Agorà
Tempo di lettura: infinito
Dopo i successi di Apri gli occhi, The Others, Mare dentro, il grandissimo regista spagnolo Alejandro Amenabar si presenta con questo colossal sull’antica Grecia: la storia della morte di Ipazia, o meglio dello sviluppo del cristianesimo ad Alessandria nel 391 d.C. (se vi state chiedendo il perché del titolo, interrogatevi sul fatto che se Amenabar l’avesse chiamato “sviluppo del cristianesimo nell’Alessandria del quarto secolo dopo Cristo” avrebbe avuto pochissimi spettatori. Ma d’altronde sempre più di quelli che ha avuto chiamandolo Agorà).
La storia è questa: Ipazia fa la professoressa di scienze naturali. Si mette lì e insegna a una classe fatta di soli uomini. Chiunque abbia visto un solo film con Pierino sa come andrà a finire la faccenda. Ma aspettate, aspettate, non precipitiamo le cose. Ci sarà tempo anche per quello (non a caso il film dura 127 minuti). Ipazia insegna cose formidabili, tipo: “quando lasciate cadere un oggetto per terra, questo cade verticalmente, proprio davanti a voi. Guardate, avvicinatevi. Non c’è trucco, non c’è inganno”. Oreste (Oscar Isaac), uno dei discepoli, viene conquistato da questa cosa, e si innamora della bella Ipazia (che è interpretata da quel bel tocco di Rachel Weisz, che non sarà certamente una bellezza clamorosa, ma che per il quarto secolo d.C., e per giunta in Grecia, era una sventola eccezionale). Lui allora fa presente alla “signora” che vuole possederla e lei gli consiglia di darsi alla musica. Il tutto si svolge sotto gli occhi di Davo (Max Minghella) un giovane ragazzo, che si rivelerà brillante nelle scienze, che però si trova nello status di schiavo a causa delle sue folte sopracciglia. Davo è di proprietà di Ipazia, ma la ama quando nessuno guarda. Ovviamente viene ignorato dalla donna (è un po’ come se il vostro tritarifiuti fosse segretamente innamorato di voi, non ci fareste molto caso). Davo quindi, quando sente che Ipazia dice a Oreste di darsi allo studio del flauto doppio invece di farsi le segaos (così si chiamavano nell’antica Grecia) su di lei, si fa una risatina alla Muttley e pensa di avere qualche chances.
Ipazia è la classica aristocratica. Ha una serie di schiavi, tutte le comodità del mondo, una bella piscina riscaldata a cui spesso si affida, uscendo dall’acqua solfo-iodica tutta nuda e facendosi coprire proprio da Davo. Ogni tanto, poi, il panno che la copre scivola giù, proprio davanti a lui a cui esce il vapore dalle nari. “Oh, Davo – comincia Ipazia – vedi? le cose lasciate cadere vanno giù, proprio a perpendicolo rispetto al suolo. Ma… mi segui Davo? a cosa stai pensando, ti vedo paonazzo e gli dei mi fulminino se non hai le sopracciglia arricciate”. Gli dei. L’argomento centrale del film. In quel periodo si sta affermando il cristianesimo.
Un tale, chiamato Ammonio, è il più sozzo e violento di tutti i cristiani di Alessandria, e quindi fa il predicatore. Questo qui è uno che vede le statue degli dei greci e comincia a mimare di farci pipì sopra e gli tira le pummarole, nonostante il fatto che gli dei greci siano tanti e di granito e il suo dio sia solo uno e invisibile. Ora, in particolare, mentre sta predicando in piazza che il suo dio è meglio degli altri e chi non è d’accordo deve convertirsi o morire trapassato da spade arrugginite, decide di fare un gioco. Sfida uno dei sacerdoti greci a camminare indenne in mezzo al fuoco invocando il suo dio (Il dio Estintore, in particolare). Anche lui farà lo stesso e quello che alla fine somiglierà di meno a tizzone avrà vinto, e il suo dio sarà il vero dio. Ma mentre Ammonio fa come Giucas Casella e corre velocissimo sui carboni ardenti attento a schivare le fiamme, tenendosi la tunica fra i denti in modo che non prenda fuoco e sfruttando le lunghissime unghie dei piedi a mo’ di trampoli, al sacerdote greco, essendo da sempre attento alle cose del mondo, viene in mente invece che i tessuti e la carne umana sono oggetti infiammabili, e quindi esita. I cristiani, che sono misericordiosi, decidono di aiutarlo a superare questa sua titubanza afferrandolo e gettandolo di peso fra le fiamme. Quasi ci lascia le penne. Tutti i presenti esultano e sono pronti a sottoscrivere questa religione anti-incendio. Sicché il cristianesimo prende piede in Alessandria, mentre continuano le lezioni di Ipazia ai suoi discepoli. Anche in quei momenti però, ci sono contrasti religiosi. Il giovane Sinesio (Rupert Evans) è cristiano, e non è d’accordo su certe cose (boh, non mi ricordo) che riguardano il posizionamento della Terra nell’Universo e va in contrasto con Oreste, che intanto non fa che soffiare notte e giorno nel suo flauto doppio. Ipazia cerca di dirimere queste controversie con una sua memorabile frase: “Come diceva Euclide, se due cose sono simili a una terza cosa, allora sono simili tra loro, voi siete simili a me, discepoli, quindi siete simili tra voi”. Sinesio e Oreste sembrano convinti della spiegazione. Davo guarda Sinesio con un occhio particolare, pensando al fatto che lui sia simile a Ipazia, e si prefigge di passare un po’ più di tempo con lui in sauna. Intanto, però, viene anche lui conquistato dalla causa cristiana.
Mentre infatti sta recandosi a casa con una sporta di pani belli freschi da consegnare al suo padrone, vede che alcuni poveri storpi puzzolenti e appestati stanno in una specie di catapecchia e sono curati dai cristiani. Ammonio nota il ragazzo e lo convince di quanto sarebbe bello che lui donasse i suoi pani ai poveri. Davo però, sulle prime, gli risponde “Eh, ma il pane non è mio. Poi dovrò ripagarlo al mio padrone con i miei soldi”. “Ma cosa vuoi che siano dei soldi rispetto all’amore per una creatura di dio. I soldi non sono niente. Dalli pure a me, non temere” gli risponde Ammonio, istituendo storicamente il mille per mille (poi, nei secoli, una serie di trattative con lo Spirito Santo hanno abbassato questa quota, arrivando al moderno 8 per mille). Davo è indubbiamente uno sveglio. Di giorno studia e fa lo schiavo e di notte, oltre a passare molte ore a titillare l’alluce di Ipazia mentre lei dorme, costruisce il modello tolemaico di rivoluzione dell’Universo con tanto di epicicli. Ipazia è molto colpita da questo modello, addirittura lo porta davanti a tutta la classe chiedendo a gran voce un applausone. Oreste è così stupito che quasi stacca le labbra dal suo doppio flauto mentre Sinesio, guardando quel pregevole manufatto, pensa a come sarebbe bello imporre il cristianesimo anche sulle stelle fisse e financo sul Sole (tanto i cristiani sono ignifughi). Davo nel frattempo è diventato pure lui cristiano, come si diceva, e non è il solo. Il cristianesimo si diffonde proprio di brutto, i cristiani fanno marameo alle statue degli dei greci, gli fanno il solletico (“Vedete, non ridono!” “Prova con una barzelletta delle tue!”), sottolineano che invece il loro dio è vivo e vegeto, è attivissimo, solo che, purtroppo, è invisibile sennò ve la farebbe vedere lui. I saggi greci, uomini di veneranda età, decidono che la misura è colma e quindi bisogna passare a fil di spada tutti i cristiani. Danno l’ordine, ma non si rendono conto che sono in minoranza (i cristiani sono ormai tipo un miliardo – pare che Ammonio abbia anche fatto il miracolo di moltiplicare pani, pesci e cristiani), e quindi dopo un primo successo dovuto all’effetto sorpresa, le scarne milizie pagane greche (a cui appartiene anche Oreste) devono battere in ritirata e rifugiarsi nella Biblioteca di Alessandria. Oreste, intanto, è furiosissimo, perché ha fatto la dichiarazione pubblica a Ipazia ma lei gli ha risposto dandogli un fazzoletto intriso di sangue. “Vedi, Oreste, questo è il sangue del mio ciclo. Non sono perfetta come tu pensi” gli dice Ipazia, sdegnosa. “Ehi Ipazia, te lo faccio passare io il mestruo” risponde Oreste, solo che la risposta non si sente perché è costantemente impegnato a zufolare. Insomma, dopo tanto corteggiamento, Oreste si ritrova con in mano un pugno di mosche, un assorbente usato e una fottuta abilità da pifferaio di cui non sa che farsi. E’ proprio il caso di andare a tagliare in due qualche cristiano, donne e bambini soprattutto. Però, come si diceva, finisce maluccio, e i cristiani, dopo un assedio, riescono a penetrare nella Biblioteca e fanno razzia. Alessandria si deve arrendere al cristianesimo. Ah, in tutto quel casino, Davo tenta di violentare Ipazia ma non impenna, e lei lo libera dalla schiavitù per andare a farsi curare.
Finisce il primo tempo. Dato che ho visto questo film su una gradinata all’aperto, mi sgranchisco le chiappe con gioia osservando gli insetti che, nel momento in cui accendono la luce, cadono in picchiata su noi spettatori organizzati come la Luftwaffe, e da cui mi difendo dichiarandomi non ebreo. Sono però sinceramente preoccupato per la sorte di Ipazia che è l’unica donna che prende la parola per tutto il film (se naturalmente escludiamo quella, fastidiosissima, accanto a me) e che quindi mi sa che sarà duramente ridotta al silenzio. Ripresa. Sono passati molti anni. Oreste è diventato prefetto di Alessandria ed è cristiano, Ipazia è invecchiata di 15 minuti, il padre di Ipazia è morto (era stato preso a bastonate da un suo schiavo che si era giustificato con lui dicendo “Ehi, niente di personale, ma io sono cristiano” ed era poi stato annientato dalla setticemia), Sinesio è diventato Vescovo di Cirene, Davo fa parte dei parabolani (cristiani molto zelanti che si danno da fare portando Cristo a suon di mazziatoni, e che non a caso sono particolarmente animati dall’irriducibile Ammonio) e fa la sua comparsa Cirillo, il vescovo di non mi ricordo dove (però è un vescovo importante). Le cose ad Alessandria ora vanno tutto sommato bene. Ipazia trova anche il tempo di condurre i suoi esperimenti sulla caduta dei corpi sulle barche a vela, in mezzo al mare, mentre prende il sole con Oreste, facendo però bene attenzione a non dargliela mai. E’ diventata una delle donne più influenti di Alessandria, ed è gran consigliera del prefetto Oreste, che infatti nel frattempo ha imparato a suonare il clavicembalo, il basso tuba, la zampogna e la coda dei mufloni (quando non sono in calore). Praticamente tutta Alessandria è cristiana, quindi non ci sono problemi, direte voi. Illusi. E gli ebrei, allora? I cristiani, finite le statue degli dei greci da insozzare, hanno preso a insultare e perseguitare i pochi ebrei della città. “Avete ucciso Cristo!” “Sì, ma Cristo era ebreo! Lo sapeva che alla fine quello che le prende è sempre l’ebreo!”, erano discussioni che spesso si sentivano in giro, nell’Agorà (in piazza). A un certo punto, però, a qualche ebreo viene in mente un’idea brillante per porre fine a tutte quelle angherie. Attirano con una scusa i parabolani in una trappola (gridano: “Al fuoco al fuoco!”, i parabolani escono fuori ansiosi di gettarsi fra le fiamme per dimostrare che non bruciano, e finiscono in un cul de sac in cui restano malamente imprigionati) e ne lapidano una gran parte dall’alto. Ipazia accoglie la notizia con immenso dolore. “Però questa è la riprova della mia teoria degli oggetti che cascano verticalmente quando vengono lanciati, voglio farvelo notare” dice in pieno consiglio greco, presieduto da Oreste. Il Vescovo Cirillo la prende un po’ peggio. “Non piangete per i nostri morti. Piangete per come adesso ridurremo gli assassini, battezzando le nostre spade nel loro sangue”.
Ipazia suggerisce a Oreste di far internare Cirillo che, a suo giudizio, è completamente fuori di melone. Oreste, che sta imparando il clarinetto, è distratto e non comprende appieno la reale pericolosità di Cirillo, ma ci pensa quest’ultimo a chiarire le cose. In una riunione davanti a tutti, accusa Ipazia di non essere sottoposta all’uomo, secondo quanto scrive San Paolo: “La donna in assemblea si taccia. Non comandi, non insegni, si vesta condegnamente. In pubblico e in privato sia così, perché fu Eva che fece peccare Adamo e quindi ora, per Cristo, chiuda il becco!”. Oreste, però, vuol bene a quella donna da cui non l’ha ancora avuta, e non intende onorare le parole di quel sant’uomo di Paolo, e quindi Ammonio – che è sempre pronto a riportare il peccatore sulla retta via – gli scaglia in fronte un masso che lo fa svenire sanguinolento.
Davo, intanto, assiste a tutto questo esterrefatto. Il gesto viene però punito, e Ammonio è condannato a morte. Lo buttano da una rupe, ma lui non muore. Lo chiudono con tre gatti in un sacco tagliandogli il naso per pietà (si sa che puzzano incredibilmente, quelle bestiacce) ma lui si mangia i gatti e ne esce trionfante, lo mettono con la testa ripetutamente nel water (non pensano nemmeno, a bruciarlo), alla fine gli piantano un paletto di frassino nel cuore e lo decapitano e lui muore. Lo seppelliscono (ndr.: la testa di Ammonio, durante il funerale, cerca invano di riattaccarsi al corpo) e Cirillo, con raro buongusto, lo dichiara santo per aver cercato di accoppare Oreste. Per non consumare una frattura nella cristianità, Sinesio dice a Oreste di dire a Ipazia che deve stare più zitta e deve obbedire a qualunque cosa gli dica un uomo (la cosa solletica le fantasie di Oreste), cioè deve diventare cristiana. I due si precipitano di corsa da Ipazia per dirgli questa cosa, ma lei dice di avere fede nella scienza, e non in Dio “un essere che non so nemmeno che traiettoria segue, quando cade”. Oreste, dalla rabbia, spacca il suo clarinetto e Sinesio fa l’ultimo tentativo ricordando a Ipazia che “se lei è simile a due cose, allora le tre cose sono simili. O meglio, essendo simile a una delle due cose, allora le cose sono tre, e sono simili a qualcosa. Insomma, mi hai capito”. “Sinesio, discepolo mio, hai la nebbia, in quel tuo cranio ottuso. Ti boccio” è la risposta definitiva di Ipazia.
Mentre se ne ritorna a casa pensando a quale forma possa avere l’orbita terrestre, viene catturata dai parabolani che vogliono trucidarla. La portano in una specie di tempio e lì, prima di ucciderla, la spogliano nuda (parabolano sì, ma fesso no). A quel punto, attirato dalle natiche di Ipazia, si materializza Davo, che con un gioco di sopracciglia riesce a convincere i parabolani con i coltelli frementi in mano che è il caso di non ammazzarla così. Meglio andare a prendere delle pietre e lapidarla. Gli altri vanno allora a raccogliere sassi aguzzi e lui resta da solo con lei. Si guardano un secondo, e Ipazia capisce il suo destino. Ma prima di morire, vuole dire a Davo che la terra si muove su un’orbita ellittica. Mentre sta per pronunciare la parola ELLISSE, Davo le mette una mano sulla bocca per soffocarla. Lei allora si dimena, fa per liberarsi, ma Davo, con le lacrime agli occhi, tiene la presa ben salda. “Non voglio liberarmi, idiota! Voglio solo dirti che la terra si muove su un’ellisse e poi morire! Fesso!” pensa Ipazia, mentre Davo serra la bocca con forza sempre maggiore, mentre l’altra mano…
Ed è così che muore Ipazia. Ed è questa la fine che fanno tutte le donne a cui è impedito di parlare.
Giudizio critico: ottima fotografia, riprese degne di Google Earth, ma scarsini i dialoghi. Finale affrettato, forse Amenabar si era reso conto di essere arrivato a 2 ore e passa, e a un certo punto ha deciso di tagliar corto. Proprio come farò io ora..
I commenti a questo post sono chiusi
al di la di questioni stilistiche, storiche e quant’altro, mi ha colpito il fatto che nella versione in inglese ipazia dice:
“I believe in philosophy”,
poi mi è capitato di vedere un trailer in italiano e la frase viene doppiata con:
“io credo nella ragione”.
qualcuno ha un’opinione sul perchè?
matteo
Io credo in questa recensione.
Stefano Pisani, bastano le prime dieci righe della tua, si fa per dire, recensione per capire che non vale la pena di seguirti oltre. Agorà è ottimo prodotto.
[…] This post was mentioned on Twitter by Ebarche.it, Francesco Cingolani. Francesco Cingolani said: Agorà: di Stefano Pisani Tempo di lettura: infinito Dopo i successi di Apri gli occhi, The Others, Ma… http://bit.ly/aykxBr #letteratura […]
Maurizio, lo credo anch’io. Vai oltre le prime dieci righe, e scopri perché.
Senza nessun risentimento.
Improduttivo, grazie :)
Anche se non è una recensione, eh. Si capisce dalla traiettoria che segue se viene lasciata cadere, all’improvviso. Va verso l’alto. ;)
A me è piaciuto.
il post intendo..(.)
ops, ci tornerò su
Ares, ben gentile :)
l’unico appunto ad amenabar è l’edulcorata fine di ipazia, che fu, invece, scuoiata viva. i suoi carnefici usarono delle conchiglie per scarnificarla.
un appunto anche a Stefano Pisani: due ore e passa di post, troppe!
Finalmente una recensione come si deve, anche se mi sembra un po troppo lunga
giusto uno a caso:
I due si precipitano di corsa da Ipazia per dirgli questa cosa
I due si precipitano di corsa da Ipazia per dirle questa cosa
Ipazia: il martirio del paganesimo
Il massacro della filosofa Ipazia ad opera di fanatici cristiani nel 415 è uno degli episodi più orrendi della storia del pensiero.
Il film Agorà del regista cileno Alejandro Amenàbar narra la vicenda rendendola nota al pubblico di massa. Il film naturalmente risponde a esigenze spettacolari, per cui la ricostruzione delle vicende è assolutamente fantasiosa e arbitraria, ma certamente si deve riconoscere a questa pellicola una vis polemica che se non altro muove le acque di uno scenario culturale intorpidito oltremisura.
La prima parte del film è decisamente ispirata a Nietzsche e richiama le grandiose pagine de L’Anticristo che descrivono la psicologia dell’egualitarismo monoteista: una folla di fuori-casta, un gregge di mediocri gonfio di odio e di risentimento assalta l’aristocrazia pagana arroccata nella biblioteca di Alessandria. Quando i cristiani fanno irruzione nella sala centrale della biblioteca, la telecamera offre una suggestiva inquadratura ribaltata, quasi a significare l’inizio di un mondo alla rovescio. E la scena in cui lo schiavo di Ipazia tenta di violentare la sua padrona è una esemplare immagine del nauseante livore che anima le ideologie progressiste!
La seconda parte del film, invece, mette in scena uno scontato cliché della cultura dominante: i cristiani, dopo aver messo fuori gioco i pagani, se la prendono con gli ebrei. Ovviamente il regista vuole accreditare l’idea dell’ebreo come eterna vittima innocente: forse sarebbe meglio far riflettere il pubblico sul fatto che il monoteismo biblico è un’invenzione ebraica…
La terza parte del film è sicuramente la meglio riuscita perché mette in scena il dramma umano di Ipazia, ormai ultima pagana isolata e abbandonata da tutti coloro che un tempo le erano amici, e tuttavia decisa a non rinunciare alla sua libertà di coscienza. La scienziata, com’è noto, sarà vittima sacrificale di un gioco di potere fra il vescovo Cirillo e il prefetto Oreste.
Il film è un kolossal di grande impatto, e si avvale anche di un originale utilizzo della macchina da presa che spesso parte dall’inquadratura dell’intero pianeta per poi stringersi al delta del Nilo e al leggendario Faro di Alessandria. Sebbene, come si è detto, la vicenda sia trattata in maniera molto superficiale, questa pellicola è comunque una buona occasione per riflettere sulle radici pagane dell’Europa.
Il passaggio dal paganesimo al monoteismo è stato un fenomeno estremamente complesso e non riducibile a facili generalizzazioni, tuttavia ha rappresentato indubbiamente un trauma psicologico che ha messo in atto la più grande rivoluzione di tutti i tempi nella storia della coscienza. Proprio per questo la vicenda di Ipazia ci deve ricordare con quanta facilità i monoteismi possano scivolare nell’intolleranza, tanto più in un’epoca in cui nel cuore della stessa Europa ci sono intellettuali colpiti dalla fatwa islamica e storici revisionisti perseguitati dagli ebrei!
Michele Fabbri
http://www.michelefabbri.splinder.com
http://www.centrostudilaruna.it
Agorà, regia di Alejandro Amenàbar, 2009
E’ proprio vero che il sonno della ragione genera mostri! E di questi tempi è vero al cubo. Ora fa tanto “figo” sparare a zero su tutto e tutti, anche sui nobili tentativi di utilizzo dei codici della narrazione cinematografica di massa (nel caso il Kolossal) per riportare un po’ di “ragione” là dove danzano i “mostri” dell’irrazionalità e del cinismo di potere, e demagoghi grandi e piccoli hanno buon gioco nel parlare alla “pancia” e agli istinti belluini più beceri e a all’intelligenza….piatta di tanta umanità. Tutta la filmografia di Amenàbar, giovane regista spagnolo di padre cileno è un interessante esercizio di ricerca laica e razionale, viaggiando attraverso i generi. Qui utilizza il “kolossal neo-epic” per dire una cosa semplice ma essenziale: che è il sonno della ragione, appunto, a generare i mostri dell’intolleranza e della sopraffazione, che si sviluppano proprio sul facile terreno dello scontro politico-religioso-identitario, in quell’ “agorà” (piazza) umana che è la nostra storia, lastricata di lacrime, sangue, merda e violenza, ma anche della “divina silenziosa-come la Terra vista dallo Spazio- angelica” purezza della “ragione” individuale, la sola che ha dato impulso vero al cammino umano. Le inquadrature dall’alto, perfettamente verticali utilizzate da Amenàbar, come nel caso dell’invasione e distruzione della Biblioteca di Alessandria da parte dei parabolani, danno il segno esatto del “punto di vista- commento” della regia : l’uomo in preda alla violenza irrazionale e distruttrice è nè più nè meno come uno “scarafaggio” impazzito che non sa quello che fa: questo, infatti, l’indiscutibile effetto “visivo” di quella inquadratura; ma il “figo” e “anticonformista al cubo” Santini è tutto occupato a “smerdare” il genere, mica ha tempo per queste sottigliezze!
Gli splendidi “stacchi” in dolly cam e camera aerea, che si alza fino a raggiungere il “silenzio” della stratosfera, a sottolineare l’immobilità nel tempo dell’evoluzione degli istinti umani , per poi “rituffarsi” nel “movimento” e nelle lotte di potere degli “umani”, sono un indiscutibile punto di vista autoriale all’interno del “genere narrativo” utilizzato, altro che “google earth”!
Ipazia, donna, filosofa e astronoma , personaggio storico quasi letteralmente “cancellato” dalla storia ufficiale, aveva ripreso e rilanciato la vecchia teoria di Talete sul movimento della Terra intorno al sole e del movimento dei corpi celesti, oscurata dalle più comode verità “ufficiali”, aveva capito e dimostrato il movimento non “sferico”ma ad “ellissi” dei corpi celestiintorno al sole; aveva intuito, dimostrandolo pure, la teoria della “caduta dei gravi” ma non aveva capito ancora che di quello si trattasse; dovranno essere Copernico e Keplero, più di 1200 anni dopo a dimostrarlo; e Newton 1300 dopo, per la caduta dei gravi. Tutto questo, mentre intorno a Ipazia infuriano le feroci lotte di potere da una parte per il consolidamento del Cristianesimo come religione di Stato a danno dell’antica e logora religione politeista (non si dimentichi che da poco c’è stato l’editto di Costantino) e dall’altra per la “prevalenza” degli individui gli uni sugli altri, per affermare il proprio potere (qui Cirillo versus Oreste). Insomma, proprio come “ora”, proprio come “qui”, nell’ hic et nunc del nostro tempo attuale, dove il vento della razionalità sembra essersi disperso tra le tempeste dei conflitti interetnici, religiosi, mentre risalgono dalle fogne della storia i miasmi di un pensiero neo-nichilista e destrorso – e a me pare che questo post di Santini ne sia una grottesca imitazione sotto il manto del “fichismo”- , in barba e in sfregio anche al povere Nietzsche, eternamente strumentalizzato dalla destra e ancora poco compreso dal pensiero di “sinistra”.
Certo, Amenabar utilizza i codici narrativi e i moduli del film “spettacolare”, ma non è un film di puro spettacolo, al contrario esso vuole parlare alla ragione e al cuore di un pubblico il più vasto possibile, a più livelli di comunicazione, per indurlo a riflettere sul “gap” di razionalità in cui sta precipitando il mondo e il pensiero umano, insidiato dagli odierni “parabolani” : l’integralismo islamico, quello teocon, ingessato nella buro-teocratica figura di Ratzinger, e nel feroce cinico e triumphans (ma anche sfiatato e sordido) capitalismo globalizzato e finanziarizzato.
Ma sì, questa Ipazia di Amenàbar mi fa proprio simpatia.
Vi allego qui, un bel commento al film di Michele Martelli :
Ipazia, o della laicità
di Michele Martelli
Agorà, il film del regista spagnolo Alejandro Amenábar, che racconta la tragedia di Ipazia d’Alessandria, è davvero scioccante. Anche per chi su Ipazia ha già letto qualche libro. Perché la potenza delle immagini in celluloide è in grado di suscitare sentimenti, pensieri ed emozioni di una rapidità e intensità tale che nessuna parola scritta può eguagliare. Uscito dalla sala, non puoi non continuare a riflettere sulle vicende narrate nel film. E magari a immaginare in che mondo vivremmo se avesse vinto Ipazia, e non l’episcopo Cirillo. Eh sì, perché la storia di Ipazia si colloca in un periodo di svolta storica, tra il IV e il V secolo d.C., dei cui effetti deleteri, nonostante le moderne Rivoluzioni e l’Illuminismo, il liberalismo e la democrazia, non ci siamo ancora completamente liberati.
Quali le questioni centrali? Quelle che ancora oggi oppongono in gran parte clericalismo e laicità. E cioè: a) il rapporto tra Stato e Chiesa; b) l’autonomia della ragione dalla fede; c) l’eguaglianza giuridica uomo-donna.
Tra il IV e il V secolo, come noto, prima Costantino legittima il cristianesimo, e poi Teodosio I, con l’editto di Tessalonica (380), lo eleva a religione ufficiale dell’impero. La Chiesa si fa Chiesa di Stato. Inizia la caccia alle eresie. I culti pagani sono vietati per legge. Le sacche di resistenza sono gradualmente soppresse. In questo clima si consuma la tragedia di Alessandria descritta inAgorà. Da un lato il vescovo Cirillo, dall’altro Oreste, il prefetto augustale, governatore di Alessandria. Nel primo grande conflitto tra Stato e Chiesa, Cirillo vince, Oreste perde. Non si inginocchia davanti al Libro Sacro brandito da Cirillo come una spada, ma poi si sottomette e infine si dimette. Tutto il potere va al vescovo. I dignitari imperiali costretti a convertirsi. Gli ebrei “deicidi” scacciati. I templi pagani abbattuti, incendiati o trasformati in chiese cristiane. Scompare quel che restava della città-polis greco-alessandrina, simboleggiata nel titolo del film, l’agorà, ossia la metaforica “piazza” della politèia, dove si fa politica, si discute, vota e decide. Cirillo impone la sua dittatura politico-religiosa, ferocemente repressiva e oscurantista. Quante volte, vien da chiedersi, nella storia dell’Europa imperatori, uomini di Stato, governanti e primi ministri si inginocchieranno davanti a papi, vescovi e cardinali? Di schiene piegate di politici pullula la storia occidentale, fino ai ripetuti e ostentati baciamani di Berlusconi a Benedetto XVI. Il quale, in forme e modi diversi da Cirillo, adeguati ai nostri tempi, a che cosa mira con la sua strategia del «reingresso di Dio nella sfera pubblica» se non a perseguirne gli stessi scopi: la sottomissione della politica alla religione, dello Stato alla Chiesa?
Ma dietro Oreste c’era Ipazia. Che non era soltanto l’ultima grande filosofa e scienziata antica, dedita alla matematica e all’astronomia, alla direzione della più rinomata scuola di studi accademici della sua epoca. Era anche un’intellettuale che faceva un uso pubblico della ragione. Possedeva, come si vede nel film di Amenábar, e si legge nel bel libro di Gemma Beretta (Ipazia d’Alessandria, Editori Riuniti, 1993, purtroppo fuori commercio), la virtù greca della parrhesìa, cioè la capacità di parlare e agire in pubblico, nella sfera pubblica, e in particolare tra i dignitari e i potenti della città, per discuterne le scelte e le decisioni. «Se non è il cristianesimo, qual è il tuo criterio di giudizio», le chiedono malevoli i funzionari imperiali. «La filosofia», risponde Ipazia, ossia la ragione, la libertà e l’autonomia della ragione da ogni credo, dottrina e dogma religioso. La risposta di Ipazia, che precorre quella famosa di Kant alla domanda Che cos’è l’illuminismo?, è di una modernità straordinaria. Non solo infatti la laicità dello Stato, ma il pensare e il vivere civile dipendono dall’autonomia della ragione, di ciascuno e di tutti, e dal suo uso pubblico e critico contro ogni forma di autoritarismo e assolutismo. Il contrario delle ambizioni teocratiche di Cirillo alessandrino, fanatico e violento assertore dell’assolutezza della Verità e del potere clericale, come poi sosterranno tanti futuri papi e vescovi cirillici, fino ai tempi nostri. Se avesse vinto Ipazia, facile e felice profezia, non avremmo avuto il caso Galilei. E nemmeno il caso Darwin. Né Crociate, Inquisizione, guerre di religione e Concordati. La fede sarebbe rimasta una questione privata dei fedeli. Separata dalle loro libere scelte politiche.
Ipazia studiava e ricercava, parlava e agiva «senza vergognarsi di essere donna». Donna che conta, tra uomini che contano. Anzi, a loro superiore per conoscenza e saggezza. Come osava? Cirillo, malato di misoginia come Paolo di Tarso, non poteva che odiarla. La donna? Un essere inferiore e peccaminoso, l’Eva tentatrice, alleata di Satana. Da zittire e sottomettere al maschio, prima e vera immagine di Dio. O da eliminare. Per Cirillo, ad eccezione della Vergine Mariatheotòkos, Mater Dei (fu santificato per la formulazione di questo dogma), l’inferiorità della donna è un dato naturale, indiscutibile. Come lo è nella dottrina e nella struttura della Chiesa. Nella teologia femminista circola la “leggenda di S. Bernardo”: «Si racconta che stesse pregando davanti all’altare della Madonna. Improvvisamente Maria apre la bocca e comincia a parlare. “Taci, taci!” grida disperato S. Bernardo, “le donne non possono parlare in chiesa”» (riportato in nota da Beretta, pp. 266-267). Né in chiesa né fuori, in verità. Perciò Ipazia doveva scomparire. «Sia lapidata a morte!», forse disse Cirillo. Certo, fu il mandante morale dell’assassinio. Su cui il regista del film stende un velo di pietà. Inventando Davos, lo schiavo innamorato, e l’epilogo del soffocamento. Altro dicono le fonti: tirata giù dal carro dai parabalani inferociti, fu denudata e scarnificata viva «con i cocci», gli furono cavati gli occhi, poi fu «fatta a pezzi membro a membro», e infine i resti vennero bruciati al Cinerone. Come i preziosi libri della biblioteca alessandrina del Serapeo. Fanatismo religioso, disprezzo del libero pensiero e rogo di libri proibiti, talvolta con i loro autori, sono stati una costante della passata storia della Chiesa. Che, pur messa alle corde dal moderno processo di secolarizzazione, tuttora continua però a ritenersi, come il suo santo Cirillo, depositaria della Verità di Dio.
In un calendario laico, Ipazia sarebbe la prima martire e santa.
(10 maggio 2010) da Micromega
errata corrige: è chiaro che l’autore del post è PISANI, non Santini, come da me erroneamente riportato. Ma, si sa, parlando di…santi, ci si imbatte nei santini!
Scorro rapidamente.
@natàlia castaldi: spero tu stia scherzando :))
@antonio carbone: ti ringrazio, ma ribadisco che non è una recensione (almeno non una ortodossa) :)
@Stolas: ecco, questa è una recensione.
@Salvatore d’Angelo 1: ehi, ma quel Santini è proprio un cattivone!
@salvatore D’Angelo 2: ecco un altro bel commento serio sul film.
@Salvatoire D’angelo 3: ehi, ma quel Pisani è proprio un cattivone!
per natàlia (sennò sembro prendere sottogamba il suo rilievo): hai altri errori di distrazione da segnalare? Perché si tratta di errori di distrazione, lo avrai ben compreso (spero).
era un uomo Ipazia? no, non scherzavo.
ma se vuole le allego anche io le faccine sorridenti. :)) ecco. buondì.
oh, ci siamo “accavallati”, dovrei rileggerlo tutto per risponderle puntualmente.
sì, capisco i refusi da distrazione, ci mancherebbe. e capisco anche che il testo è stato scritto volutamente in maniera discorsiva ed ironica. ma non mi piace, non mi piace il testo complessivamente.
Il ragionamentino di Pisani, sarebbe anche condivisibile. Ma perché, Signor Pisani, usa la forma umoristica che non è nelle sue corde, forse in ragione della giovane età? L’umorismo è una cosa seria, serissima, che rimanda, dovrebbe rimandare, alla leggerezza di una superiore saggezza umana, che il testo qui presentato non sfiora neanche. Si vuol forse candidare a scriver testi per Zelig passando da Nazione Indiana? Certo non avrebbe tutti i torti, vista la piega del qui facentesi dibattito intorno al lavorare o non lavorare per le imprese del Presidente del Con Piglio Italiano.
@natàlia: e dica che non le piace il testo nel suo complesso. Così diventa utile. Non penso che farei cosa utile se le dicessi che dopo il punto, nei commenti, va la maiuscola. Non facciamoci i dispettucci, bellina :)))
@Larry: se l’umorismo per lei è “Presidente del Con Piglio”, che dio me ne guardi. Se lo tenga, buonuomo, se lo tenga.
@Stefano Pisani
Con Piglio è solo un gioco di parole assolutamente pertinente in questo contesto. L’umorismo al quale mi riferivo è magari quello di Swift, Sterne, Twain, Hasek, Charms, se vogliamo quello di Giorgio Manganelli. Complimenti per la sua coscienza di paglia. Avevo detto Zelig, ma forse sbagliavo, lei mi pare già maturo per l’avanguardia squadristica di Striscia la Notizia.
@Larry: Quanti nomi conosce? Aspetti, prendo appunti. Lei è troppo irascibile. Il suo gioco di parole, a mio parere, è semplicemente inqualificabile. Io non la augurerei nemmeno a Striscia la Notizia. Detto questo, non le vengo a sciorinare i miei punti di riferimento umoristici, né la rimando a settembre. Dobbiamo continuare ancora per molto questo spettacolino?
bellina? grazie.
@Stefano Pisani
Dell’umorismo conosco non solo i nomi. A essere irascibile è lei, io le davo solo un suggerimento, non impertinentemente, dato che lei espone in un sito letterario i suoi scritti nei quali l’intenzione umoristica è dimostrabile, al contrario di quanto avviene nel mio innocuo gioco di parole, forse rivolto ad altri lettori di NI, ma forse anche una trappola rivolta alla sua coscienza di paglia.
Il suo suggerimento “non impertinente” parlava in tono dispregiativo di Zelig e aggiungeva poi altre varie amenità. Senta, francamente, non mi sono soffermato su tutto quello che ha scritto, cerco solo di dirle che se ci si mette a giudicare l’umorismo altrui (non voglio nemmeno discutere i suoi modi, se sia stato impertinente, birbaccione, sbarazzino o compìto) presentandosi con una battuta come quella… ecco… non è proprio il massimo. A prescindere dal materiale di cui è fatta la mia coscienza (meno male che c’è lei che la vede). Saluti.
Santini/Pisani un cattivone? Mannò!
Santini/Pisani un cattivone? Mannò!
Stolas incomincia col piglio della “recensione”, legge anche correttamente l’uso della Mdp da parte della regia, ma poi, come dire, si perde per strada…e finisce per strumentalizzare il punto di vista del regista (Ipazia come simbolo della ragion pura e amore per la ricerca, che spesso viene stritolata dalle lotte di potere di vario genere, soprattutto sul terreno ideologico dell’identità, dell’etnia, della religione, della politica) per ammannire al pubblico dei lettori di destra cui si rivolge (L’associazione La Runa, mi pare) i soliti immarcescibili luoghi comuni/ossessioni sugli “ebrei”, sul “livore progressista” e sui “poveri intellettuali revisionisti” (vale a dire gli intellettuali neonazisti, che confidano sull’oblìo dell’eterno presente e sulla marmellata mediatica -oserei dire anche quella “involontaria dei piccoli “Pisani”, toh-) per provare a farci credere che il Male Assoluto, il tentativo di annientamento di popoli e culture “pretesi inferiori”, in base a un ignobile pregiudizio razziale, sia stata una invenzione, appunto, della congiura marxistaliberalegiudaica e che loro, poverelli, sarebbero “perseguitati”dagli ebrei “cattivoni”.
Ora Stolas è libero di “pensarla” (ma sarebbe meglio dire “di propagandarla” così) , ma -con tutta la buona volontà- non può tentare di farlo dire al film di Amenàbar, o quanto meno forzare il “punto di vista” del film, che va in direzione esattamente opposta, e dar credito a quelle tesi aberranti.
PS. Davo (lo schiavo), dal punto di vista “narratologico” è una pura “funzione filmica”, un “portavoce” della “pietas” dell’Autore-commentatore all’interno della finzione narrativa, del puro meccanismo filmico. Non è un personaggio storico. Nella realtà Ipazia venne uccisa in maniera ancor più atroce e oltraggiante. La pellicola- non si dimentichi che siamo all’interno del genere “new epic”, che ha codici specifici che Amenàbar utilizza in modo corretto e funzionale- proprio perchè non “mero prodotto spettacolare” ma anche autoriale, è ricca di “sottotesti ” e/o “ipertesti”. Ciascun personaggio incarna anche una funzione simbolica all’interno della pura trama. Questo non andrebbe mai dimenticato, dal punto di vista “epistemologico” -per usare un parolone- quando si vuol correttamente riportare ciò che Amenàbar vuol “significare” col suo Agorà.
PPS Quello delle “radici” è un discorso complesso,ma soprattutto oggetto di facili strumentalizzazioni. Si può di certo dire che le “radici” dell’Europa sono nell’ordine: di pura animalità (ante homo sapiens), animiste, politeiste (non userei la parola “pagana”, carica di pregiudizio cristiano), monoteiste-cristiane,e – cosa più attuale e vicina a noi- laiche e illuministe. E da qui, a ritroso – e sul piano “culturale”- scendendo per li rami, impregnate di cultura greco-ellenistico-romana.
INSOMMA, E IN DEFINITIVA, UN FALSO PROBLEMA, come tutte le “querelles” che nascondono scontri ideologici di puro potere. Detto altrimenti : non sono mica le “radici” cristiane o pagane a farci fare passi in avanti sul terreno dell’avanzamento della conoscenza e della ricerca scientifica, eccetera eccetera.
Pisani cattivone? Mannò! Su , che faccia una bella carriera satirica dove più gli aggrada e ne faccia salute!
Statemi tutti bene.
@Salvatore: mi sono un po’ perso tra incisi, parentesi, virgolettati vari, ma ho apprezzato l’augurio finale al commento: grazie!
c’è un “al commento” di troppo
Pisani, ha ragione 8 e me ne scuso: gli inconvenienti di quando si scive di getto e senza reileggere). L’importante è che abbia recepito il finale.
Tastiere bollenti . Repetita :
Pisani, ha ragione e me ne scuso: gli inconvenienti di quando si scive di getto e senza rileggere. L’importante è che abbia recepito il finale.
@Salvatore D’Angelo
è vero che la mia recensione è scritta per un pubblico militante, ma lasciami dire che nella marmellata mediatica ci sguazza molto più la Sinistra che non la Destra. E poi ha davvero senso parlare ancora di cultura di Destra e cultura di Sinistra?
@666,Stolas, Michele Fabbri
“ha davvero senso parlare ancora di cultura di Destra e cultura di Sinistra?”…
Classico argomento destrorso, dai tempi di D’Annunzio.
Tutti “sguazziamo nella marmellata mediatica”. E’ la realtà in cui si vive.
Dunque – e proprio per questo- oggi più che mai è necessario “distinguere”: ciò che è di sinistra e ciò che è di destra, ciò che è razionale e ciò che è irrazionale, ciò che è onesto e ciò che disonesto, ciò che è sincero e ciò che è strumentale, e via distinguendo ( e non confondendo). A prescindere dalle “etichette”… E soprattutto cn un atteggiamento epistemologico corretto. Saluti.
A me sembrava un po’ lungo il post… ma in confronto ai commenti è niente!!! Parlate meno, prolissi!!!
Il post è molto carino. Potrei anche decidere di vedere il film…