Una ‘quest’ claustrale
di Stefano Gallerani
A chiusura de La verità sulla morte di Carla (Gaffi, 2005), Raffaele Manica riconosceva all’autore di quei racconti, Andrea Melone, un «universo ossessivo» e una terna tematica in cui campeggiano, come araldi, «i luoghi, il mistero, la colpa». Quanto oggi torna, amplificato ed accresciuto dalla forma romanzo, in Giardini di Loto (sempre per Gaffi, nella collana “Godot”, pp. 283, € 14,80). La scrittura, intarsiata di arcaismi, ibridazioni e neologismi, condivide molti tratti con quell’esordio, ma le diverse possibilità strutturali ne accrescono potenza evocativa e capacità di suggestione. Ed è infatti come si segue uno spartito che si assecondano i diversi capitoli della prima parte del libro, affatto immersi in una dimensione claustrale in cui i personaggi sono prigionieri di spazi – fisici e psichici, in perfetta consonanza – angusti. Scarnificata, la trama corrisponde perfettamente alla morale sottesa: la ricerca di una persona scomparsa che non è mai esistita, e dunque l’affannarsi intorno a un’assenza (ovvero, la creazione di un mondo). L’elusione del racconto piano, poi, lo scarto dei punti di vista narrativi e il conio di un registro espressivo non concordato, fatto di sprezzature, frizioni, discese ed arresti; tutto, insomma, trova la sua perfetta allocazione in una costruzione narrativa che, forte di assonanze ed echi, non disorienta ma induce ad una lettura attiva, partecipe. Si entra nella testa di Liliana, dell’amica Marialuisa, dei figli Marco, Teresa e Piergiulio con lo stesso sconvolgimento che si prova quando si confessa a voce ciò che si prova solo intimamente. Tutt’intorno, volti, persone, antagonisti e deuteragonisti sono nient’altro che proiezioni, inconsistenti e intangibili come fantasmi (tornano alla mente alcune temperature esistenziali de L’airone, di Bassani). L’indagine sul reale è cosa ben diversa dalla mera rappresentazione della realtà, né Melone si confonde. Ma nella seconda parte le prospettive si riducono: la traiettoria principale diventa quella dell’investigatore Raffaele Mensi e la sua quest una microepopea astorica ed esotica, intricata di simboli e metafore, tra accensioni musicali e impressioni sensibili. Anche in questo caso Andrea Melone (nato ad Alatri nel 1969) rinuncia a una soluzione formale acquisita, ma la tensione che sorregge gran parte delle pagine precedenti s’allenta: in Giardini di loto la “metà del libro” non allude solo a una convenzione: è uno spartiacque, là dove si distingue la direzione dell’autore da quella della vicenda. L’impressione è che la sfida lanciata alla letteratura inquisitoria e congetturale – quella di Robert Pinget e Uwe Johnson, per intenderci (ma questi nomi sono solo cardini, non parametri) – manchi di stendere tutte le pieghe che pure lascia intravedere, e però i talenti e i prodigi dispiegati nel primo quadrante del romanzo restano intatti, così come la memoria di una lingua (e, per essa, del pensiero che la sorregge) da cui, una volta riposto il volume, è difficile liberarsi.
L’articolo è apparso su Alias, 10 aprile 2010.