Non ti perdono

di Marco Belpoliti

Lippi che stizzito calcia l’erba del campo da calcio; il presidente del Consiglio che afferma: l’opposizione ci invidia; il coro sul prato di Pontida che manifesta la sua disdetta; il Cardinal Sepe che dal pulpito parla di invidia e risentimento dentro la Chiesa. Spira oggi in Italia il vento secco del risentimento. Tutti risentiti, e spesso per motivi diametralmente opposti. Perché siamo arrivati a questo? Nella società contemporanea sempre più spesso i singoli provano un senso di animosità verso gli altri, o verso il mondo in generale, quale risposta a offese, affronti o frustrazioni che ritengono di aver subito. Risentimento e rancore sono sinonimi; rancore viene dal latino, rancor, “lamento, desiderio, richiesta”, e, come ricorda lo psicoanalista argentino Luis Kancyper, ha la medesima radice di rancidus, “astioso”, di “stantio”, ma anche di “zoppo”; risentimento significa invece: “sentire ancora”. È il ritornare incessante sul proprio stato emotivo senza possibilità di allontanare definitivamente l’offesa o il torto.
Se il torto riguarda la sfera morale, e implica un oltraggio o un’insolenza, scattano reazioni come la rabbia o l’ira; e sono proprio queste due emozioni che si trasformano in rancore e in risentimento. Gli psicologi ritengono che la radice profonda del risentimento si trovi nell’invidia. Perché lui sì e io no? Secondo il filosofo sloveno Slavoj Žižek, l’invidia è qualcosa di più, o di meno, del desiderio di possedere quello che ha l’altro. Žižek racconta una storiella. Una strega dice a un contadino: “Farò a te quello che vuoi, ma ti avverto, farò due volte la stessa cosa al tuo vicino!”. E il contadino con un sorriso furbo le risponde: “Prendimi un occhio!”. Qualunque discussione pubblica oggi finisce immancabilmente nell’accusa reciproca e nel rancore: politici contro calciatori, calciatori contro politici; rimproveri su stipendi eccessivi, rimborsi spese, cachet televisivi; dalla televisione al parlamento è tutto un dito puntato contro gli altri: tutta colpa loro.
L’invidia, del resto, è molto più temibile della stessa gelosia. Oggi, secondo i sociologi, l’inseguimento consumistico, l’ostentazione, porterebbero a insoddisfazioni, forme ossessive di ripiegamento su se stessi, da cui scaturisce la malattia del risentimento; è dalla continua competizione per l’affermazione di sé, uno dei tratti più caratteristici della società attuale, che nasce questo sentimento pernicioso. Rispetto al passato gli individui mostrano una sempre maggior incapacità a sopportare massicce dosi di frustrazione necessarie alla riproduzione del sistema sociale. In definitiva, il risentimento è la condizione sentimentale, scrive Stefano Tomellieri in un suo saggio, La società del risentimento (Meltemi), di chi per lungo tempo ha coltivato un sogno, un progetto, un desiderio, ma non ha realizzato ciò cui aspirava, e ora sente che quanto aveva immaginato non si realizzerà mai: una vera e propria intossicazione dell’anima. Kancyper sostiene che questa emozione è legata alla dimensione temporale e differenzia tra due tipi di memorie: la memoria del dolore, che continua nel tempo della rassegnazione, e la memoria del risentimento e del rancore, che “si trincera e si nutre dell’aspettativa della vendetta in un tempo futuro”. Se si pensa a quanto questo abbia contato, e ancora conti nella storia del nostro Paese, come dimostra il libro di John Foot, Fratture d’Italia (Rizzoli), dedicato alla storia dei monumenti e delle targhe-ricordo. La storia appare un campo di battaglia di una guerra senza fine: Garibaldi, i briganti meridionali, i Borboni, Cavour, la Prima guerra mondiale, gli arditi, D’Annunzio, il fascismo, la Repubblica Sociale, le brigate partigiane, le stragi degli anni Settanta, ecc.
Gli psicoanalisti ci ricordano che il risentimento è legato alle pulsioni di morte: “la compulsione ripetitiva e insaziabile del potere vendicativo”. E si regge sul principio del “tormento”, un pensare calamitoso in cui la collera diventa la sola via di fuga dal tormento interiore. Il rancoroso possiede una memoria implacabile, non può perdonare né perdonarsi; è offuscato dalla memoria di un passato che non può separare e tenere a distanza. Ciò che manca a chi soffre di questo sentimento è la capacità di ri-vivere, quindi di trovare un senso all’offesa patita, o solo immaginata, di farla transitare attraverso l’esperienza del proprio vissuto; non si congeda mai dal ricordo della frustrazione. Sia nel risentimento, come nella vergogna, appare la figura del “rimorso”, il tornare a mordere, o mordersi, sotto la pressione di un’emozione, dice Kancyper, alimentando l’attesa di nuove vendette rivolte, prima di tutto contro se stessi. Sapremo noi italiani uscire da tutto questo, e a cominciare a pensare in positivo?

[pubblicato su La Stampa, ieri]

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12 Commenti

  1. Questo articolo mi evoca un passaggio di un intervento di Cacciari: noi italiani, diceva, abbiamo questa particolarità: non siamo mai riusciti ad essere popolo, comunità, ma aggregazione di individui. Da qui l’egoismo, il cinismo, e il risentimento e l’invidia che qui analizza Belpoliti. Individui rinchiusi nel loro piccolo recinto privato, col piccolo tesoro privato da difendere, e gli altri sono minacce, sono da invidiare, sono privilegiati, non è giusto, e vadano tutti a quel paese che io mi bado a me. Solo essendo popolo che condivide e difende e rispettano servizi e spazi pubblici potremmo andare oltre la continua invidia, il risentimento e il rancore.

  2. Ha ragione Belpoliti: bisogna pensare positivo. Ordine ci vuole, soprattutto ORDINE. Basta fare baffi alla Gioconda. Basta coi risentiti (ma aggiungerei d’ufficio pessimisti e invidiosi). Basta coi risentiti Verga, Pirandello, Svevo, Sciascia, Manganelli, Pasolini, Morante, Eduardo De Filippo (Fujtevenne!), Carmelo Bene, Carlo Cecchi, Giampaolo Rugarli, Pietro Citati, Franco Fruttero (e Lucentini), Guido Ceronetti, Gianni Celati, Stefano Agosti e mi fermo perché c’ho il conato. Basta anche con il risentimento esterofilo. Basta con Nietzsche, Wittgenstein, Thomas Bernhard, Céline, John Fante, Harol Pinter, Noam Chomscky, Charlie Sheen, i primi che mi vengono in mente. SIAMI (pl) POSITIVI. VIVA “ LA REPUBBLICA “.

    PS: e del risentimento sciatico del malinconico Gigi Buffon ne vogliamo parlare? Lo stesso che, per prudenza RIABILITATIVA, lo trattiene misteriosamente nel ritiro gulag Nazionale e gli impedisce da 10 giorni di rilasciare interviste?

    PS2: anche Carlo gliene disse a Bukowski a ollivudde: I think negative because I’m alive, because I’m alive. Per dirla con Cartesio: I think negative therefore I am, therefore I am.

    PS3: Sticazzi!

  3. a parte buffon, di cui non mi frega niente, sottoscrivo il commento di larry massimo. Soprattutto sticazzi.

  4. io molti anni fà ebbi (avei) un risentimento muscolare, cioè un dolore ai muscoli, ma ho capito perfettamente che l’articolo del giornalista parla di un’altra cosa. e cioè di quella brutta sensazione che proviamo quando un’altro è meglio di noi in qualcosa e questo purtroppo capita spesso agli italiani che anche se sono la settima nazione del mondo possono comunque invidiare le sei prime in classifica. oppure quando per esempio abbiamo un hobbi (scrittura, giornalismo, sport, sessualità…) e ci sentiamo inferiori ad un altro che ha quello stesso maledetto hobby ma magari ha successo. a me è capitato molte volte ma negli ultimi anni due e cioè una volta con saviani che ha avuto successo mentre io no, e un’altra volta quando la mia ragazza mi disse che purtroppo il ragazzo precedente aveva ancora il record di rapporti sessuali consecutivi in una settimana, anche se io fortunatamente avevo ancora il record giornaliero e un altro che non posso dire perché è volgare. grazie e scusate e spero che il mio commento centri

  5. mi è sfuggito qualcosa della storia di Buffon…”carta strampalata” è divertente a proposito ma non delucidante.

    To me, il risentimento e l’invidia nascono dal fatto che coloro che vincono spesso hanno giocato sporco.
    La “condizione” sembra dirci che il merito e il lavoro, inteso anche come tempo e passione dedicate a qualcosa, pagano meno della falsità e della millanteria.
    Non provare risentimento in questo caso è da monaci zen.

    Ho comunque deciso di intraprendere la strada dell’illuminazione.

    ps @Gianni Biondillo: ieri sera ti ho difeso su un blog in cui dicevano che non eri uno scrittore. tvttttb.

  6. «In definitiva, il risentimento è la condizione sentimentale, scrive Stefano Tomellieri in un suo saggio, La società del risentimento (Meltemi), di chi per lungo tempo ha coltivato un sogno, un progetto, un desiderio, ma non ha realizzato ciò cui aspirava, e ora sente che quanto aveva immaginato non si realizzerà mai: una vera e propria intossicazione dell’anima»

    «Ciò che manca a chi soffre di questo sentimento è la capacità di ri-vivere, quindi di trovare un senso all’offesa patita, o solo immaginata, di farla transitare attraverso l’esperienza del proprio vissuto; non si congeda mai dal ricordo della frustrazione.»

    Che ne dite dei tanti anarchici, comunisti, sessantottini, settantasettini del passato e oggi dei tanti rifugiati politici, e immigrati riportati con la forza il Libia, e giovani precari?
    «Tutti risentiti, e spesso per motivi diametralmente opposti» o sempre per lo stesso motivo, questi “vinti” della storia?
    Siamo tutti dei conti Ugolino e non ci resta che sperare in un Dante che c’insegni
    la «capacità di rivivere»?
    Ahi noi, quando i cieli eccitanti e indefiniti dello psicologismo astratto ci precipitano addosso e seppelliscono ogni discorso piantato un minimo coi piedi per terra, assieme al post di Sergio Bologna sugli operai di Pomigliano e i precari senza tutele!
    Ri-sentiamoci, per favore!

  7. A pensarci bene, alcibiade, in un mondo livoroso come quello letterario non essere considerato uno scrittore la trovo quasi una liberazione. Ed in effetti sulla carta d’identità c’è scritto altro, alla voce professione. ;-)

  8. Cacciari: noi italiani abbiamo questa particolarità, non siamo mai riusciti ad essere popolo, comunità, ma aggregazione di individui.

    meno male!

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gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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