Di un luogo inabitabile / Scenografie, cattivo gusto, recitazione: brevi riflessioni sul Lubitsch tedesco
di Rinaldo Censi
Non è forse un caso che certi regni filmati da cineasti di origine ebraica siano immaginari. I principati o i piccoli ducati dei film di Eric von Stroheim, per esempio, come quello di Montebianco in The Merry Widow (1925), film tratto da Die lustige Witwe, operetta che fa il suo debutto a Vienna nel 1905, su cui anche Lubitsch applicherà il suo mestiere (1934), mantenendo il territorio indicato dal testo originario: il principato di Marshovia. Nei primi decenni del ‘900 i viaggi certificano ancora l’incontro con l’esotico, con un altrove sconosciuto e immaginario. L’oriente casalingo di Lubitsch, ad esempio: è l’Egitto di Die Augen der Mumie Ma (1918), o Das Weib des Pharao (1922) o ancora l’Oriente di Sumurum (1923), filmati senza muoversi dalla Germania, giusto schizzando fregi dal sapore esotico, immaginando labirinti scenografici, piazzandovi una mummia, o qualche elefante dello zoo. E che dire della fortezza militare di Tossenstein a due passi da Piffkaneiro (Die Bergkatze)?
Che siano gli unici luoghi abitabili per chi si considera senza patria, in eterno esodo? Come ricorda Enzo Traverso in un libro dedicato alle figure dell’esilio ebraico-tedesco, «Un giorno bisognerà rileggere la storia del XX° secolo attraverso il prisma dell’esilio; l’esilio sociale e politico, ma anche e soprattutto l’esilio intellettuale». (1) Sono dunque gli esuli – in particolar modo quelli ebraico-tedeschi – i rappresentanti di questa mondializzazione, questa circolazione di uomini e di idee, che definisce e rinnova la cultura?
Non è un caso che molti di loro siano giunti in California, a Santa Monica, a Hollywood: il luogo dell’immaginario per eccellenza, degli studios. La fabbrica di sogno. Prendiamo Lubitsch, non un vero e proprio esule: giunge a Hollywood nel 1922, chiamato da Mary Pickford, estasiata dal successo di Madame Dubarry. Pensiamo agli interni dei suoi film hollywoodiani: a volte lussuose suite d’albergo (luoghi di transito), appartamenti, la cui dimensione è spesso raddoppiata dalla presenza di specchi, spazi dal design inconfondibile, scalinate e soprattutto un senso di sproporzione architettonica, qualcosa bigger than life (per esempio le porte all’interno di certi film: le figure umane che vi transitano sembrano omini lillipuziani). Eppure, questi luoghi, pur nel loro gigantismo, pur nel loro lusso sfrenato sono in fondo abitabili. Sono abitabili perché le persone che lì si muovono, simili a pesci in un pregiato acquario, sono affette dai medesimi difetti di coloro che li osservano. Ma non è sempre stato così. Alcuni dei film tedeschi di Lubitsch hanno lanciato una sfida alle regole dell’abitabilità. Sono quei film in cui il lavoro scenografico tratteggia il sogno utopico di un luogo destinato a qualche folle, o a qualche figura umana fuoriuscita da un sogno di cartapesta e marzapane. Sono le scenografie di Die Austerprizzessin (1918) o di Sumurun (1920), ma soprattutto quelle di Die Puppe (1919) e di Die Bergkatze (1921).
Vale forse la pena ricordare come dietro a questa creazione di spazi e architetture, impermeabili alle esigenze d’uso quotidiano, vi sia la lezione di Max Reinhardt, alle cui dipendenze Lubitsch aveva iniziato la sua avventura nel mondo dello spettacolo. Era di Reinhardt l’idea di voler rompere, ad esempio, con il naturalismo dei baffi posticci e della bella interpretazione, a favore di luoghi scenografici più che estrosi, di una recitazione quasi meccanica, da bambola snodabile, di una comicità bislacca da cabaret. Sono anni in cui a Berlino, a Mosca, in Europa, sono frequenti i rapporti tra le forme artistiche, anche quelle più all’avanguardia, e le forme basse popolari, comiche, tanto che c’è chi come Kurt Hiller con il suo “Neopatetisches Cabaret” (lo ricorda Guido Fink nella sua monografia dedicata a Lubitsch) scomoderà la “risata panica” di Nietzsche: «Si comprende anche che noi non teniamo per indecoroso e sconveniente spargere serissimi filosofemi tra canzonette e burle…». Pare di sentire Majakovskij, in cui ciò che più colpisce è «sempre il felice innesto degli esperimenti moderni con la tradizione del teatro popolare», come ricorda Angelo Maria Ripellino. (2)
Questa è la sagoma su cui è tagliata la stoffa di Die Bergkatze, film unico, possiamo ben dire. Uno dei pochi flop al botteghino del Lubitsch tedesco – come ricorda il regista stesso in una lettera a Herman G. Weinberg: «Il film Die Bergkatze fu un’impresa totalmente fallimentare, eppure in questo film c’erano molte più idee e molte più gag e satira a livello visivo rispetto agli altri miei film. Quando il film uscì, poco dopo la guerra, non ho trovato un pubblico pronto ad accettare un film in cui il militarismo e la guerra fossero presi di mira a livello satirico. Non ho trovato la giusta atmosfera». (3)
Quando il film uscì, venne recensito sulle pagine di Lichtbildbühne, il 16 aprile del 1921. Ne riportiamo il testo, per meglio comprendere la straordinarietà di questa farsa in quattro atti:
Lubitsch ha ambientato la vicenda in un mondo ultraterreno. Ha trattato il materiale con stile straordinario, imprimendovi un proprio tratto dall’inizio alla fine, con rara unità. Questa organicità nasce talora da una forzatura: ad esempio, quando Lubitsch sottolinea l’intervento stilistico con un imprecisato numero di mascherini ritagliati in foggia fantastica e la natura non è che mero contenuto, farcitura di grotteschi tagli dell’inquadratura. Ma è una scelta affascinante, un esperimento ardito, ed è sempre sorprendente e spiritoso il modo in cui il regista vede le cose. Non ha senso elencare le migliaia di trovate registiche, capaci di strappare l’applauso del pubblico; nessun prodotto tedesco possiede questa carica di comicità, così tanto umorismo grottesco e originale quanto questo film. Ma proprio questo carattere di novità potrebbe risultare oscuro a un pubblico poco preparato, benché il successo all’Ufa-Palast sembra dare tutt’altro segnale.
Pola Negri nei panni della figlia del brigante, “la bella Rischka”, dimostra una comicità vivace, una sorprendente disponibilità a tutte le peripezie del proprio ruolo.
Un mondo ultraterreno, dunque, utopico, per una farsa anti-militarista di cui la fortezza militare è la perfetta raffigurazione: un non-luogo, un luogo di confine. In questo film ogni cosa appare fuori dall’ordinario. Fantastica. Quando non sono le forme curvilinee dell’architettura d’interno e degli ornamenti spiraliformi (The Gyres! The Gyres! esclamerebbe Yeats) è il bianco diffuso della neve che potrebbe avere qui la consistenza dello zucchero a velo. E’ un aspetto ben sottolineato da Scott Eyman nella sua biografia dedicata a Lubitsch, che accogliamo con piacere: «The decor – by Ernst Stern and Max Gronert – is gingerbread candybox, something out of rococo German fairytales. (…) The statues and decorations of Fort Tossenstein – built on location in the Bavarian Alps, in and around Garmisch-Partenkirchen – look as if they’re made out of cake icing, all scrumptiously rounded out of spun sugar». (4)
Come abitare uno spazio che possiede la consistenza dei canditi e dello zucchero a velo? Molto meglio qualche lussuoso albergo di Manhattan, dopotutto. Come nel miglior burlesque, questi spazi e questi corpi non favoriscono alcun rispecchiamento, non si prestano all’imitazione. Resta dunque percepibile, in filigrana, la loro dimensione anomica, di cui queste scenografie sono l’esatta cifra.
Lotte H. Eisner, ad esempio, sulle pagine de Lo schermo demoniaco, considera questi espedienti grossolani, come le farse che Lubitsch realizza in Germania (guarda caso, scriverà la Eisner, solo «più tardi, negli Stati Uniti, Lubitsch si affinerà, e capirà che era tempo per lui di sbarazzarsi di una certa grossolanità molto “mitteleuropea”»). (5) Bisogna prendere i giudizi della Eisner alla lettera: la comicità di Die Bergkatze di Die Puppe o di Die Austernprinzessin è grossolana, furiosa, fino al cattivo gusto. Questo non è un buon motivo per denigrare i film (è vero piuttosto che bisogna avere molto buon gusto per apprezzare il cattivo gusto).
Die Bergkatze spinge fino al suo limite questo sentimento. Non sono solo le scenografie curvilinee tardo Liberty della fortezza a suggerircelo (con tanto di cannoncini dall’accentuato gusto fallico), e neppure il magnifico sogno della “bella Rischka” nel quarto atto, ma la foga proditoria con cui Lubitsch assalta il formato standard cinematografico a colpi di matte, mascherini, la cui funzione oscilla tra il tripudio “ornamentale” e la gioia iconoclasta del puro sovvertimento dell’inquadratura, la sua continua alterazione.
La funzione del mascherino viene dirottata. Ovali, archi, linee diagonali, verticali, forme sinuose e altre ancora, che sembrano ritagliate da un bambino dispettoso, restringono lo spazio dell’inquadratura, gli donano quella che potremmo considerare una logica perversa. Insomma, il mascherino è qui qualcosa in più: una cornice, un’aggiunta, un supplemento dell’opera. Ciò che i greci chiamavano parergon.
A voler dar retta a Kant (e a Derrida) parergon è dunque quell’oggetto che non fa interamente parte della rappresentazione, ma vi rientra a tutti gli effetti. E’ una forma aggiunta, un supplemento che incide sulla figura, o sulla scenografia. Per gusto, per armonia, per eccezionalità.
La cornice, è risaputo, si propone come qualcosa che protegge e insieme eleva un dipinto (a volte troppo); soprattutto, separa l’opera dal mondo che essa imita. Ciò che affascina, in ogni caso, è il rapporto che si crea tra i due spazi che la cornice separa. Insomma, bisogna «esaminare la cornice come luogo, o non-luogo, di un’articolazione mai semplice, mai stabilita una volta per tutte, tra lo spazio dell’opera e lo spazio dello spettatore; tra l’ “arte” e la “vita”, l’ “arte” e la “natura”, l’ “arte” e il “reale”». (6)
Anche il cinema è in grado di porre simili problemi. Da questo punto di vista, Die Bergkatze avrebbe fatto impazzire André Bazin. Le sue pagine dedicate al rapporto tra cinema e pittura sarebbero state ancora più puntute, se solo egli avesse potuto vedere questo film. In Die Bergkatze i bordi dell’inquadratura vengono alterati, si fanno frastagliati: definiscono lo spazio di un mascherino che tende a trasformarsi in cornice. Questo aspetto complica qualunque idea di fuori-campo, ponendosi come zona limite dello spettacolo, dove sembra non sopravviva nulla al di fuori di esso. Altre volte il rapporto è invece più ambiguo, più sfumato. Allora, forse, potremmo dire che queste inquadrature sono in realtà frammenti di inquadrature, qualcosa di prossimo ad Edgar Allan Poe e al suo ritratto ovale: l’opera vi appare come un lembo strappato alla natura e piazzato artificialmente dentro una cornice ovale (o, in questo caso, diagonale, sghemba, verticale).
E’ anche per questo motivo che la fortezza e il suo ambiente innevato sono un non-luogo, qualcosa di utopico. E’ un luogo incastonato in una cornice di liquirizia, distanziato artificialmente da ogni possibile realismo. Inabitabile.
Lasciando da parte i grandi film “storici” del periodo tedesco (Anna Boleyn e Madame Dubarry) è presente, in queste farse, una passione estremizzata (per i doppi sensi ad esempio… ma anche questo aspetto verrà mitigato, utilizzato con più gusto, noterà Lotte H. Eisner). I personaggi, a loro volta, si posizionano all’altezza dell’“automa” o dell’animale (sono i due poli su cui si muove Ossi Oswalda: aggressività da ragazza “selvatica” in Ich Mochte Kein Mann Sein, automa snodato in Die Puppe). Non era forse l’orso l’attore perfetto per Von Kleist? E ad un orso ammaestrato, che di colpo riscopre la sua furia violenta, sembra guardare lo stesso Lubitsch nella sua interpretazione più folgorante, quella del gobbo innamorato della danzatrice in Sumurun. Die Bergkatze, poi, è “la gatta della montagna”; The Mountain Cat è il titolo americano del film: e la «scompostezza» di Pola Negri, a voler assecondare alcune note di Umberto Barbaro, è forse davvero sintomo di animalità.
Mi piace pensare che Franz Kafka (anch’egli un senza patria: osservatelo nella famosa fotografia che lo ritrae con bombetta chapliniana, il cane e la sorridente cameriera di un cabaret, Hansi Julie Szokoll), pur avendo espresso a volte parole poco lusinghiere nei confronti del cinema, avrebbe apprezzato questo film. (Lo avrà mai visto?) Proprio per la sua dimensione farsesca (come ricorda H.G. Weinberg, i nomi dei briganti che, insieme alla “bella Rischka”, ingaggiano una battaglia con l’esercito, sono Pepo, Masillio, Tripo e Dafko: non siamo lontani dall’anarchia dei fratelli Marx…), per quelle grottesche figure di militari che fanno pensare alla fotografia che Klaus Wagenbach riporta nel suo album kafkiano, durante il soggiorno di Kafka a Jungborn, dimora e istituto per un regime di vita puro e naturale. (7) Disprezzo di Kafka per il regime militaresco. Scrive il 6 agosto 1914, dopo una parata militare: «Corteo patriottico. Discorso del sindaco, che poi scompare e si ripresenta e lancia il grido tedesco: “Viva il nostro amato monarca. Hoch!”. Io assisto col mio sguardo cattivo». (8)
Come ricorda Borges, il destino di Kafka era quello di trasformare gli avvenimenti e le agonie in favole. Forse è per questo che avrebbe amato Die Bergkatze.
Rinaldo Censi
(1) E. Traverso, Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco, Ombre Corte, Verona, 2004, p. 7.
(2) «Dalle risorse dei baracconi deriva a Majakovskij il gusto degli ordigni fragorosi e delle scene all’inferno, dei fuochi e dei mutamenti fulminei. Il viaggio nel tempo (…) ci fa ricordare le “féeries” d’avventure che si davano in Russia al principio del secolo nei giardini d’estate». A.M. Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Einaudi, Torino, 1982, pp. 226-27.
(3) E. Lubitsch, Ein Brief an H.G. Weinberg, in H.H. Prinzler, H. Patalas (a cura di), Lubitsch, , C.J. Bucher GmbH, München-Luzern, 1984.
(4) S. Eyman, Ernst Lubitsch: Laughter in Paradise. A biography, Simon & Shuster, N.Y, 1993, p. 72.
(5) L.H. Eisner, Lo schermo demoniaco, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 61.
(6) J.-C. Lebensztejn, “Constat amiable”, in Annexes – de l’oeuvre d’art, La Part de l’Oeil, Bruxelles, 1999, p. 187.
(7) K. Wagenbach, Franz Kafka. Immagini di una vita, Adelphi, Milano, 1983, p. 126.
(8) F. Kafka, Diari, Mondadori, Milano, 1988, p. 469.
*In occasione della retrospettiva completa Ernst Lubitsch presso il «Festival del film di Locarno» (4-14 agosto), 63a edizione. Il testo è apparso, in forma ridotta, sabato 31 luglio sulle pagine di Alias, inserto de Il manifesto.
I commenti a questo post sono chiusi
Articolo interessante, in particolare gli spunti sul rapporto tra le inquadrature di Lubitsch ed il fuori campo. Qualcuno sa dirmi se il film in questione è reperibile facilmente o è una chicca da cineteche?
Flavio il Festival del cinema di Locarno dedica una bella e ricca retrospettiva a Ernst Lubitsch. Se ti interessa… http://www.pardo.ch/jahia/Jahia/home/lang/it
Flavio, il film è stato editato da Ermitage in un’edizione restaurata con il titolo italiano, Lo scoiattolo
Grazie, un bellissimo articolo.
Mi piace pensare che Franz Kafka (…) avrebbe apprezzato questo film
certo di fronte ad una così fantastica banda di briganti, tra l’orso e il folletto, ammestrati a colpi di frustino dalla scatenata brigantessa Pola Negri…
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Evviva i bagni in piscina!