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Fiero del mio sognare

di Gianluca Veltri

Nel 1972 Guccini ha trentadue anni. È già distante dai miti di quell’epoca, che del resto si incamminano lentamente per conto proprio verso il tramonto. Verso la fine di quell’anno scriverà un testo come quello di “Canzone delle osterie di fuori porta”, che celebra proprio la fine del flower power e la fosca irruzione del terrorismo:

son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte.

Come avrebbe chiosato Woody Allen, “Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene”.
Poco tempo prima di questo passaggio, il cantautore – “la montagna nel cuore” – licenzia un Lp come RADICI. Lo stacco rispetto alla contemporaneità è forte e netto. Dice in proposito: “In un periodo in cui molti volevano fare tabula rasa del passato, io invece cercavo questo passato per capire che cos’ero, avevo bisogno di trovare qualcosa che mi appartenesse, e quindi le radici”. Forse è anche il risultato di successivi sradicamenti subiti (sebbene non tutti avversati): da Pàvana a Modena, da Modena a Bologna. […]
Può sembrare curioso che proprio in questo album sia contenuta “La locomotiva”, ossia il brano che ha consegnato Guccini alla canzone politica di protesta (con qualche equivoco). Ma è così; lo approfondiremo più in là.
L’autore spiegava la genesi di RADICI così: “Ho fatto una serie di canzoni che rimandavano, anche se in maniera diversa, tutte allo stesso tema. Per cui c’era ‘Radici’ che parlava esplicitamente della casa, ch’era il mulino dei miei nonni; ma ‘La locomotiva’ potrebbe essere segno di radici politiche; ‘Incontro’ segno di radici modenesi; la ‘Canzone dei dodici mesi’ segno di radici culturali”.
Insomma: tutto è radici.
Se L’ISOLA NON TROVATA – l’Lp precedente – ha un’aura di mistero, RADICI possiede il fascino di un’aura antichizzata, virata seppia.
“La copertina fu una grande idea”, ricorda giustamente Guccini in “Portavo allora un eskimo innocente”. “Si tratta della foto dei miei bisnonni, con dietro mio nonno, mio prozio con le due sorelle”.
La foto è uno di quegli scatti un tempo epocali, nei quali la famiglia al completo si radunava in austera posa attorno al patriarca. Siamo al Mulino di Pàvana, presumibilmente ai primi del Novecento. A campeggiare seduto, altero e baffuto, è il burbero bisnonno Chicón – accrescitivo di Francesco – e, affianco a lui, la non meno fiera moglie Maria Fornaciari. In piedi, dietro, i loro quattro figli: Giuseppa (la mamma di Silvano Bonaiuti), Pietro (nonno del Nostro), Enrico (Amerigo) e Teresa, la prozia il cui nome si perpetuerà nell’unica figlia di Guccini.
Dei bisnonni – morti lui il ’41 e lei il ‘44 – Guccini racconta in “Cròniche epafániche”: “L’unica a tenere testa [a Cichón] era la moglie, come dimostra il fatto dei vasi da notte. A lui sembrava esagerato comprarne un paio nuovi, lusso eccessivo; lei allora andò a Porretta e ne comprò venti”. Si era sempre chiesto da bambino, Francesco, prima di conoscere il retroscena, a cosa mai si dovessero tanti vasi da notte in casa.
Il ritorno alle radici di Guccini non è frutto di “nostalgie da ricchi”, come egli stesso chiamerà in “Amerigo” certi filosofemi. Non è neanche soltanto un consolatorio “custodire i ricordi, carezzare le età”. Si tratta invece di un percorso personale ch’è fatto di ricerca esistenziale, nel quale il cantante pone domande a se stesso e a un’entità superiore – perché antica, testimone di generazioni trascorse, solida. Al fondo, come canterà molto tempo dopo in “Odysseus”,

c’era l’anima mia che è contadina.

“Radici” è un pezzo che, pur non essendo affatto invecchiato male, reca dentro di sé le spie del tempo in cui fu concepita. È una canzone che non è difficile accostare a composizioni sue coeve di Alan Sorrenti, della PFM o dei Moody Blues. Inizia con un pianoforte un po’ in sordina, quasi fosse suonato nella stanza accanto, per poi proporre una stratificazione di strumenti com’era nello stile del produttore di Guccini dell’epoca, Pier Farri.
Dal punto di vista tematico, “Radici” rappresenta la prima puntata di un itinerario che, attraverso Amerigo, porterà al libro “Cròniche epafániche”. Le due canzoni sono importanti quanto un romanzo, e danno il titolo, ciascuna, all’Lp che aprono. Continua “Radici”:

Quanti tempi e quante vite sono scivolate via da te,
come il fiume che ti passa attorno,
tu che hai visto nascere e morire gli antenati miei,
lentamente, giorno dopo giorno
ed io, l’ultimo, ti chiedo se conosci in me
qualche segno, qualche traccia di ogni vita
o se solamente io ricerco in te
risposta ad ogni cosa non capita.

Il brano è una presa di coscienza: il sentirsi parte di un flusso, tassello di un mosaico vivente. È una sensazione che Guccini esprime (dopo più di trent’anni) anche in “Vite”:

Tu sei quelli che son venuti prima
che in parte hai conosciuto, e quelli dopo
che non conoscerai, come una rima
vibrante e bella, però senza scopo.

“Verso i trent’anni”, dirà l’artista in un’intervista a «Repubblica» del 2003, “ripensando a quello che Pàvana era stata per me, ho cominciato a esaminarla con consapevolezza adulta”. Come risposta a una “crisi mai chiarita” (di cui Guccini parlava in “Un altro giorno è andato”, pezzo dell’album precedente), dev’essere sembrato un approdo quanto mai solido per il cantautore, quello di avvertire se stesso come terminale provvisorio di una linea, espressione di una continuità vera, seria, radicata. Le promesse di futuro sono state illusorie, non è lì che bisogna volgere lo sguardo. Si cerca la risposta in ciò che è già stato prima di noi, che ha già affermato nel tempo la sua giustezza. La ricerca di una giustificazione di sé nel passato e la riverenza verso le esperienze perdute rendono vero soltanto quel che ci ha preceduto, quel che è conosciuto e consolidato.
La riscoperta di Guccini è sentimentale ed esistenziale. Eppure sembra che il narratore rimanga schiacciato sotto il peso della storia, e non sia in grado di dare risposte ad alcuni interrogativi:

Ma è inutile cercare le parole,
la pietra antica non emette suono
o parla come il mondo e come il sole,
parole troppo grandi per un uomo.
E te li senti dentro quei legami,
i riti antichi e i miti del passato
e te li senti dentro come mani,
ma non comprendi più il significato.

Frutto di un forte viscerale sentire, la percezione del radicamento nondimeno è costellata di dubbi irrisolti, legami che si avvertono possenti ma dei quali non si afferra più il senso.
Su questo punto, il Guccini di “Amerigo”, e ancor di più quello del romanzo “Cròniche epafániche”, farà segnare dei rilevanti passi in avanti. Anni dopo, infatti, il cantastorie comprenderà il significato che ancora in “Radici” gli sfuggiva: non sentirà più come “troppo grandi per un uomo” le parole antiche e misteriose che la casa gli rivolge. La voce del passato non si rivelerà più un sussurro incomprensibile e lui sarà in grado di interpretarla e riferirla. Sebbene, ancora in “Vite”, tornerà a dire che “è inutile cercare una risposta”, perché “non saprai e non sai”.
Il Guccini di “Radici” non è ancora un romanziere; questo del 1972 è un passaggio fondamentale e necessario, ma il cantastorie dovrà superare una dimensione che ancora è di empasse e incompletezza, di sentire impressionistico potente ma impreciso. Riuscirà a farlo proprio grazie alla forza del racconto, quando capirà che soltanto raccontandolo, avrebbe dato un senso a quel passato (oltre che al proprio presente). Quei legami si potevano svelare con le parole che si fanno romanzo, che si srotolano nella loro forza nativa per riepilogare, rievocare, trasformarsi in epos. Per non smarrire le parole e le memorie, per non vederle irrimediabilmente allontanarsi, scrive Javier Marías che dobbiamo ripetere, eternamente e spropositatamente. Si chiede ancora il Guccini di “Radici”:

Ma che senso esiste in ciò che è nato dentro ai muri tuoi,
tutto è morto e nessuno ha mai saputo
o solamente non ha senso chiedersi,
io più mi chiedo e meno ho conosciuto.
Ed io, l’ultimo, ti chiedo se così sarà
per un altro dopo che vorrà capire
e se l’altro dopo qui troverà
il solito silenzio senza fine.

Insomma, sembrerebbe che per il cantautore, all’epoca, non vi fosse motivo per chiedersi più di tanto. Forse in quel momento è già molto aver compreso che:

La casa è come un punto di memoria,
le tue radici danno la saggezza
e proprio questa è forse la risposta.

La risposta spesso sta dentro una domanda ben posta. E con RADICI siamo più che a buon punto. Sul retro di copertina del disco trova posto un altro esercizio di verità: “Dietro”, spiega Guccini, “provammo diversi esperimenti, ma alla fine optai per una foto mia e di Roberta, che nel frattempo era diventata mia moglie, con sommo gaudio dei miei genitori [che mal tolleravano una convivenza
more uxorio]. La foto del retro di copertina, scattata in via Paolo Fabbri, era il simbolo della continuità, il ponte tra generazioni, il passaggio tra i vecchi e i giovani legati dalle stesse radici”.
Il simbolo della continuità.
È più unico che raro, un caso di tale osmosi tra storia personale e arte: perché la stessa casa bolognese che fa da sfondo sul retro di RADICI finirà nel titolo di un disco che vedrà la luce solo qualche anno più tardi, VIA PAOLO FABBRI 43, quello con la foto barbuta, destinata a divenire il logo gucciniano, in copertina. Come si vede, tutto si tiene, e strettamente, in un songbook di straordinaria sincerità e messa a nudo di se stesso.
Il canzoniere di Guccini è una mappa autobiografica.
Era, varrà ancora la pena di ricordarlo, solo il 1972.

[Estratto tratto da “Francesco Guccini. Fiero del mio sognare”, per gentile concessione di Arcana edizioni]

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6 Commenti

  1. “siamo qualcosa che non resta / frasi vuote nella testa / e il cuore di simboli pieno” tocca i nervi e scuote il cervello…
    Mi porto dentro le sue canzoni come un talismano da tirare sempre fuori quando cerco risposte.

  2. Giugno che sei maturità dell’anno
    di te ringrazio Dio
    in un tuo giorno sotto il sole caldo
    ci sono nato io, ci sono nato io.

    o giorni o mesi che…….

  3. Eccola, Radici :

    http://www.youtube.com/watch?v=rATcfXX8hwo

    “Il brano è una presa di coscienza: il sentirsi parte di un flusso, tassello di un mosaico vivente”, dice a un certo punto Veltri. Per me, che avevo 18 anni quando ho “scoperto” Guccini (esattamente nel 1972), Guccini è stato “una presa di coscienza: il sentirsi parte di un flusso, tassello di un mosaico vivente”. La presa di coscienza di non essere più “soggetto passivo”, “consumatore”, ma giovane non più adolescente che scopre il proprio “sè critico” e guarda al mondo con occhi nuovi. Insomma, un fratello maggiore che ti propone di guardare al mondo e alle cose in modo nuovo, ma senza l’aria di dirtelo. Questo è stato Guccini (e il rock progressivo, e il jazz, e la musica classica e dodecafonica e ogni sorta di invenzione musicale, teatrale e cinematografica) per me e migliaia di diciottenni come me, nel 1972.

  4. “e capirai che la vera ambiguità
    è la vita che viviamo, il qualcosa che chiamiamo esser uomini…”

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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