Letterarietà

[Dedico questi passaggi di Fortini a degli amici a cui ho pensato, mentro ero intento nella lettura, come fossero il prosieguo di varie discussioni già avute con loro: Alessandro Broggi, Gherardo Bortolotti e Helena Janeczek. A I]

Da Insistenze (Garzanti, 1985): “Per una ecologia della letteratura”, apparso sul “Corriere della sera” del 17 maggio 1984

Franco Fortini

Se ogni opera letteraria si definisce anche, sebbene non esclusivamente, da quel che una società ed un tempo determinato (o per essere più precisi: la classe, e in essa il ceto, dominante in una data società) hanno stabilito essere il “letterario”, ne verrà la possibilità, più volte e autorevolmente sostenuta, di una storia, non della “letteratura” come collezione di testi, bensì del “letterario”, della lettura e del suo immaginario, della fortuna e delle sue allucinazioni; e soprattutto storia del farsi, non solo del fatto, e dunque filologia e critica. (…)

Il destinatario che si presume possegga la competenza necessaria alla relazione con il testo sempre si scinde però in un destinatario reale e in uno virtuale. Se il primo può (potrebbe) venir rilevato dal’indagine storico-sociologica, il secondo è iscritto nel testo, non è selezionato ma chiamato ad esistere secondo una sorta di codice genetico inesauribile e incluso, per così dire, “nella confezione”. Esso oltrepassa sempre e infinitamente i destinatari reali e rubricabili mentre, in potenza, altri ne costituisce, futuri ma anche passati che ormai, inclusi nel testo come scarabei nell’ambra o querce nella ghianda, con il testo collaborano. (…) Per quanto è della letteratura ma anche per quanto è di altre forme di comunicazione, di azione e ricerca, nego però che solo autentica e reale sia la esplicita coscienza individuale o di gruppo e non anche la coscienza possibile e ulteriore e latente (…).

Se poesia e letteratura non vivessero (ma, come ho detto, mi servo di questi termini per alludere anche ad altro, forse anche a troppo altro) in un continuo porre una meta che le oltrepassa, allora dovremmo davvero credere alla “letterarietà” o “specifico letterario”; formula che invece – come mi pare Brioschi e Di Girolamo ci spiegano in modo assai persuasivo – non si salva da tautologia: sì che letterario è quel che è detto letterario; e buonanotte. Naturalmente, non la ricerca di che cosa sia “letterario” è in difetto; tanto è vero che di tale nozione, più utile quanto più confusa, non possiamo fare a meno. Lo è – lo si potrebbe dimostrare – l’ideologia che spesso la precede o la segue e della quale alcuni fra i massimi maestri della semiologia ci hanno messo in guardia: c’è una inavvertita ma costante “deriva” della maggioranza dei metodi critici che sospinge a considerare sintomo di autenticità e valore non l’aumento ma la diminuzione degli scambi e dei rapporti fra i moventi “pratici” e quelli “estetici”, fra lotta per la sopravvivenza e lotta per il superfluo, fra il momento politico e il momento contemplativo. E di qui a degradare il “materiale” a favore dello “spirituale” e anzi a ridurlo a inganno, ombra, theatrum mundi, fantasmagoria dell’inconscio e simili, il passo è così breve che è continuamente compiuto, anche fra i più rigidi studiosi, dai bisognosi di solitarie o elitarie salvezze. Tale è stata la deriva metodologica almeno fra i primi anni Sessanta e pochi anni fa. Tali sono quelli che chiamiamo nuovi o vecchi, o eterni reazionari; non conservatori. Questi ultimi sono più rispettabile specie: se è vero che non c’è memoria volta al futuro come fine – e quindi alla morte come “momento forte” della vita – senza conservazione e selezione del passato, dove le cose “morte” suscitano una vis a tergo ad afferrare e sospingere i viventi.

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8 Commenti

  1. Mai letto Fortini (ma Adorno sì). Considerato il suo linguaggio anche in questo articolo non me ne pento affatto.

    PS: commento censurabile con il consenso dell’autore, secondo la benevolenza degli amministratori del Blog Nazione Indiana.

  2. Letto (tanto) Fortini. Fieramente.
    Certo, di ‘sti tempi, in cui la Merini passa per poeta e il recensore/divulgatore passa per critico, il ferreo (e oltrepassante) Fortini pare un marziano.

  3. riposano in pace così tanti poeti oggi, che la Merini sarebbe il caso di lasciarla passare per… magari vivendo di parole,
    ma Fortini è Merini?
    Incubo pomeridiano di Bartezzaghi. Pardon

  4. ciao andrea,
    la lucidità di fortini, come al solito, intimorisce e conforta allo stesso tempo!
    con tutte le considerazioni che si potrebbero fare a partire da questi passaggi (sul lettore inscritto, sui tratti di classe, etc.), mi limito a sottolineare la frase sulla nozione di “letterario”: “tanto è vero che di tale nozione, più utile quanto più confusa, non possiamo fare a meno” e quello che potrebbe sembrare solo un inciso finemente paradossale ma che, a me, pare proprio il cuore di ogni ragionamento laico sul senso del nostro fare. per quanto possa essere affinato l’apparato critico e stilistico di chi scrive, infatti, lo spazio in cui si muove è sempre quello di un confusa vicenda di aspettative contraddittorie, fraintendimenti, approssimazioni più o meno esplicite, attribuzioni incerte. il “fondamento” letterario, sulla cui caratterizzazione si decidono i ruoli, i canoni e quant’altro – e, quindi, anche i tratti disciplinari che si assegnano alla pratica della scrittura che su quella base si dichiara letteraria – non è disciplinato, è affidato ad intuizioni, dichiarazioni di intenti, istanze dilettantesche, pretese professionistiche. in questo senso, è tanto più forte quanto più è sfibrato, lacunoso nella sua istituzione, debole nei suoi termini ma avvertito, confermato, abbracciato nel suo merito.

  5. Lucidità a parte, di Fortini – in lacerti come questi – mi lascia ammirato anche e soprattutto il tono, la fermezza.
    Brani da incorniciare (e nostre discussioni senz’altro da continuare…).
    Grazie Andrea. Un caro saluto a tutti,
    Alessandro

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