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Generazione verità

di Cesare Buquicchio
Ci vuole un rinnovamento generazionale e ci vogliono nuove idee. Sono ormai tanti gli appelli, i ragionamenti, le analisi, i confronti, che da mesi, forse da anni, intorno a questi due punti trovano una sintesi. Più la crisi politica, culturale, morale del Paese degenera, più questi discorsi si fanno frequenti. Meno scontato appare, forse, fare il passo successivo: definire i soggetti e i contenuti che quella sintesi dovrebbe esprimere.    Le generazioni finora al potere non ci hanno consegnato (se mai si decideranno a farlo) un Paese in buone condizioni. Ma l’impressione è che ai figli non basterà un “processo” alla generazione dei padri per salvarsi e per salvare l’Italia. Per evitare di finire solo per fare discorsi anagrafici o semplicemente sostituirsi alla generazione più anziana, si tratta di ragionare attorno ad un nuovo mito fondante della moderna società che inizi a riconoscere modi e metodi differenti da quelli affermatisi finora.  Serve verità  e serve che l’Italia diventi adulta. I figli dovranno trovare metodo e coerenza per diventare, e far diventare, tutti (vecchi compresi) finalmente adulti. Per farlo dovranno forse imparare a “sapersi raccontare” come una generazione un po’ più conservatrice (e morale) e un po’ meno spensierata, che si fa carico della crisi e degli errori del passato superando i luoghi comuni e le ipocrite schematizzazioni che bloccano un reale rinnovamento. Più vicina ad alcuni valori dei suoi nonni che a molti di quelli dei suoi padri. Dovrà riscoprire il rispetto per le regole e l’arte di trovare soluzioni giuste perché efficaci, invece che efficaci perché giuste, ai problemi della modernità.

Serve, dunque, una reale discontinuità. Per essere realmente rivoluzionaria, questa generazione, dovrà hegelianamente negare se stessa e gli schemi entro cui si muove. La questione, per i giovani, per chi fa cultura, per chi fa politica o per chi fa informazione, non è scegliere al ribasso tra le alternative che vengono ora offerte, oppure procedere per sommatorie “gentili” raccattando qua e la elementi condivisibili, ma è rompere i confini dello schema della scelta. Andare oltre. Parafrasando Slavoj Zizek, un pensatore critico che si rivela particolarmente adatto a questi ragionamenti, quella che occorre oggi non è una sostituzione, non è l’operaio senza il capitalista, non è il giovane in un mondo in cui i vecchi si fanno da parte, è la trasformazione, è smettere di essere operaio, smettere di essere giovane, smettere di essere di destra o di sinistra e, una volta compiuta questa negazione, operata questa discontinuità, ricominciare da zero e in modo nuovo ad essere operaio, giovane, di sinistra o di destra, ecc… In questa chiave, tra molti “under 40” (non li chiameremo giovani perché  continuare a chiamare giovane chi ha passato i trenta si rivela spesso un espediente linguistico che aiuta a screditare le istanze e le necessità che vengono avanzate), e non solo, si iniziano già a intravedere segnali di una nuova consapevolezza. Interventi, a volte più decisi, a volte più timidi, che mettono in discussione l’ipocrisia di certi schemi retorici e l’arretratezza di griglie ideologiche inadatte al mondo di oggi.
Si può  citare la provocatoria proposta dell’economista Marco Simoni che ha invitato la Cgil ad abolire il “concertone” del 1° maggio per usare “le stesse energie mediatiche, finanziarie, politiche per la vita dei giovani lavoratori italiani”; il ruvido e liberatorio appello dello scrittore Nicola Lagioia sul Sole24Ore a “chiamare le cose con il proprio nome”, a riconoscere senza catastrofismi e lamentele che l’Italia è ormai stabilmente arretrata nel “secondo mondo” ma che solo una “generazione talmente forte” da saper ammetterlo e “abbastanza coraggiosa da provare non la vergogna, ma finalmente l’orgoglio di essere sopravvissuta emotivamente agli ultimi vent’anni, possa aiutarci a ripartire”; la lucida analisi dell’editor Federica Manzon (sulla rivista Nuovi Argomenti) su quanto pregiudiziale e snobbistico sia criticare sempre e comunque il successo di mercato delle opere culturali italiane; le intuizioni filosofico-linguistiche su come superare la dittatura retorica di Berlusconi e del berlusconismo che lo scrittore Christian Raimo ha esposto su il Manifesto lo scorso 25 agosto; le acute riflessioni di Antonio Pascale (nei suoi ultimi due saggi per Laterza e Minimum Fax) sulla mancanza di verità nella politica e, soprattutto, nella comunicazione italiana. E e non ci si riferisce agli scontati monologhi di Emilio Fede o ai titoloni de Il Giornale, ma, ad esempio, alle vere e proprie leggende metropolitane su Ogm o nucleare spacciate per attendibile informazione scientifica, oppure ai moralismi a corrente alternata di grandi giornali su molteplici temi; oppure, sempre sullo svilimento della verità, gli interessanti spunti raccolti e commentati da Giorgio Fontana (il Manifesto 12 agosto 2010). Ecco alcuni nomi e alcune idee forse utili a riempire di contenuto i tanti appelli al rinnovamento. Può farci sentire meno soli constatare che questa voglia di lasciarsi alle spalle certe generazioni e i loro logori argomenti non sia solo italiana, ma è parte di un processo che caratterizza molti dei paesi dell’occidente, anche se, come spesso accade, qui da noi trova delle ricadute particolarmente significative.
Un interessante dibattito è nato in Inghilterra dal libro “Il Furto: come i baby boomers rubarono il futuro ai loro figli” di David Willetts. Negli Stati Uniti il confronto tra generazione del baby boom e generazione X ha trovato una sintesi nel libro di Jeff Gordinier “Come gli X salvano il mondo” in cui si racconta di come “mentre i nostalgici patologici baby boomers sono indaffarati a buttar giù Viagra e a combattere all’infinito per il loro posto al sole, i nati dopo gli anni ’60 fanno il lavoro duro e silenzioso che impedisce all’America di soccombere ma, ciononostante, restano ancorati alla definizione di massa di bamboccioni”. Negli ultimi vent’anni, scrive sempre Gordinier, gli X hanno cambiato la cultura e il business, hanno inventato Google e Wikipedia e ci hanno dato Obama e Dave Eggers.
Certo, in Italia non possiamo vantare risultati così eclatanti (anche per un sistema economico e politico che, a sua volta, stenta a diventare adulto), ma anche da noi, non si fa fatica a rintracciare una spina dorsale composta da giovani X che, faticosamente e con pochissimi riconoscimenti, tiene in piedi il Paese. Piuttosto, per citare i “casi” Saviano e Serracchiani, quando gli X emergono in modo così clamoroso, fanno poi fatica a rimanere a lungo distanti e “alternativi” al sistema di potere saldamente nelle mani dei vecchi e ne vengono incanalati. “Il metodo degli X è mettere tutto sul tavolo, esigere trasparenza, analizzare i dati e prendere decisioni in funzione di queste analisi. È una generazione stanca delle ideologie: anche se ne condivide gli ideali, difficilmente sentiremo Obama parlare di ‘terza via’, come Clinton. Stanca anche della ragione ideologica, per cui esistono le soluzioni, prima dei problemi” spiegava l’economista e demografo Neil Howe, intervistato all’indomani delle ultime presidenziali Usa. Proprio Obama ci fornisce spunti interessanti su come mettere i problemi sul tavolo e trovare le soluzioni più adatte. Obama da una parte investe decine di miliardi di dollari per far diventare gli Usa i primi nel settore delle energie rinnovabili, dall’altra investe altre decine di miliardi di dollari per nuove centrali nucleari (pensando anche magari anche al futuro e alla fine del petrolio…). Da una parte apre a nuovi massicci flussi di immigrazione, dall’altra fa severe politiche di selezione di immigrati qualificati e altamente specializzati in materie scientifiche. Da noi, per restare al nucleare e alla mancanza di verità della politica, viviamo il paradosso che i due partiti principali sono di base entrambi favorevoli alle centrali ma lo dicono solo quando sono al governo, professandosi contrari quando vanno all’opposizione… E’ per questo che forse uno dei compiti principali per le nuove generazioni, per chi si trova e si troverà sempre di più alle prese con un situazione pesante da portare sulle spalle c’è soprattutto una cocciuta ricerca e riaffermazione della verità che faccia piazza pulita delle chiacchiere accumulate da generazioni ancora impegnate in uno scontro da guerra fredda sempre più fuori dal tempo.
Per passare finalmente da “l’immaginazione al potere” a “la verità  al potere” occorre ragionare su soluzioni pratiche per la politica, per l’economia, per il mondo del lavoro, ma tutto questo rischia di essere inadeguato se non si compie una sorta di rivoluzione in campo culturale. È una questione di modelli, di immaginario, di consapevolezza e di educazione.
Accanto a questo si dovrebbe imparare a contrapporre uno slancio mitopoietico alle tante narrazioni che la generazione dei padri ha saputo creare e imporre (a cominciare proprio dalla retorica della rivolta e della rivoluzione che rischia, a sproposito, di far sentire sempre inadeguata e “ritardata” qualsiasi generazione di figli a confronto con i padri). Forse serve una orgogliosa e poco lamentosa “generazione dei tempi difficili” per usare la definizione coniata per i giovani del primo dopoguerra (che, non a caso, in mancanza di risposte e narrazioni efficaci, si fece abbindolare dal fascismo) e va chiarito subito che comunque toccherà a loro superare queste fasi complicate della storia del nostro Paese, quindi il “come” farlo dovrebbe essere deciso da loro (con l’inestimabile consiglio di qualche vecchio saggio) e non sempre e soltanto da chi ha un curriculum ricco di fallimenti.

(pubblicato su l’Unità)

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4 Commenti

  1. “I figli dovranno trovare metodo e coerenza per diventare, e far diventare, tutti (vecchi compresi) finalmente adulti”

    :)

    la fu

  2. Pensare di diventare grandi da se stessi no ?..

    ..dovete sempre rompere i coglioni ai giovani… che dovrebbero riuscire a fare quello che voi ancora oggi non siete riusciti a fare: diventare grandi ?

  3. Se mi posso permettere, un buon segnale di cambiamento sarebbe anche inziare a scrivere in modo piu’ chiaro. Non sono un letterato ma posso dire che mi occupo di numeri e parole per lavoro, e ammetto che riesco a leggere solo a fatica l’articolo qui sopra. Troppo convoluto.
    Se vogliamo illuminare la realta’ bisogna partire dall’essre chiari in come ci si esprime.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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