China
di Mariapia Quintavalla
Ti vestirono ignuda e fredda,
leste mani ti disinfettarono:
non ne vidi nulla,
non ne seppi immagini.
Tu, abbandonato il corpo fuori,
imperversava un’aria bassa
di bisbigliate condoglianze
mentre il tuo vuoto dilatava altrove.
Senza me, gelida e muta,
tu fra ignoti, ti lasciarono partire
ti truccarono di bianco,
il viola delle guance e mani, buchi
nel volto orbite feroci,
né domestici doni ti portammo,
demandata a sconosciute mani,
noi di là attorali, in un circuito chiuso
non sentimmo, imploravi
Figlia, figlio, accurri.
Di tante notti spese al bene,
ultimi gesti di pietà inviolata non ci furono,
onoranze al tuo corpo smunto medicato,
niente lenirne i colpi profumarlo,
riscaldarlo in carezze, labbra benedirlo –
l’immagine della Madonna di Berceto
infilai nella bara il giorno dopo, in fretta,
con altri bigliettini in amuleto al viaggio,
dalle figlie separate e segrete come il dolore
fosse cane da nascondere.
*
Nell’enumerazione del decalogo
spiegavo, che cosa a un bimbo
non si può mai fare prima
che le mancanze divenissero un intero,
mare incontenibile ogni sera
mi esercitavo per tenerle a mente,
scrivevo che i bambini esistono
perdio, esigono pietà
forma di ogni altro bene, che non è morta.
giudice e spettatore mi fingevo
di un’infanzia felice,
quando era iscritto un mio pensiero,
in musica, come lo praticavo
E mi si dava,
poiché l’avevo udito da mia madre,
che era una mente in musica
a volare, un suo fantastico
perduto volo, lingua.
Era il parlare d’amore che accendeva,
ma un giorno il padre,
nel repulisti annuale, i bei quaderni
caddero nel fuoco,
«le antiche vigilie / i cuori appesi,»
unici versi avrei salvato,
un’infanzia felice che non ho più visto.
*
Ma tu sapevi padre perché non parlavi,
che non ce n’era alcuna di ragione:
a testa bassa, lo sai già, ammonivi,
nella vita ho giurato di difendere sempre
vostra madre; così tu mi tradivi,
ritentavo, Ma da chi tu la difendi, ora.
E’ così e basta, sigillavi.
roso sotto, aleggiava nevermore,
Salomè, la scrittura – rimpiangevo,
poi non vista sul piatto barattavo
Salomè, specchio divenuto estraneo,
salamandra stordita sopra i bei quaderni.
*
Nanén! Miciòti,
mi chiamavi al telefono, fuori dal nido,
quando ci cercavamo, Nanén,
nome di tutti i bambini della terra;
il nome di nanén chiude piano
le porte da taglienti spade.
Nanén, mi senti, sono la mamma,
Ah sei tu, correvano sul filo
reclamanti la perpetua attesa
di te come sirena, Come stai, Nanén,
gli ultimi tempi ancora,
erano dialoghi sognati, anche uditi,
domande che avvenivano
non avvenivano avvolgendo ragni
sotto il diaframma,
risposta che riposa.
*
Altre volte invece,
Fammi vedere gli occhi, te ne uscivi,
appena io seduta a tavola
là di fronte scrutavi,
con libidine, gli occhi smisurati
a te somiglianti. Ti ho fatta io!
poiché evitavo, Io, ti ho fatta
così bella, rivendicavi, oppure,
la mia bambina, ecco, aggiungevi,
come se fosse l’ultimo ricordo
di noi avuto; mi giravo a lato,
turbata dalla giurisdizione,
poiché là assoluta, seduceva me vinta
e io pronta di lingua ma nel cuore no,
ribattevo, Smettila su, sono cresciuta,
già confusa, con voce di tenera ragione,
tentavo dissuadere,
oppure là troncando brusca, Mi stavi ascoltando,
allora? Tu imperterrita che nel ricordo
di me piccola vedevi un tempo inoffensivo,
un bel corpo di bambola da stringere,
il vento della vita non passato ancora
sul naufragio, così, fissandomi,
la mia bambina mormoravi,
ribattendo il tempo, il solo a noi concesso,
quale soglia fulminata,
monito- condanna a chi voleva
da lì muoversi, salpare.
*
Il gatto Gioio con cui eri cresciuta,
a San Leonardo, lui era amato:
doveva somigliarti, portatore di gioia,
affamato in carezze, era maschio
come sognato nascessi
a laudare la tua secondogenitura.
Un domestico soriano, lo aspettavi,
dopo le scorribande al buio lo nutrivi,
con gli avanzi del cibo, rendendo certa
l’affezione. I gatti ti piacevano,
a te si davano fraterni, mentre i cani no
che non li amavi. Come per l’acqua,
il fiume, ti avevano nuociuto,
da piccola a due anni un cane lupo,
vedendoti giocare ti attaccò alla gola:
la paura, oltre la febbre
indelebile rimase, il cane abbattuto.
Per tramandare una legge ricevuta
ne discese al clan inderogabile divieto.
Ma i gatti no, c’eri cresciuta,
si lasciavano carezzare
dopo i vagabondaggi nell’ombrata natura,
convincerti di giuste sorellanze, un patto;
tu miagolavi, d’altra parte, quando
volevi rilassarti alludere a un codice,
facendoti chiamare il gatto.
“Caro gatto”, l’intestazione di missive,
tuo secondo nome, anni dopo,
nei versi dei poeti avrei cercato
chi ne amava i modi, per elezione,
mi schierai con loro.
*
Mi cimentavo, nella corsa libera
nei modi dello svettamento solitario,
non del gruppo.
la maestra Feldmann amatissima,
malata, me ne stavo
come una capra selvatica insediata
in cortile, forse ad attenderla forse
spaventata, chiedendo a tratti,
Quando cresco, potrò non gareggiare più,
in giochi stupidi come il nascondino
e la bandiera. Chiedevo,
perché estranea alle regole del gioco,
se era bello vincere, o morire,
riflesse lì, vedevo relazione umane,
rette da chi e perché, ignoravo.
la supplente volle ci cimentassimo
in una gara: io che sola, imbattibile,
nel confronto invidioso sfiguravo,
così inciampai, liberandomi
dal peso del giudizio; imbambolata,
viso a terra, denti e ginocchia rovinati,
ottenni di sospendere la tenzone.
l’amica, cui piaceva fare lo sgambetto,
detta da tutti vipera occhialuta,
rise vedendomi apparire, tutta bardata,
dopo i soccorsi dell’infermeria,
Impassibile, sfilavo davanti a bambole nemiche
come un guerriero in pittura arancione,
mentre il dentino mio più bello stava
lì, spezzato sul campo di battaglia l’avevo visto
sull’asfalto, come scheggia d’oro.
Così fasciata,
avrei attratto la compassione della mamma,
presto chiamata in direzione.
lei arrivò,
incurante in tailleur snello, così sembrava.
Era già raro venisse lei da me,
garrula mi conduceva fuori, a mia insaputa.
Se lo facesse per contegno, non sapevo,
ma la mia gloria, in quella tenera mattina,
era che lei per me, noi sole,
potessimo una volta stare accanto,
mano sulla fronte, un bicchiere di spremuta,
un po’ radiose quando, superata la paura,
complici come una madre sa
alla figlia cancella l’ansia, abbraccia forte,
oppure, piangere, tacere .
Ma non si ripeté il miracolo, né allora,
così tornai nei giorni successivi
al gioco clandestino di vendere matite
colorate per un bif, il ghiacciolo,
che fuori dalla scuola mi compravo,
solitario Pinocchio,
per fare un po’ di lire, pronta a arrangiarmi,
con la voglia di banda giovanile,
come lo stucco rubato alle finestre delle scale,
coi bambinetti del cortile, nel pomeriggio,
quando i grandi dormivano,
per tenerlo molle lo masticavo in bocca;
poi via, a nasconderlo, il bottino,
quasi un pane di stucco.
Era il periodo in cui, medesima nel cuore,
la storia di Molnàr ascoltavo,
di eroi imbattibili bambini,
a gare e corse già predestinate.
Tacevano squittivano nel buio
dei quaderni, i versi.
Ho letto a stento, come ho potuto, con le parole che vagavano dentro gli occhi.
Prima il dolore Mariapia e poi la tua poesia. Brava.
cara Patty, se questo vuole dire niente che sia (stato, MAI!) avanti alla vita e al suo esperirla, al di là del possibile, sì, certamente è così.
devo rileggere la scelta,c he è di Francesca, e che ovviamente risfrangia in racconti tanti, l’unicum delle sezioni o della sua vita. la nostra. La narrazione ne esce uguale, il suo senso cioé, che è tirare alla luce, credo, alla luce del giorno e della memoria, suoi figli..cruda, quanto resista ..ma è inutile forse spiegarlo, è bene leggerlo. Grazie.
devo dire, rileggendo, sempre point, ma meno fretta: che la prosa,che qui la “sembra” molto (anche s e in versi), per scelta brani, NON possa essere stralciata facilmente, pena perdere la sua consistenza.. resta, spero la densità dei pezzi più amati, scelta che opera solo il lettore, infine..
Cosa dire che non sia uno spot?Ma certo è che vada letta, di seguito.
In un canzoniere, lo stralcio è più semplice, è la verità.
Da settembre Effigie, lo distribuisce in ogni regione(e a a Milano, anche prima)
MPia Quintavalla
Affascinante Mariapia, come sempre e certo di più in questi brani che si ammassano dietro all’autrice come una lentissima valanga. Vale, sì, la pena di leggere di seguito (il libro), ma ciò non toglie passione ed emozioni.
Brava Mariapia e brava dunque Francesca anche nel “cucire” brani che rendono ugualmente la bellezza “annunciata” dell’opera intera.