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IL CASTELLO (2 parte)

di Giacomo Sartori


[ritaglio questi altri paragrafi dallo stesso testo]

Il primo dibattito organizzato da noi scrittori posticci si svolgeva nella loggia della corte principale del castello, dov’erano state disposte le poltroncine di plastica. Discettava un giovane e conosciuto critico dal poderoso fisico che aveva accettato di venire a proprie spese. I veri scrittori erano seduti sul fondo, dietro a un tavolo perpendicolare appunto alla lunghezza della loggia. Erano appostati uno di fianco all’altro e avevano tutti gli occhiali da sole. Quegli antipatici occhiali molto scuri che coprono completamente gli occhi, con delle forme ovaleggianti o anche allungate lateralmente, forse alla moda. Una schiera di giovani scrittori con gli occhiali che nascondevano i loro occhi orgogliosi e avidi di scrittori rampanti. Non si mescolavano con i comuni ascoltatori e con gli scrittori posticci, e i loro nevrotici dinoccolamenti facevano anzi capire l’incolmabile reticenza a un’attitudine puramente recettiva, a un pedissequo assistere. Facevano pensare ai Blues Brothers, senza però la spudorata innocenza, e anzi con i visi percorsi da involontari tremiti di sufficienza. Ma erano pur sempre presenti. Alla nostra prima conferenza c’erano anche i veri scrittori.

Dieci minuti dopo l’inizio del dibattito mi sono voltato: i veri scrittori erano scomparsi. Dileguati come uccelli dopo il rimbombo minaccioso di una fucilata. Uccelli che hanno intuito l’odore di morte, e che non torneranno. Che si sono messi in salvo, assistiti dall’istinto codificato nel genoma. Restavano le sedie di plastica vuote, con mute angolazioni ancora cariche di inquietudini e orgoglio.

Lo stemma famigliare dei castellani, reiteratamente inciso nella pietra e dipinto sulle pareti degli interni, era costituito da un albero con i rami verticali, sui quali erano inseriti dei falli drizzati verso l’alto, o anche verso l’alto e verso il basso. Tanti falli verticali e un po’ magri, come dei ceri del desiderio. Spini fioriti, secondo wikipedia.

La parmigianinesca giovane castellana si aggirava con il figliolo in un marsupio sul grembo. Il suo sorriso incorniciato da rinascimentali boccoli castani era aperto e toccante: gli occhi bizantini sembravano scusarsi dello scandalo di quel sorriso incontaminato. Si capiva che il suo modo di comunicare con gli estranei era quel sorriso trionfante ma anche fragile, quella freschezza dei denti e delle gengive, quell’apoteosi di gioventù, non le parole. Offriva la sua giovinezza e la sua purezza alla plebe che popolava il castello, senza secondi fini, desiderosa solo di farsi accettare, come avevano fatto forse alcune antenate da giovani, prima che la vita prendesse il sopravvento. Forse anche la ragazza poi murata viva aveva avuto quel magnifico sorriso. Il principino ancora non parlava, ma guardava con attenti occhi da condottiero quello che succedeva. Sembrava non essere d’accordo con la piega che aveva preso il mondo, ma per certi versi esserne anche divertito. Il basso del viso era però deformato da uno stupore plebeo, quasi volgare, e questo gli dava un cipiglio ancora più autentico: per la dura vita militare e per scannare e decapitare gli avversari i grandi condottieri devono avere anche una buona dose di rozzezza, uno scudo di ingenuità.

Qualcuno mi aveva detto che il marchese padre appena arriva al castello va sul torrione più alto e issa la bandiera della famiglia. La bandiera con quelli che a me sembravano falli drizzati. Per far sapere alle casette rannicchiate ai piedi del castello e ai villani delle vallate a perdite d’occhio che il signore è presente. Mi era sembrato pratico e giusto. Mi ero subito detto che non dovevo perdermi quell’ultimo residuo delle abitudini millenarie dei castellani: naturalmente il figlio con la fronte sfuggente non l’avrebbe più fatto. Al posto dello stendardo di famiglia avrebbe forse issato un drappo pubblicitario, o l’annuncio di un evento a carattere turistico. La democrazia mercantile avrebbe definitivamente imposto il suo pedissequo appiattimento. E allora cercavo il marchese padre con gli occhi: volevo vederlo, volevo seguirlo mentre gridava al cielo la grandezza della casata.

Gli scrittori posticci, dei quali facevo parte, si davano da fare con le loro laboriose iniziative da scrittori posticci. Avevamo organizzato conferenze e dibattiti molto interessanti, scintillanti di intelligenza e finezza: discettavamo e filosofeggiavamo nella corte del castello, la stessa dove nel corso dei secoli si erano esibite generazioni di menestrelli e giocolieri. Naturalmente alle nostre pregnanti iniziative non c’era pubblico. Appartenevano anche noi a un altro tempo, ci ostinavamo a non accorgercene. Coi tempi che correvano per avere una folta udienza ci sarebbero voluti veri scrittori, nomi e facce televisive, giornalisti grafomani, fotogeniche personalità preconfezionate. Come a tutte le manifestazioni alle quali sono abituato non c’era quasi nessuno. Ma c’erano pur sempre dei mariti e delle mogli e degli amici e dei bambini, l’atmosfera non era per nulla triste.

Il marchese padre si aggirava forse tra noi, vallo a sapere. Ci guardava probabilmente come si spiano le piante, ignare di crescere nel giardino che è nostro, tutte prese dallo sforzo di essere turgide e belle, ignare di appartenerci. Noi non lo sapevamo, ma gli appartenevamo. Tutto quello che era nel castello gli apparteneva. La democrazia aveva divelto gli invalicabili steccati sociali e livellato il mondo, ma le vecchie mura avevano pur sempre salvaguardato al loro interno le vecchie abitudini.

Ogni tanto appariva uno scrittore vero, o anche un gruppetto di scrittori veri. Camminavano con le spalle un po’ rialzate, come se il suolo fosse fangoso, come per non sporcarsi le scarpe. Ci guardavano attraverso i loro occhiali da sole molto scuri, sorridevano come sorridono le attrici quando sentono di essere osservate, o anche guardavano con la fronte aggrottata verso la loggia delle conferenze e dei dibattiti, e poi scomparivano di nuovo. Lo scrittore bellone preservava le ombre cupe ma anche magnetiche nei suoi occhi con irriverenti sorrisi pasoliniani, in uno scialo di struggente seduzione. Era l’unico senza occhiali da sole.

Adesso avevo capito: anche per gli scrittori c’era una gerarchia spaziale e architettonica, nel castello, come per tutto il resto. I veri scrittori, le giovani promesse dagli occhi astuti, stavano ai piani alti, e scrivevano i loro importanti testi a contatto per così dire del cielo e degli astri. Mangiavano cibi prelibati nella cucina dove ero stato ricevuto la prima sera, accompagnati dai vini e dalle bevande che avevo io stesso avuto l’onore di assaggiare. Gli scrittori posticci della blogosfera venivano invece alimentati nelle cucine situate nei sotterranei. Le cucine a volta del volgo, che sfornavano cibi semplici e nutrienti come pizze e schiacciate, e vino rosso verace. Mi sembrava normale e giusto. Naturalmente anche Marinella sarebbe stata più che d’accordo con quella netta partizione.

Poi l’ho adocchiato, il marchese. L’ho riconosciuto come si riconoscono certe piante molto rare senza averle mai viste: perché non poteva essere nessun altro. Si aggirava facendo lo gnorri, si guardava intorno, fissava le pietre del lastricato centenario, ogni tanto si fermava e senza darlo a vedere ascoltava cosa dicevano i letterati sinistroidi. Fingeva di pensare ai fatti suoi, ma era evidente che ascoltava tutto, memorizzava tutto. Non era un giardiniere, come si sforzava di far credere, con quel suo cincischiare assorto tra le pianticelle aromatiche, non era uguale a tutti gli altri, come anelava prospettarsi, non era un anonimo visitatore, era il marchese proprietario del castello, il diretto discendente dei signori che avevano posseduto le città limitrofe e tutta la regione, che avevano murato viva una figlia perché si ostinava a voler sposarsi con un popolano. Del resto non era affatto tranquillo come avrebbe voluto apparire, a ben guardare: fremeva anzi di eccitazione che l’incognito fosse rotto. Quei barbari della blogosfera erano pur sempre della stessa risma di quelli che avevano fomentato le rivoluzioni e avevano imposto l’assurdo regime democratico. Qualcosa dentro di lui considerava impossibile che nessuno lo riconoscesse, qualcosa in lui desiderava che quella mascherata avesse un termine. Non aveva sotto braccio la bandiera famigliare con i falli drizzati come mi ero aspettato, ma era pur sempre lì, coraggioso e indomito. Non assomigliava molto al figlio: aveva una faccia più medioevale che rinascimentale. Una faccia da gentiluomo che si è appena tolto l’armatura, e allora vuole starsene un po’ tranquillo. Di un cavaliere che forse non ha cambiato le sorti della crociata, non ha diretto l’assolto decisivo, ma si è difeso pur sempre con ardimento, ha fatto quello che doveva fare.

Nessuno lo salutava, nessuno si prostrava, nessuno si inginocchiava al suo passaggio. Nessuno, addirittura, lo riconosceva. I tempi erano imbizzarriti: i suoi occhi vispi e agili sembravano darlo ormai per scontato. Gli invasori lo prendevano davvero per un inserviente in perlustrazione, per un ometto di passaggio, un ignoto camminatore. Lui si infiltrava allora tra le loro file insubordinate con un sorriso sfrontato ma anche timido alla Ben Gazzarra. Un sorriso di benevolenza, ma anche voyeuristico, gaiamente rapace. Il sorriso vigile di chi sa che potrebbe da un momento all’altro essere smascherato, e che trova strano che così non sia. Ascoltava. Si godeva il privilegio per certi versi degradante, ma in linea coi tempi, dell’anonimità. Sempre meglio che niente. Nei giardinetti scarruffati dei bastioni intramezzati da aiolette di erbe medicinali si chinava e raccoglieva qualche foglia secca o un mozzicone di sigaretta. Ascoltava. Forse tutte quelle frasi a sfondo democratico gli sarebbero tornate utili, se le cose fossero di nuovo cambiate. Non si sa mai. Nessuno lo guardava. Se lo avessero guardato lo avrebbero preso per un giardiniere scansafatiche, per un collaboratore extracomunitario.

[la foto, Franza o Spagna, purchè se magna, è di Gianni Paoletti)

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9 Commenti

  1. Piacevole, divertente autoironia, col giusto disincanto. Sartori, lei non mi sembra affatto uno “scrittore posticcio”. E dato che l’appetito vien mangiando (come certifica la foto che ritrae in bell’evidenza Cortellessa, il Rex Stout/Nero Wolfe della critica letteraria e Franco Buffoni/Jean Marais, bel tenebroso del neoimpegno – e scrittore senza occhiali, honni soit qui mal y pense), dunque c’aspettiamo un succulento seguito…

  2. caro sartori, ho seguito il suo esempio e non ho letto il suo pezzo come avrei fatto con gli ingredienti per fare i biscotti ma ho smesso presto, colto da indicibile tristezza.

  3. sì, “quella freschezza dei denti e delle gengive” della parmigianinesca creatura abbagliava invero.
    Ma ti disabbagliava subito lo sguardo obliquo dello pseudo-giardiniere….

  4. mi fa molto piacere che un personaggio come carlo capone è un’appassionato di somiglianze come me. però io non sono d’accordo e vorrei raccontare una mia esperienza personale. molti anni fa’ avei l’onore di mangiare con biondillo. innanzitutto notai che mangiava poco e io mi aspettavo di più, poi lo guardavo con molta attenzione e capii che somigliava una via di mezzo tra lenin (il famoso russo rivoluzionario) e quel personaggio toscano se non sbaglio che fa gli scherzi nei film di pierino. invece con cortellesi non ho mai mangiato ma secondo me a tavola anche se è un’appassionato di poesia è impressionante. grazie e scusate

  5. quand’ero bambino
    gli uccelli non scappavano
    dalle briciole
    trappola di biscotti o pane
    sulla tagliola sotto la neve
    bianca come una tovaglia
    adornata di sterpi neri
    sul tavolo che s’apparecchiava

  6. infatti anche dalla foto si capisce da come è seduto che ha intenzione di distruggere tutto avendo quella tipica posizione di attacco coi gomiti sul tavolo pronto a mangiare come una bestia mentre invece c’è quell’altro personaggio seduto a destra che sicuramente è un poeta e non un semplice appassionato perché guarda verso l’infinito e non ha interesse per il mangiare come cortellesi

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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