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IL CASTELLO (3 parte)

di Giacomo Sartori

Il secondo giorno mi sono alzato, e ho cominciato a aggirarmi per il castello ancora silenzioso. A quanto pare i fantasmi erano già andati a letto, mentre gli scrittori veri o posticci che fossero non si erano ancora alzati. Le solite sale con le solite armi appese alle pareti, i soliti quadri, le solite profonde finestre con i soliti cortili interni e bastioni, i soliti saloni affrescati, i soliti corridoi e disordinati scalini. Adesso non avevo più paura di perdermi, sapevo che bene o male ce se ne veniva sempre fuori. Bastava avere pazienza, non lasciarsi prendere dal panico. Il problema piuttosto era la colazione. Camminavo e camminavo, e neanche l’ombra di un locale con qualcosa anche solo lontanamente alimentare. Si sarebbe detto che il castello fosse assediato da anni, e le scorte fossero ormai finite da un pezzo. Se fossi capitato nella cucinona tecnologica e rinascimentale della prima sera, mi dicevo, certo avrei trovato qualcosa da mettere sotto i denti. Ma non riconoscevo nulla che mi facesse pensare ai percorsi già fatti. Ancora stanze, ancora gradini, corridoi, sale affrescate o non affrescate, finestre infossate nei muraglioni, schioppi e alabarde, quadri, arazzi, e nemmeno l’ombra di una cucina. Stavo già domandandomi se non fosse per caso più saggio tornare alla macchinetta del caffè nel cesso accanto alla mia camera, ammesso che potessi ritrovare quel lontano settore, quando captai vaghi echi di voci che arrivavano affiochiti da un’infilata di stanze. Li ho seguiti, fermandomi ogni tanto per essere sicuro di non perderli, e dopo un po’ è cominciato anche l’odore di caffè. E sono sbucato in un salone con un immenso tavolone allungato imbandito per la colazione. Ero stato fortunato, la colazione era lì.

All’immenso tavolone imbandito di ogni ben di dio stava seduta una sola persona: il corposo giovane critico. Stava abbuffandosi con mattutine alacrità e buon umore. Seguitando a abbuffarsi con mattutine alacrità e buon umore mi ha tessuto le lodi critiche di una delle marmellate fatte in casa, e anche dei croissant, sempre fatti in casa, e beninteso ancora caldi. Ma anche tutto il resto era buono, mi ha detto. Salvo i burrini, che purtroppo erano congelati, ha sospirato, come parlando di un’edizione un po’ transandata. Mentre mi davo anch’io da fare è apparso il marchese, racchiuso fino al mento in una vestaglia di raso. Non si trattava di un fantasma, almeno a giudicare dalla più che verosimile tridimensionalità, dal frusciare dei passi e del respiro, dall’odore di acqua di colonia, e da tanti altri dettagli. Il corposo critico non l’ha riconosciuto, fantasma o non fantasma che fosse. Allora gli ho dato una filologica gomitata, sussurrandogli a margine che era il padrone di casa. Il marchese ha ricambiato i nostri saluti affabilmente, con una magnanimità trattenuta, come salutano i nobili i manipoli di villani che si sfamano al loro desco, e ha detto che il suo letto era un po’ umido. Probabilmente tutti i castellani devono dire che il letto è un po’ umido. Come i proprietari delle grandi barche dicono che il mare era un po’ mosso, o i possessori delle fuoriserie si lamentano delle sospensioni sono un po’ dure, i proprietari dei cavalli costosi che i cavalli sono bizzosi. Non si può dire: sono contento di possedere un castello, sono proprio felice di essermi comprato questo cavallo così costoso o questa fuoriserie, e allora si dice il letto era un po’ umido, il mio cavallo è un po’ birichino, le sospensioni mi massacrano la prostata.

Quando ho chiesto al marchese come facevano un tempo a scaldare, pensando in realtà alla villa dove sono cresciuto, e alle sue enormi stufe settecentesche di maiolica, mi ha risposto che le stanze erano circondate dalle canne fumarie dei camini, il che permetteva di stemperarle. Ma naturalmente i camini potevano servire anche per sentire cosa si diceva nelle varie camere, ha aggiunto, riprendendo l’aria furbetta con cui si aggirava in incognito tra gli invasori del castello. Era evidente che quell’aspetto gli stava ben più a cuore dei problemi del riscaldamento. Non era un fantasma, ma aveva la curiosità  birbona dei fantasmi.

Lo scrittore invitato all’incontro che avevo contribuito a organizzare era arrivato, mi informò qualcuno. Mi aspettava in disparte, con il corpo rigido e lo sguardo rivolto verso terra. Come aspettano gli autisti, o i servitori, che sono a disagio, e non sanno dove ficcare la grandi mani. Il suo corpo secco e forte da contadino sembrava non avere niente a che fare con quell’iniziativa metà festaiola e metà seriosa dedicata alla letteratura, sembrava voler sottrarsi al più presto. E ancora più combattuta appariva la faccia disattenta e come delusa. Era senz’altro il più grande scrittore di racconti del paese, e forse il più grande scrittore tout court, come avevano subito capito i grandi vecchi della narrativa italiana che lo avevano letto negli anni settanta, subito pubblicandolo sulle migliori riviste letterarie. Poi però i grandi vecchi erano tutti morti, e lui non era mai diventato un famoso scrittore, e nemmeno uno scrittore mediamente famoso. Si erano imposti scrittori legati ai tempi, diafani e spesso petulanti scrittoruccoli che avevano il polso della situazione: i veri scrittori. Lui aveva continuato a pubblicare con difficoltà, in genere con piccolissime case editrici, aspettando ogni volta anni. Dieci, quando gli era andata peggio. Con i suoi struggenti e potentissimi racconti non aveva mai guadagnato il becco di una lira. Si manteneva e manteneva la famiglia facendo il metronotte. Il metronotte, da decenni.

Il marchese vagava tra gli scrittori posticci e il loro sparuto pubblico con le mani dietro la schiena, fermandosi a guardare lontano: ascoltava in realtà quello che si diceva alle sue spalle. Probabilmente ai suoi occhi eravamo bambini, ignari e sognatori bambini. Il valoroso e forse anche spietato guerriero di origini longobarde che era in lui non poteva certo fare a meno di disprezzarci. La sua anima contemporanea era però forse attratta suo malgrado dai nostri inattuali e fragili castelli di parole. Anche lui respirava e si muoveva in un universo che non esisteva più, un cosmo ormai solo immaginario, precariamente puntellato da mura restaurate, lacerti di miti e sbrigativi sunti di leggende. Le pietre della sua reggia erano in fondo malferme come lo sono le parole della letteratura. Anche lui per certi versi era ormai solo una finzione, anche per lui il castello era ormai solo un gioco. Un gioco impegnativo e forse faticoso, ma pur sempre un gioco. Avevo saputo che nel castello, già aperto alle visite e ai gruppi turistici, pensavano ora di installare delle camere gestite come un normale bed and breakfast.

Quando avevo chiamato il grande scrittore metronotte per metterci d’accordo gli avevo detto che le cose che scriveva erano tutte eccezionali, e che la sua opera, composta ormai da tanti libri, costituiva già ora un corpus assolutamente unico. Lui si era schermito, aveva balbettato le frasi che si possono immaginare. Ma qualcosa in lui sapeva benissimo che avevo ragione, perché un grande scrittore non può non essere cosciente di quello che fa, non può non accorgersi se non altro che i libri dei suoi colleghi sono infinitamente inferiori a quelli che scrive lui. E questo ero riuscito effettivamente a farglielo ammettere. Qualcosa in lui non era però d’accordo con quello che dicevo, non poteva essere d’accordo: non si schermiva solo per modestia e pudore. Aveva bisogno di preservare quella landa dentro di lui scarificata dalle umiliazioni decennali e che costituiva il suo solo orizzonte di vita: la dura esistenza di tutti i giorni, il lavoro la notte, le ore di sforzo artigianale da cui uscivano le sue preziose pagine, la fatica accumulata, i dubbi che lo assalivano, l’apparente assenza di senso. Aveva bisogno che non gli sconvolgessi quel suo mondo. Le incursioni anche benevole possono rivelarsi ferite mortali.

Lo scrittore avvenente incedeva offrendo i suoi strenui ancheggiamenti ermafroditi e i suoi fluttuanti sorrisi suadentemente reclinati all’indietro. Non solo le gote appiattite da gatto, anche i denti corti e quadrati erano pasoliniani. Incrociandolo avevo l’impressione di essere trasparente: i suoi occhi percorsi da appassionate nubi temporalesche rimanevano immobili, non avevano la minima esitazione. Nulla in me attirava la sua attenzione. Aveva probabilmente ragione, mi dicevo.

Sono uscito dal castello come si esce dalla finzione di un film, sono tornato a casa mia con la macchina che secondo gli opulenti codici attuali è una carretta ma a me sembra un’ammiraglia. Il giorno seguente ho ricevuto una mail dal grandissimo scrittore metronotte. Si scusava. A suo dire all’incontro con il pubblico non era stato molto brillante. Il problema è che al castello era stato fin dal primo momento molto a disagio, non poteva concentrarsi. Aveva l’impressione di esserci già stato, di conoscere già molto bene le cose che vedeva. Soprattutto le pietre degli stipiti e le lastre della pavimentazione. Soprattutto le vecchie pietre. Anche gli infimi dettagli delle pietre. Quasi avesse vissuto in quel castello, dove anni prima aveva ambientato un lungo racconto, senza però averci mai messo piede, per molto tempo. Del resto anche quando mi aveva visto aveva avuto l’impressione conoscermi già da molto tempo. Gli ho risposto che le cose erano state molto interessanti: non si era notato che era preso da cose più importanti. Quelle che gli permettevano di scrivere le frasi incredibili che scriveva.

(fine)

[la foto, Alla ricerca del vocabolario perduto, è di Gianni Paoletti]

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5 Commenti

  1. sì, ben riuscito, divertente il “corposo” critico a colazione che si abbuffava con mattutina alacrità e buonumore, e il marchese poi, un classico. Il grande scrittore metronotte è personaggio dolente, sconfitto e rassegnato, e qui forse c’è una forzatura (voluta?), per esempio potrebbe anche non essere così umiliato, ma più consapevole che così stanno le cose e un sorriso vince sempre su tutto, però forse il mio è solo un auspicio, forse è proprio così che si presenta un “perdedor”. Mi resta la curiosità, già dal racconto precedente, su questi giovani scrittori di diabolica bellezza, “i suoi strenui ancheggiamenti ermafroditi e i suoi fluttuanti sorrisi suadentemente reclinati all’indietro”, e “i suoi occhi percorsi da appassionate nubi temporalesche”: non si sarà verificata, lì al castello, una riedizione de “la morte a venezia?”

  2. Concordo. Godibilissimo contrappunto.
    Suonero’ un po’ blasfemo, ma questa cosa del ritiro degli scrittori nel castello mi ha da subito richiamato alla memoria un romanzo (non riuscitissimo) di Palahniuk “Cavie”. Oltre ai fantastici “destini incrociati” di Calvino.
    Castelli, luoghi di fantasmi e di racconti… Perfetta ambientazione. Chissa’ che non ne escano fuori parole capaci ancora di far riflettere e d’inquietare…

  3. CASTELLO: l’operazione più drammaticamente autocelebrativa che abbia visto su NI: l’autoironia a mezzo caricatura. Abbravi!

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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