Flebo

di Alice Keller

Flebile tubicino che mi entra nel braccio, che buca la mia sottilissima vena per cercare di ristorare con un po’ d’acqua questa terra secca e arida, per cercare di dare quel nutrimento, quel liquido vitale, che ormai chi doveva farlo non le dà più. Mamma che dà l’acqua a un bambino che non è in grado di gestirsi da solo. Bimba irresponsabile, non sei capace di occuparti di te, non vuoi bere, capricciosa, ora ti imbocco io, te la do io, l’acqua, bimba in coma anche se cammina ancora.

Me la ricordo la mia prima flebo: che terrore, che paura del dolore, erano ancora i primi giorni in ospedale, ancora mi terrorizzavano gli aghi, mi faceva paura il male. I pianti davanti alla richiesta del medico di mettere quel tubicino in vena, il cuore che batteva forte mentre l’ago minaccioso si avvicinava, il terrore di chissà che cosa avrei sentito, e invece poi nulla, non fa male, è fastidiosa all’inizio, non la sopporti, devi camminare con quell’albero accanto a te, devi stare attenta a come usi il braccio, quasi immobile, e poi tutti quei bip, e l’acqua che si inceppa e non scende più, e la sacca da cambiare… Poi tutto cambia, poi entri nel mondo dell’ospedale, è il tuo nido, ormai, e la flebo è un’amica, l’albero accanto a te che sei a tua volta un albero, uno stecco di ebano nero, la seconda gamba del fenicottero, il trofeo della tua anoressia. Quella flebo dimostra che sei anoressica, che rifiuti la vita, che rifiuti il cibo, rifiuti l’acqua, e allora i medici ti obbligano a prenderla con quella flebo; non sei tu che ti nutri, sia ben chiaro, sono loro a importelo, non a te, non alla tua volontà, al corpo, e la flebo lo dimostra, la flebo è il simbolo del tuo rifiuto, della lotta, della risalita controcorrente; e ti vedi bella con tutti quei tubi, ed è bello farsi torturare e bucare, è bello essere importanti perché tutti devono ricordarsi quando cambiarti la sacca; e fanno compagnia le lucine e i bip, hai un cuore e una voce elettronica ora, tu non brilli più, tu sei spenta, ma guarda quante lucine elettroniche intorno a te, la bimba artificiale, quella che non vive più ma cammina ancora.

Però non la stacchi, la flebo, lasci che ti nutra. Nel silenzio, in fondo, non c’erano solo accuse e urla di dolore, il rifiuto era anche una richiesta d’aiuto. Io smetto di mangiare, cesso di nutrirmi, ma per favore, anche se non ve lo chiedo, anche se sto zitta, fatelo voi, finché non deciderò di farlo di nuovo io, perché sono irresponsabile, e ora lotto anche contro la vita, lotto rischiando la vita e non sento il pericolo, non lo vedo, troppo ho sofferto e sono troppo concentrata su di me, sulla volontà, sul mio dolore e la mia rabbia, ma voi che siete razionali, voi che siete umani lo sapete che se cesso io, presto o tardi cesserà tutto, anche se io non me ne rendo conto, e quindi prendetevi cura voi di questo corpo sempre più brutto, di questo trofeo di guerra; io piango, ma in fondo mi lascio cullare, voglio tornare una bimba in fasce, che non fa nulla, che lascia che siano gli altri a occuparsi di lei: lei dorme, e tutti pensano a lei.

tratto da Alfabeto dello stomaco (e del cuore). Ti racconto l’anoressia, Pendragon, 2010
foto di Alessandro Pedrelli (con la partecipazione di Andrea Bizzocchi)

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2 Commenti

  1. Se chiudessi gli occhi e sentissi le parole lette, potrei vederti albero secco con il tuo albero accanto, mentre intorno tutto bianco …

    M

  2. Andrea, tu mi commuovi sempre. E questo post tocca a qualcosa di molto intimo, doloroso. Il corpo in sofferenza, il corpo clinico, il corpo vinto. Perché la storia della fame, la storia dell’albero in terra arsa è una storia di trionfo della libertà. Un giorno una bambina decide di non mangiare, di affrontare il regno del vuoto, con la possibilità di conquistare un terreno eroico: non avere più fame, nutrirsi con altre cose, immaginare un paesaggio della trasparenza, del blu guerresco. Non mangiare è la sola libertà che puo intraprendere una bambina in stato di dolore. Quando avevo sei anni ho rifiutato di mangiare, trovando piacere a fare male, angosciare mia madre e mi sembrava trionfare di tutto. E’ la minaccia di mia madre di portarmi all’ospitale che mi ha fatto cambiare di idea. Non ho avuto la follia di seguire il mio digiuno.
    Il testo di Alice Keller è di un dolore vivo, aguzzo come l’ago chiudendo il grido.
    Non voglio fare l’apologia dell’anoressia, ma ancora oggi mi fascina, sveglia in me qualcosa che non so chiamare, ora non ho fatto una tregua con il cibo, cadendo sull’altro versante, la bulimia di cibo. Se l’anoressia ha la sua lettera di nobiltà, la bulimia ha la sua lettera di solitudine e di desolazione.
    Questo testo mi ha fatto pensare al libro le pavillon des enfants fous de Valérie Valère, libro che mi ha ha fatto compagnia durante l’adolescenza, e che possiedo ancora nella mia biblioteca.

    Un abbraccio a te Andrea.

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