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posso essere il tuo schiavo?

di Flavia Piccinni

Oggi fa caldo, Roma è di catrame e tutto si sta sciogliendo. L’appuntamento è alle tre davanti alla libreria. Il gelataio di Via San Micheletto ha chiuso, si è rotto il frigorifero e un torrente bianco, di crema e vaniglia, s’allunga sul marciapiede sudicio. Lo calpesto e le mie impronte si fanno zuccherine, mi vengono dietro mentre arranco in direzione di Quasi, dove abbiamo appuntamento.

Guardo l’orologio: sono in ritardo e ho caldo. Un barbone, con un bassotto senza una zampa al guinzaglio, mi chiede l’elemosina. Scuoto la testa, vado avanti. ‘A stronza, urla, ma io spalanco le braccia, e non mi volto neppure; la sua voce risuona per i palazzi pastello, con i balconi in ferro battuto cui s’aggrappano lenzuoli e mutande. Due vecchie, dalle canottiere bianche che lasciano intravedere l’aureola del capezzolo, mi passano accanto; parlano delle vacanze e l’una dice all’altra che a Capo Rizzuto c’è una splendida spiaggia per nudisti.

Oggi Roma è dei pazzi, e io ci sono dentro.

Svolto l’angolo di Via Mascella e intravedo, fra l’edera che s’alluga dai terrazzi, come un abbraccio, l’insegna di Quasi. Apro la borsa e controllo che ci sia tutto: il registratore, il blocco per gli appunti e la penna, le liberatorie da far firmare ai genitori, la bottiglietta d’acqua appena presa dal frigo, una penna di riserva, l’agenda con i nomi dei bambini, il numero della scrittrice che si presterà a questa farsa e quello del fotografo.

Prendo lo specchietto e controllo che i capelli siano in ordine, che il trucco non sia colato in un tragico effetto Pierrot, che il brufolo sul mento se ne resti ben coperto sotto un doppio strato di correttore. Adesso vado dico, e apro la porta.

Conosco Quasi da oltre dieci anni, quando ad aprirla furono un gruppo di norvegesi che speravano di portare a Testaccio quello che intendevano per cultura. Del periodo di allora, oltre a qualche poster in bianco e nero con porno star dai capelli ossigenati e piercing sulle labbra, non è rimasto poi molto. A volte ci sono presentazioni di libri o piccoli happening musicali, altre ancora ci si riunisce per vedere le partite della Roma quando gioca in trasferta. A gestirlo, adesso, è Luca, un ragazzo lucano che viene da Policoro, il posto delle fragole e dei fidanzatini ammazzati in condizioni misteriose. Ha poco più di trent’anni, è iscritto fuoricorso a lettere ed è ossessionato dalla cucina vegana. Quando lo vedo gli allungo la mano, lui si sfiora i riccioli e sorride, la stringe. Maledice il killèr cavd’, e mi fa strada.

Li trovo immobili nella sala conferenze, una grossa stanza con sedie di plastica nere, un lampadario a forma di mezza luna in cristallo di murano, le pareti azzurre. Sono fissi sotto il getto dell’aria condizionata. Assomigliano a delle lucertole. Ci sono tutti: tre bambini alti almeno dieci centimetri più di me, una donna con il seno in bella vista e un uomo dagli occhi azzurri, sorridente. All’appello manca solo la scrittrice, ma non sono affatto sorpresa.
“Buon pomeriggio, io sono la giornalista che si occuperà della cosa” esordisco, asciugandomi la fronte. Quando dico la cosa, tutti e cinque mi fissano insicuri. “L’intervista” spiego, mentre Luca mi dà una pacca sulle spalle e si volta; sento le sue infradito sbatacchiare fino a quando non arriva all’ingresso, e torna a sprofondare sulla sua poltrona giallorossa.

I bambini annuiscono, spaventati, mentre i genitori ridacchiano soddisfatti e si scambiano sguardi di intesa. Si sentono orgogliosi del loro successo: presentare alla prole la scrittrice di fantasy. Dopo un istante di compiacimento, riprendono a chiacchierare dei treni che hanno dovuto prendere, di quanto è bella Roma e di quanto faccia caldo. Poi, la donna inarca la schiena e il seno si offre al getto ghiacciato e agli occhi del padre padovano che, fingendo disinteresse, abbassa lo sguardo; chissà se la figlia lo ha notato. Dallo sguardo ebete che ha, sempre che sia lei e non l’amica la figlia del mandrillo veneto, non credo abbia neppure realizzato di essere fuori di casa.

Tiro fuori dalla borsa il block notes.

“Allora, se non sbaglio tu sei Cassandra e tu sei Cassandra” dico, indicando le due bambine. Se non fosse che la legge italiana vieta lo stesso nome per due gemelle, direi che sono sorelle. Hanno identici occhi azzurri, stesso taglio di capelli e una leziosa t-shirt rosa; sono magre e alte. Una ha i capelli biondissimi, l’altra altrettanto chiari ma con piccole ciocche castane. “Siete voi?” provo a scherzare, ma loro si limitano ad annuire. La più alta, quella che sembra leggermente più sveglia e ha un paio di orecchini a forma di coccinella, mi allunga la mano. “Io sono Cassandra bionda” dice. “E io Cassandra mora” conclude l’amica. Annuisco e spero che stiano scherzando, ma non rintraccio nei loro sguardi niente di spiritoso. Forse alle nuove generazioni crescono prima le tette che il senso dell’umorismo.

“E tu sei Davide” continuo, indicando il maschietto. Lui, sguardo bovino, obeso, polo Ralph Lauren con maxi cavallo sul pettorale destro, bermuda kaki, infradito e zaino invicta sulle spalle, che gli arriva ai glutei sfatti, pare rianimarsi.

“Sono io, sono io!” esclama, sorridendo beota. “E io ho tredici anni. L’hanno prossimo mi iscrivo al liceo classico, perché mi piace scrivere e diventerò uno scrittore” dice, senza neppure essere interpellato. Pare invasato.

“Quest’anno ho fatto l’esame, è andato bene, ma mi piace scrivere. Mi piace il fantasy. Kenny è il mio mito. Posso chiedergli se vuole uno schiavo?” continua, annuendo fiero.

“Chiederle, vorrai dire” lo correggo, ma lui non si accorge di niente; come se conoscere la grammatica fosse secondario di fronte al sacro fuoco dell’arte che offre piacevoli scusanti, fra cui infinite licenze poetiche e intellettive.

Davide fa finta di niente. Deve aver preso la determinazione dalla madre, che da quasi dieci minuti chiacchiera con l’accompagnatore delle due Cassandra, senza che neppure lui l’ascolti.
“Sapete, io sono venuto da Rimini solo per lei” aggiunge, sorridendo felice, il folletto soprappeso. A guardarlo bene, potrebbe essere una creatura partorita dalla scrittrice di fantasy. Ha qualcosa di fastidioso, mi pare soffrire della sindrome del primo della classe, malattia che ho visto avvilupparsi intorno ai migliori soggetti della mia generazione e portarli alla deriva, senza, sfortunatamente, ucciderli mai.

“Bravo” commento, sarcastica, sperando di trovare appoggio nelle due Cassandre, ma nessuna delle due coglie la mia ironia. Sono imbambolate a sistemarsi reciprocamente i capelli, a correggere l’una il lucidalabbra dell’altra a ridacchiare di chissà cosa. Poi si fermano e, come due robot, iniziano a osservare rapite il piccolo mostriciattolo che adesso ha messo per terra lo zaino e ha iniziato a tirare fuori i libri di Kenny, esaltandosi perché fra poco la scrittrice dei suoi sogni li autograferà uno a uno.

Poi Luca torna, scortando un essere che non mi pare avere una delineata connotazione sessuale. Cappellino da baseball azzurro, camicia da cowboy sui toni del blu, jeans pieni di buchi e infradito di cuoio.

“Eccola” esclama e poi, forse un po’ disgustato, fa spallucce e se ne va.

In meno di un attimo vedo tutti i sogni di Davide, che è venuto da Rimini solo per conoscere la sua eroina, crollarmi davanti. È una sensazione bellissima, superiore perfino a negare ai miei nipotini le barrette kinder alla cassa del supermercato. È come se tutti i sogni di lui, quelli di conoscere la scrittrice che ha fatto battere il suo cuore infantile sotto le coperte, prima di andare a dormire, si sfaldassero al pari di un’unghia micotica. Il suo sorrisino da secchione lentamente si allenta, fino a trasformarsi in un’espressione imbronciata, ma controllata. Da adulto.

“Tu… tu sei Kenny?” domanda, timido, e allora lei, togliendosi il cappellino, annuisce. Davide, forse ancor più sconvolto dai capelli rasati a zero della sua dea, che deve aver accompagnato i suoi primi, timidi e furiosi, atti masturbatori, distoglie lo sguardo dal cranio pelato della regina del fantasy. “Ma sei sicura?” insiste. Kenny annuisce e sorride, i suoi denti sono gialli e irregolari. “Ma…” prova ancora Davide.

So cosa sta per dire. Presto ammetterà che è bruttissima, che oggi poteva andare al mare, con gli altri bambini, e giocare a fare le verticali sulla spiaggia e a riva, invece che passare cinque ore su un treno senza neppure l’aria condizionata.

Kenny lo guarda interdetta, in attesa che lui finisca la frase, ma Davide arrossisce, si imbarazza e corre via. Va dalla madre, le tira il vestito perché lei, alta su un paio di zeppe in sughero, si abbassi al suo livello. “Mamma, ma è un mostro” mi immagino che dica, nell’orecchio, ma poi la donna si drizza di scatto, si scusa con il mandrillo padovano e dice che deve accompagnare il figlio in bagno.

Ho un fremito nel pensare che si sia pisciato sotto per la paura, ma so che probabilmente non è così. A tredici anni queste cose non succedono, soprattutto se sogni di diventare uno scrittore.
I due si allontanano furtivamente verso il bagno, mentre le due Cassandra allungano la mano incerte a quella che non sembra né una donna, né un uomo ma una vera e propria creatura del mondo di morte, quello che l’ha resa celebre in tutta Italia.

Le tre si presentano e immediatamente iniziano a parlare in una lingua sinistra e ridicola, incomprensibile. Fra un suono gutturale e una risata mi intrometto nella conversazione e invito la scrittrice di fantasy e le due Cassandra a prendere posto per dare inizio a questa farsa: cominciare l’intervista.

Le bambine annuiscono, e poi, neanche si siedono, che hanno già allontanato qualsiasi forma di timidezza. Sono accanto alla scrittrice ed esordiscono, in coro, quasi si fossero sincronizzate, dopo un lungo sospiro con: “Noi vogliamo fare le scrittrici, come si fa?”.

La scrittrice di fantasy, visibilmente imbarazzata, fa spallucce. “Che avete scritto?” chiede, interdetta. Sa bene che quest’intervista, concordata dal mio direttore con il capo addetto stampa della sua casa editrice, è a scopo promozionale: per annunciare in anteprima agli adepti del mondo della morte che presto verrà realizzato un film dal primo libro della saga.
Cassandra bionda però si fa seria, mentre l’amica trattiene un risolino. “Niente” risponde, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. La scrittrice di fantasy assume un’aria crucciata, cerca di capire se le due stiano scherzando ma nessuna delle due bambine accenna a un sorriso, a uno scherzo.

“E come fate a fare le scrittrici se non avete scritto niente?” interroga, le due però sembrano non capire, scuotono la testa, cercano un incoraggiamento nell’uomo che le accompagna e che mi pare piuttosto preso dallo sfogliare frettolosamente un catalogo illustrato della fiera del porno di Amsterdam, anno 1995.

E poi, improvvisamente, il ragazzino esce di corsa dal bagno. Si è tolto la polo ed è rimasto con una ridicola canottiera bianca che evidenzia i suoi piccoli seni. Forse ha vomitato. Lo guardo meglio, non ha l’espressione disperata di uno che ha appena rimesso. Sembra entusiasta. Si avvicina a Kenny. Per un attimo temo che voglia picchiarla, ma lui arrossisce. “Mi vergogno a dirtelo, ma… ma sei bellissima” dice e io resto senza parole. Kenny è un mostro, ed è sotto gli occhi di tutti che lo sia. A guardarla bene, penso addirittura che abbia una piccola gobba. Probabilmente a distanza assomiglia a un adolescente, non ha neppure un accenno di seno. La madre di Davide annuisce orgogliosa ma io sono allibita: perché da bambini i maschi sono capaci di tali gentilezze e, invece, da adulti si trasformano in superficiali erotomani?
Kenny fa spallucce, si comporta come se fosse abituata a certi complimenti. Davide allora tira fuori dai pantaloncini un pennarello nero. Realizzo, mio malgrado, che sfortunatamente non si è neppure pisciato sotto. “Ti prego” sussurra, allungando la penna colorata. “Ti prego” insiste. “Autografami la maglietta come Del Piero” conclude. Kenny si mostra finalmente umana e ha un fremito d’insicurezza, ma Davide è irrefrenabile. “Dai dai dai” supplica, saltellando, ma lei si stringe nelle spalle, infila la mano nei jeans sdruciti per risparmiarsi questa atrocità, dice che non l’ha mai fatto.

“C’è sempre una prima volta” risponde, pronta, la madre reggendo in mano una macchina fotografica digitale grande quanto un palmo.

“Ma io…” prova la scrittrice. Il bambino però non smette di saltare e implorare, le due Cassandra di guardarla interrogative, chiedendosi perché la fa tanto lunga per un autografo. “In fondo – dice una – che cosa cambia fra una maglietta e un romanzo?”.

Mi mordicchio le labbra. Mi sembra assurdo che nessuno abbia realizzato che cosa si stia consumando qui. La scrittura adesso è l’avamposto della celebrità.

La firma dello scrittore non è più qualcosa da custodire come ricordo fra le pagine di un libro, ma si fa marchio indelebile di una fratellanza che va esibita, come quella con il goleador del momento o il neomelodico di preferenza.

“Forza, non si faccia pregare” taglia corto la madre, e così la scrittrice, imbarazzata, afferra il pennarello. “Non l’ho mai fatto” ripete, mentre con il tratto nero e indelebile marchia la pelle del tredicenne sudato ed eccitato, mentre la madre sorride soddisfatta e l’accompagnatore delle due Cassandra si batte la mano sulla fronte e dice peccato, lo volevo pure io.
Una volta finito questo patetico teatrino, con perfetto tempismo, arriva il fotografo. È alto quando me, i capelli biondi tagliati a spazzola e la pelle umida di chi ha parcheggiato troppo lontano. “Piacere a tutti. Io sono il fotografo. Le portiamo a casa queste belle foto?” esordisce, senza neppure dire come si chiama, quasi il lavoro fosse vessillo di tutto ciò che d’importante esiste. Poi batte le mani e inizia a tirare fuori l’attrezzatura.

Mi sento frastornata da tutto questo caldo.

Dall’aria condizionata che s’inceppa e inizia a rimettere prima aria tiepida, poi bollente. Dalla madre che chiede alla scrittrice fantasy che ascendente ha, visto che è ariete come il figlio. Dalle due Cassandra che chiedono al fotografo se può fare loro un primo piano, insieme, di spalle, come le due veline di striscia la notizia. Dal fotografo che neanche si stupisce e dice che va bene, ma che prima dobbiamo montare il set per il servizio della falsa intervista.

Da Luca che viene in sala e annuncia che il carratrezzi sta portando via la mia macchina, perché avevo parcheggiato al posto dei disabili. E dai genitori che mi guardano schifati, neanche fossi un’assassina.

Poi, la scrittrice fantasy sprofonda su una poltroncina verde e si accende una sigaretta. Ha l’aria infelice. I tre bambini intorno a lei chiedono in quante lingue è stata tradotta, quanti soldi ha guadagnato, se anche lei come la principessa del regno dei morti ha un bull.

Davide domanda, un po’ vergognandosi, a una voce appena percettibile “Vuole un bull?”. Fa una pausa strategica, ma Kenny non si scompone; forse non ha sentito. “Posso chiedergli se vuole uno schiavo?” ripete, più forte, quasi urla, e la scrittrice di fantasy sgrana gli occhi, scuote la testa. Forse pensa all’errore grammaticale. In ogni caso, fa finta di non capire, ma i suoi occhi tradiscono sgomento. E allora Davide, raggiante, si indica sulla canottiera appena firmata, che ancora puzza di pennarello indelebile, e dice “Io”. Kenny continua la sua recita e Davide, allora, un po’ imbarazzato si volta verso la madre. Lei annuisce, come un genitore che incoraggia il figlio a dare una monetina allo zingaro che suona la fisarmonica in Campo de’ Fiori. Lui, allora, prende coraggio. “Io. Vorrei essere io” commenta e la scrittrice avvampa. Si stringe nelle spalle. Ha capito che non è uno scherzo. Blatera qualcosa, spiega che ha già un marito, ma nessuno ride. “Se non vuole, va bene lo stesso” si giustifica, senza più decoro, Davide. “Tanto fra un paio d’anni ci rivediamo qui, tutti scrittori di best seller” dice e sorride, fiero, orgoglioso, già proiettato nel suo certo futuro.

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3 Commenti

  1. sei troppo dura.

    è che l’attacco è già difficile da digerire. spiegare tutto, pure la polo ralph lauren, è un errore, secondo me.

    mettere macchine fotografiche, scrittrici, barboni e soprattutto roma ladrona nello stesso racconto è un altro errore, penso.

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