili.

  6. Helena, sono Ot, ma non so dove mandare la mail per nazione indiana. Mi sono abbonata a murene da LA POSTE Questa mattina. Ho mandato direttamente ( le mandat ordinaire international on dit en français) à l’associazione culturale Mauta Via Padova, 60
    Milano 20131 Ho mandato 40 euros perché non so cuanto costa l’envoi ( Non ho il dizionario con me). Si deve essere attento alal casa postale, perché il mandato arriva li.
    Ma dopo non so che fare. Non ho ben capito.

  7. Veronique, spero che tu abbia risolto….ero via e apro Nazione Indiana solo ora. In più so così poco di queste cose.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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