TRISTI MONTAGNE (guida ai malesseri alpini): 2 parte

di Christian Arnoldi

[il passo riportato, come i due precedenti, è tratto da Tristi montagne (guida ai malesseri alpini) di Christian Arnoldi, Priuli & Ferlucca, 2009]

La montagne maudite

Il lavoro di selezione e di integrazione di immagini appena visto ha avuto come effetto l’esclusione e la rimozione di taluni elementi interpretativi e di talune visioni alpine che per tutto il periodo romantico erano andate di pari passo con quelle della belle montagne. La poetica del sublime percepiva le Alpi come un ambiente incontaminato e quindi anche selvaggio, minaccioso, rischioso, pericoloso. Esse erano per eccellenza il luogo sia della meraviglia, sia del terrore. Ricordiamo per esempio le impressioni riportate da Chateaubriand in occasione del suo viaggio sul Monte Bianco nel 1805. Egli ne rimase profondamente deluso e turbato tanto da scrivere, nel suo Voyage au Mont Blanc, che le descrizioni delle montagne apparse nella letteratura di quegli anni travisavano oltremodo la realtà. Egli descriveva le Alpi e in particolare il massiccio del Bianco in tutt’altra chiave: «Le nevi in fondo al Glacier des Bois, mescolate con la polvere di granito, mi sono sembrate simili a cenere; in molti punti si potrebbe scambiare la Mer de Glace per una cava di calce o di gesso […]»; e ancora «[…] nei famosi chalets trasfigurati dall’immaginazione di Rousseau non sono riuscito a vedere altro che stamberghe piene di letame delle greggi, dell’odore dei formaggi e del latte fermentato; come abitanti, vi ho trovato solo miserabili montanari che si considerano in esilio e aspirano a scendere a valle».

Oppure, arrivando alla creazione letteraria vera e propria, ricordiamo le celebri pagine del capolavoro di Mary Shelley, Frankenstein, nelle quali sono descritti con grande enfasi gli spaventosi e sublimi orrori della montagna: «[…] il silenzio solenne di questa gloriosa sala delle udienze della imperiale Natura era rotto solo […] dal fragore tonante delle valanghe o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l’opera silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si crepavano e si spaccavano come fossero stati giocattoli nelle loro mani».

L’invenzione, invece, ha utilizzato e alimentato esclusivamente le immagini e gli elementi simbolici paradisiaci rimuovendo accuratamente ogni riferimento a ciò che poteva sembrare pauroso, sproporzionato, squallido o brutale. Essa ha cancellato ogni nesso con le interpretazioni demoniache e inquietanti, legate al caos, all’entropia, alla rovina, alla perdita e alla morte. Nonostante ciò, questo tema è rimasto clandestinamente attivo e produttivo sino ai nostri giorni; e ha generato un insieme stratificato di interpretazioni e di rappresentazioni: una vera e propria struttura immaginaria che da un lato comprende le letture e le visioni generate nel silenzio dall’arte e dalla scrittura; dall’altro lato quelle elaborate nella solitudine e nell’anonimato di miriadi di esistenze vissute in montagna.

In termini ancora molto approssimativi, riprendendo le analisi di Pietro Bellasi, che a loro volta rinviano direttamente alle intuizioni di Bachelard, potremmo dire che fanno parte di questo sotto-immaginario quelle interpretazioni sorte a partire dagli elementi materiali della montagna; cioè dalla materia, dal granito, dai calcari e in modo particolare da una delle loro caratteristiche elementari, vale a dire la fragilità, la propensione alla frantumazione, alla polverizzazione, allo sbriciolarsi, allo sfaldarsi, insomma alla distruzione. Del resto il paesaggio alpino e le sue forme, come dimostra anche John Ruskin, derivano proprio dalla fragilità della materia, dal suo punto di rottura; sono il risultato di una lotta senza quartiere tra durezza e fragilità, dove l’epilogo varia a seconda si tratti di graniti, di calcari o di materiali composti. Nell’ambiente alpino le forme mutano e variano seguendo il carattere sostanziale della materia, si plasmano seguendo le nodosità e le porosità della roccia. Contrariamente alle credenze comuni, il destino delle montagne non è legato ad un processo di elevazione bensì a quello di erosione, di appiattimento; ad una continua azione abrasiva e di modellamento della materia. Lo stesso Ruskin in Modern Painters sosteneva che il destino della montagna è l’orizzontalità dei deserti; e che ogni elemento dell’ambiente d’alta quota lavora incessantemente per raggiungere questo obiettivo. A suo dire, la forma delle montagne «[…] è quella di un decadimento eterno. Nessuno sguardo retrospettivo può elevarle dalle loro rovine, o preservarle dalla legge del loro destino perenne. […] la loro storia ha un tono uniforme di resistenza e distruzione».

Allora proprio la fragilità e la pesantezza della materia, l’azione invariabile dei grandi determinismi naturali e la loro forza danno corpo ad una visione cosmica della montagna elaborata in certa pittura ottocentesca e novecentesca e in certa letteratura. I massicci montuosi, privi della loro aura mistica, appaiono simili a meteoriti; hanno un aspetto lunare, evocano pianeti disabitati, inospitali, pericolosi. Sono luoghi in-umani nel senso dell’inutilità e dell’accessorietà della presenza umana. I segni eventuali di tale intromissione, i frutti della lotta per la sopravvivenza – case, baite, fienili, villaggi, strade, sentieri, alpeggi, pascoli, campi – sono in balìa del cosmo, delle materie e delle loro forze; sono epifanie momentanee, provvisorie, destinate a scomparire, ad essere travolte, distrutte e inglobate dalla natura.

Si tratta di una visione tragica, o meglio disincantata, che mette a nudo gli aspetti più inquietanti e spaventosi, ancorché banalmente «naturali» ed evidenti, di questo ambiente. Pensiamo alle frane, agli smottamenti, ai crolli devastanti, alle valanghe, alle alluvioni e alle distruzioni. La storia di ogni montagna e di ogni valle è costellata da eventi più o meno catastrofici di questo genere, non soltanto nel passato ma anche nei tempi più recenti. Ricordiamo l’enorme quantità di roccia e di detriti precipitati nel 2007 a seguito del distacco di una guglia di Cima Una, in Sud Tirolo, sulle Dolomiti di Sesto Pusteria, e la conseguente nube di polvere che ha completamente oscurato la Val Fiscalina; oppure la recente colossale frana che nel 2008 si è staccata dal pilastro Castiglioni nel gruppo delle Pale di San Martino, nel Primiero, in Trentino. Questi fenomeni hanno interessato e colpito l’immaginazione di alcuni pittori e più in generale di artisti, non solo del passato ma anche del presente. Tra quelli più noti del periodo romantico ricordiamo William Turner che nel 1810 dipinse La Chute d’une Avalanche dans Les Grisons. Un dipinto apocalittico, che mostra la potenza di una valanga in atto, il cielo oscurato, l’atmosfera satura di polveri, di vapori, di nevischio; massi di ogni dimensione rotolano a valle travolgendo e spazzando via ogni cosa.

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4 Commenti

  1. “Del resto il paesaggio alpino e le sue forme, come dimostra anche John Ruskin, derivano proprio dalla fragilità della materia, dal suo punto di rottura; sono il risultato di una lotta senza quartiere tra durezza e fragilità, dove l’epilogo varia a seconda si tratti di graniti, di calcari o di materiali composti. Nell’ambiente alpino le forme mutano e variano seguendo il carattere sostanziale della materia, si plasmano seguendo le nodosità e le porosità della roccia. Contrariamente alle credenze comuni, il destino delle montagne non è legato ad un processo di elevazione bensì a quello di erosione, di appiattimento”. eccetera.
    direi che, senza far torto a Ruskin, questo è il processo di de-confomazione di tutti i paesaggi, o quasi.

  2. La società montana dopo la 2°guerra è investita da 3 eventi:

    – la fabbrica ed il lavoro in pianura, che svuotano le valli e trasformano l’economia locale: abbandono dell’agricoltura/allevamento, delle attività artigianali locali;
    – lo sfruttamento delle risorse idriche e minerarie: dighe e centrali idroelettriche cambiano il territorio, sono espressione di capitali di pianura, lasciano, dopo la costruzione poco lavoro in valle; le attività minerarie muoiono, le poche attività estrattive superstiti si accaniscono sull’ambiente locali (cfr piano cave provincia di Bergamo)
    – il turismo e la speculazione immobiliare, che svuotano e riempiono le valli, ne mettono in crisi il sistema culturale e portano a modifiche profonde e duraturamente costose del paesaggio (impianti sci, seconde case).

    Tristi tropici.

  3. @pecoraro

    sì chiaro, i paesaggi mutano e tanto più quelli scoscesi o, per dirla con la geomorfologia, ad “alta energia di rilievo” (cioè più soggetti appunto a cambiamenti);

    il problema è che noi, nel nostro eterno presente, ce ne dimentichiamo;
    ogni volta che crolla un pezzo di Dolomiti, come ricorda anche Arnoldi, ne nasce lo sconcerto più totale;

    i geologi, con la loro abissale visione temporale, parlano di “cicli orogenetici” (= sostanzialmente le montagne sono destinate a erodersi, vale a dire a formare sedimenti, che a loro volta formeranno – in un ciclo successivo, appunto – altre montagne);

    @jan

    aggiungerei l’inquinamento, che dalle valli risale, contrariamente a quello che si crede, anche in quota;

    per l’autostrada del Brennero passano 2.000.000 di camion all’anno; e adesso i nostri governanti si stanno battendo, quando la Convenzione delle Alpi, organo più che ufficiale, ha decretato da anni che non si possono più costruire grandi arterie sulle Alpi, a ultimare la nefasta autostrada PIRUBI;

  4. L’idea del paesaggio come risultante di un processo lunghissimo et concomitante di costruzione/de-costruzione, l’idea che la bellezza naturale è fatta di macerie di macerie di macerie, cioè di residui et sedimenti di qualcosa che non ha mai raggiunto lo status di interezza et unità, difficilmente passa nella mente dei più, avvinti come siamo all’idea di una Natura (almeno lei!) salda et sempiterna, che NOI con la nostra depravata et perversa azione manomettiamo, creando così quello che si chiama «dissesto idrogeologico», eccetera. Motivo per cui TUTTE le frane sono colpa nostra, TUTTE le alluvioni, i tremuoti, persino, le piogge torrenziali, le eruzioni, l’erosione delle coste, eccetera. Se è vero che facciamo la nostra parte di modificatori, certamente questa parte non è più incisiva di quella giocata dal fitoplancton, dai lombrichi, dai batteri, (scusate mi ripeto, sono un po’ fissato con questa roba) eccetera. Il mondo è instabile per definizione, ma ce lo scordiamo, perché i tempi del cambiamento sono per noi inconcepibilmente lunghi. Però da quando sono in vita ho visto crollare un arco naturale (l’Arco Muto ad Anzio), uno dei faraglioni del porto di Ponza, una grotta in un’isola greca, eccetera. Per quanto tempo ancora il Cervino avrà la forma del Cervino?

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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