Stregature: Antonio Pennacchi
Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, pp. 460, € 20
Gli editori del Bel Paese sono ossessionati dal “grande romanzo italiano”. Lo cercano, lo stampano, lo propagandano, come nel caso del pessimo Acciaio della Avallone, caso editoriale coltivato in batteria. Forse deve ancora nascere il romanziere che ci dia il nostro Tamburo di latta, oppure qualcosa come I figli della mezzanotte. Intanto ci accontentiamo di questo Canale Mussolini dello scrittore ex operaio Antonio Pennacchi. Non è un cattivo libro, anzi, ha molti meriti: si fa leggere, è scorrevole, ha momenti davvero riusciti, unisce le storie di ieri con quelle di oggi.
Ma nel complesso non riesce nell’impresa che si propone: raccontare la storia d’Italia dalla Prima guerra mondiale, e dalla nascita del Fascismo, al secondo dopoguerra, seguendo le vicende di una famiglia emiliano-veneta, i Peruzzi, che dalle terre del Po migrano verso l’Agro Pontino in cerca di fortuna, là dove il Duce e i suoi accoliti hanno bonificato le paludi ed eretto le città nuove. Pennacchi ha l’andatura del narratore popolare, tutto divagazioni e improvvisi strappi, tuttavia le sue storie, e molti personaggi, sono in gran parte ricalcati con la carta copiativa da libri di storia, e alla fine Canale Mussolini vira verso il metaracconto.
Nei momenti migliori sembra una versione pseudofascista di Novecento di Bertolucci raccontata da un seguace del primo Celati, quello della Banda dei sospiri. Il tono epico, che spetterebbe a un romanzo del genere è volto tutto verso il fiabesco che con la Storia non fa a pugni, ma qui tutto diventa caricaturale e a tratti persino grottesco. Pennacchi ha composto un album di figurine Liebig; i suoi personaggi non hanno lo spessore che meriterebbe la materia narrata, come la nascita del Fascismo o la figura tragica di Benito Mussolini. Il fasciocomunista, come si è autodefinito, è, alla fin fine, più comunista che fascio e si stempera nell’indecisione: della tragicommedia italiana rimane poco e anche l’assassinio politico finisce in favoletta, come l’avvento stesso della dittatura. Peccato perché il passo da vero narratore l’ex operaio di Latina lo possiede davvero, come la capacità di andare a passo di corsa: un garibaldino in camicia nera.
Posso dire che dal curatore delle opere di Primo Levi mi sarei aspettato una recensione più impegnativa, non queste venti righe buttate giù con fretta.
Innanzitutto, Lei, Belpoliti non capisce che Pennacchi non vuole affatto narrare la Storia d’Italia attraverso una famiglia, ma vuole narrare la storia della sua famiglia e di quelle altre che hanno fatto un vero e proprio esodo.
secondo poi, la cifra epica non è da cogliere chissà dove, ma appunto, nella narrazione dell’Esodo biblico.
terzo, non dice un cazzo sulla ricerca linguistica, che fa di questo romanzo (in realtà esso è la prima parte di una saga che dovrà concludersi) un lessico familiare in salsa veneto pontina.
Cosa poi c’entri tutto il discorso politico dello scrittore in camicia nera etc, me lo deve spiegare.
Anche lei si fa condizionare dalle politiche editoriali di certi giornaletti di regime? Non mi risponda, grazie. Solo, si mangi le unghie , fra qualche decina di giorni, quando questo capolavoro avrà vinto due premi, lo Strega e il Campiello.
essendo, per motivi che qui non espongo, un sostenitore di Pennacchi (questo libro non l’ho ancora letto, donc non mi pronuncio), riguardo allo Strega e al Campiello toccherei ferro, o balls, a scelta.
Di Pennacchi ho letto “Fascio e Martello- Viaggio per le città del Duce”, edito da Laterza, e di sicuro è uno scrittore “vero”; ben caratterizzato da una scrittura forte e personale, assolutamente coinvolgente e non banale, “crassa” e provocatoria, che tiene ben desta l’attenzione del lettore. Che sia stato, in gioventù un iscritto al Msi, m’importa poco. Di certo è uno che sa come scrivere e tenere viva l’attenzione del lettore senza facili trucchi. Leggerò questo libro e poi vedremo.
La sensazione che ho ricavato leggendo la recensione del sor Belpoliti è che non conosca a fondo la produzione pennacchiana. Magari è un’impressione sbagliata. Criticare è lecito. Dissentire pure. Ma la padronanza affabulatoria di Antonio Pennacchi è evidente almeno dai tempi di “Palude” (Donzelli) e gli unanimi consensi recentemente riscossi presso i selezionatori del Campiello sono la dimostrazione della fondatezza delle mie note. Forse vi siete persi qualcosa?
Non avendolo specificato (mea culpa) voglio solo rammentare che queste recensioni sono state scritte per L’espresso, ecco la ragione della loro brevità (n. battute fisso e inderogabile).
finora tra quelli che ho letto il miglior pennacchi è Mammouth.
Scusate, ma perché non lo dite subito che sono per L’ESPRESSO?
Ho faticato a leggere canale mussolini, uno specchio dell’Italia che , antico, forse incurabile male, si vanta sempre della propria confusione, della mancaza assoluta di dignità, dello spirito familista più cialtrone, del confondere sempre la storia con le storie, del non sapere mai di cosa si sta facendo (ad es: “la resistenza” dei padani contro gli americani, senza capire dove si va a menare.) E il destino di tramutare tutto in tragicomiche situazioni, dove tutto si riduce al proprio immediato tornaconto. Una tristezza infinita. Una lingua-dialetto improbabile e volgare, una noia mortale.
E uno.
Presto verrà il due.
PS. Quanto al dialetto, lei Wif non immagina nemmeno quanto di scavo e di studio ci sia nel testo che lei ha letto, frutto di studi con luca Serianni, totolare della cattedra di Storia della Lingua italiana a Roma. Sul parlato veneto-pontino, ci sono un mare di studi. Ma bisogna leggere letteratura specialistica
“Scavo e studio”? I risultati di quest’asserita indefessa ricerca linguistica io non li ho visti. Pennacchi usa un UNICO registro linguistico, che è quello basso-colloquiale, infarcito di un dialetto a lui ben noto (per riprodurre il quale non credo abbai avuto bisogno di particolari approfondimenti).
Lei non è informato. Lei crede nel mito dell’ingenuità linguistica di Pennacchi, ma non sa che ci sono continui confronti con grossi nomi della storia della lingua italiana e della dialettologia italiana che insegnano in Sapienza e in Normale.
Ma non siete tenuti a sapere tutto, saluti.
Posso credere all’esistenza di tutti i confronti che vuole, il problema sono i risultati oggettivamente riscontrabili da un lettore qualsiasi (e non dai familiari del Sig. Pennacchi): un lessico povero e sciatto ma soprattutto comunissimo a Latina, dove non esiste un dialetto vero e proprio e ci si limita a parlare un italiano semplificato con influssi dei dialetti romanesco e centro-meridionale. o – nel caso delle comunità provenienti dal Veneto, dal Friuli etc – dei dialetti norditaliani di provenienza.
Per farla breve, qua come Pennacchi ci parla pure il pizzicarolo, e il problema è che Pennacchi non è Giorgio Manganelli, e non è bono a cambiare registro perché ne conosce solo UNO.