Des ordres littéraires: Alessandro Zannoni
Nota
di
Mario Capello
su
“Imperfetto” di Alessandro Zannoni, Perdisapop editore, euro 14,00
Scorro le pagine di Imperfetto di Alessandro Zannoni e mi trovo davanti a un passo che mi fa riflettere. Il miglior amico del protagonista, Andrea (Andros, cioè maschio), davanti alle sue titubanze, gli spiattella la formula della felicità (o dell’infelicità senza desideri contemporanea, per citare Handke):
“Sei convinto di quello che fai?” […] “Pensaci bene, bello, perché una come Marta non è che la trovi dietro l’angolo” […] “Una che tiene bene la casa, che sa farti da mangiare, che non ti rompe il cazzo” […] “Finché si tratta di andare a troie e tornare a casa va tutto bene. […] Devi fare come tutti, fai un bambino, ti tieni la tua bella famiglia e scopi con tutte le troiette che vuoi senza fare tanti casini” (Imperfetto, pagine 61-62)
È un invito ad accettare la realtà in maniera pragmatica. La realtà, con la sua volgarità, la sua ipocrisia, la sua mancanza di senso, perché in essa, nulla ha davvero valore, neppure le nostre azioni più bieche, più basse, tanto meno le nostre bassezze ché queste, al contrario, sono forse le uniche palpitanti in quel magma indistinto che è, alla fine, la realtà. Rassegnarsi – a essere uguali a tutti gli altri, a mentire, a vivere da scissi – e chinare la testa.
Ma, poche pagine prima, nel libro, in questo che è un bell’esempio di romanzo di genere, una prova di alto artigianato, dalla scrittura tagliente e dai personaggi solidi, c’è un appello di ordine diverso.
È la richiesta della madre della vittima. Una richiesta a non arrendersi, a non rinunciare alle indagini, a non rinunciare a dare un senso, un perché, alla morte del figlio. Questa donna non sa o non vuole confrontarsi con la mancanza di senso, con la mancanza di una verità, di una ragione. Non riesce a vivere in un mondo che è un deserto delle agnizioni. Davanti al girare a vuoto degli inquirenti, che non approdano a nulla, non accetta che non vi sia nulla da scoprire, che il reale non si possa attingere. E così assume Merisi (no, non è un caso, che si chiami così, il protagonista). Non lo fa, si noti bene, con la speranza che l’investigatore privato (figura topica, quasi archetipica, ormai) possa scoprire davvero, lui da solo, la verità, dare un nome o un volto all’assassino. No, è ben più smaliziata, questa donna. Glielo dice chiaramente: “Da lei ho comprato, oltre ai servigi, anche le menzogne.” Merisi deve anche mentire, nel caso, pur di non lasciarla davanti a quel vuoto, quel vuoto che non sa sostenere.
Ecco, io penso che questa donna sia una metafora (e non importa qui quanto consapevole o meno), meglio, un avatar, del lettore di romanzi di genere. E dei romanzi di detection – noir, thriller, whodunit – in particolare.
Perché cosa fa, il genere? Prende le nostre vite, la nostra realtà, e le sussume dentro un plot. Mette i fatti, irrelati, morcelées, frammentari, che costellano, privi di uno schema, le nostre esistenze, dentro un progetto. Sì, mettendo una trama, al reale – e non importa quanto questa trama risulti intelligibile, quanto traspaia attraverso il tessuto più o meno liso della vita – lo rende più accettabile. Perché tutto, anche scoprire che siamo nel mirino di un serial killer, o che nostro zio ha ucciso nostra sorella, è più facile da affrontare della mancanza di senso. Perché un piano – e il piano criminale, del piano è la quintessenza – ci trascende. E perché il contatto, anche fugace, con il crimine, con la violenza, è l’unico modo che ci resta per entrare in contatto con il numinoso.
Dunque, il valore del genere sta qui. Non nel suo essere uno strumento euristico della società, nel suo afflato sociale, come si è detto spesso. Certo, soprattutto, nell’hardboiled (che Imperfetto sfiora più volte, vista la presenza di molti degli stilemi e dei topoi di questo sottogenere ma che tradisce proprio nella sua vocazione di scavo) l’aspetto dell’immersione dello sguardo nella palude della società è fondamentale. Ma non è per questo che lo leggiamo – che leggiamo Elroy o Peace. No. Noi leggiamo il genere perché siamo deboli. Troppo deboli per reggere il nulla.
Non è sempre stato così, è chiaro. I nostri padri (e i nostri nonni, ormai) non l’avevano questa paura. Anzi, ne erano così consapevoli da poterci costruire i propri libri – e, chissà, dopo aver vissuto certe esperienze, fin troppo sature di senso, forse c’era anche un senso di liberazione nel farlo. Così Gadda può lasciare che il suo whodunit si perda nei rivoli del vocalizzo e si esaurisca ben prima che la verità vi venga anche solo fatta balenare. Così, il protagonista di Il cavaliere e la morte muore prima di sapere. E lo stesso – mettere in scena l’inattingibilità di una verità, per quanto parziale – fece Michele Prisco in quel gioiello che è Una spirale di nebbia.
Va detto che Sciascia è anche l’iniziatore della seconda linea. Mette infatti in scena, in uno dei suoi romanzi più belli, un perfetto doppio della madre del morto in Imperfetto. Uno che non si arrende, che prova a dare un senso. Non è questo che fa il protagonista in A ciascuno il suo? Dal vuoto pneumatico del Circolo si convince di poter vedere un disegno, che gli indizi sparsi si ricompongano in un mosaico. Poi, certo, muore. Non può che morire, verrebbe da dire.
Lo scopo del genere sarebbe dare senso al nostro reale, ed è, pertanto, tanto più efficace quanto più sa mettere in relazione, in tensione, il reale, essendo realistico (e Imperfetto lo è, realistico, concreto nel suo ritratto di provincia, con le sue code di macchine e i suoi panini mangiati nei bar nelle pause-pranzo), e una verità o una Verità. E Imperfetto è emblematico di questa tensione tra prosaico e verità. Basti dire che il punto di svolta (il punto di svolta! serve aggiungere altro?) avviene mentre il protagonista sta mangiando un panino con la mortadella in un bar di montagna.
Allora la distinzione a cui si fa di solito riferimento, tra giallo classico consolatorio e noir perturbante, perché dissacrante, perde di senso. Il genere è tutto consolatorio. Ci serve proprio per questo – perché, con il prezzo di copertina, compriamo anche le sue menzogne, la sua bugia più grande, e cioè che ci sia un piano, dietro a tutto (e alla morte in particolare). Si tende a dare un’accezione negativa, al termine consolatorio. Come ci fosse qualcosa di male, nella consolazione, nel consolare. Non è così, come sa bene chi, almeno una volta nella vita, si è ritrovato a ringraziare la persona che gli ha mormorato la più convenzionale, la più banale e usurata delle frasi fatte (“ha smesso di soffrire”) davanti a un lutto o a un dolore.
Soprattutto, è per questo motivo che quella del romanzo di genere, e la detection in particolare, è la forma precipua del tardo-capitalismo, la forma letteraria più rappresentata e più significativa. Perché non si limita a rifletterla, la dissoluzione delle gerarchie e degli schemi consolidati nella società liquida di oggi, ma la combatte. Si tratta di poco di più di un cachet, sia chiaro, o peggio, di un placebo (come la pillola contro la paura della morte di un autore che il genere, a cominciare da Giocatori fino a Running Dog, l’ha frequentato più volte). Un placebo. Ma, forse, è sempre meglio di niente.
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“Sei convinto di quello che fai?” […] “Pensaci bene, bello, perché una come Marta non è che la trovi dietro l’angolo” […] “Una che tiene bene la casa, che sa farti da mangiare, che non ti rompe il cazzo” […] “Finché si tratta di andare a troie e tornare a casa va tutto bene. […] Devi fare come tutti, fai un bambino, ti tieni la tua bella famiglia e scopi con tutte le troiette che vuoi senza fare tanti casini” (Imperfetto, pagine 61-62)
È un invito ad accettare la realtà in maniera pragmatica. (Forlani)
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O forse è una restituzione superficiale semplificatoria e poco illuminante di alcuni meccanismi comportamentali e coazioni culturali. “La realtà”? Leggendo i passi di sopra mi chiedo: è in ossequio a qualche principio di mimesi letteraria che un autore decide di trattare in modo semplicistico le psicologie semplici e semplicistiche dei suoi personaggi? In modo superficiale i principii superficiali dei suoi attori? Chiedere un differente tipo di analisi, uno scarto tra autore e personaggio è peccare di elazione?
Altrimenti, “Quelli che vanno a puttane mentre i figli guardan la tv” ce li ha già cantati Frankie Hi Nrg. Nel libro magari c’è ben altro, io non l’ho letto e mi limito ai rilevamenti di Forlani.
Ciao!
nubar
Già: compriamo-accettiamo tutto, anche le menzogne. Fa’ parte del gioco… ma questo ruolo del lettore-vivente-presente non è forse il ruolo da cui si nasconde ogni individuo? Leggere-vivere-esserci. Il tutto è, a volte, troppo faticoso. Altre, grazie alla buona letteratura, forse è più leggero.
Bel pezzo Mario, grazie.
nubar, due precisazioni. La prima è che la nota è di Mario Capello e non mia. la seconda è che la tua osservazione non la capisco. Allora, ci provo.
prima ipotesi
Tu dici, “se il romanzo in questione si limita a registrare attraverso semplificazioni atteggiamenti e condotte che trovi nella vita e che passano dopo ulteriori semplificazioni nei personaggi che cosa della vita diventa letteratura e cosa no?”
Il romanzo in questione, per come l’ho letto io e per come si evince dalla bella nota di Mario, non ha questo tipo di impalcatura. Nè linguistica, né comportamentale. In altri termini non si avvale di scorciatoie ma lungo tutta la narrazione si sospende, spesso le prime persone si condensano, al punto di stabilire una sorta di reticolo di io narranti e voci. Per certi versi è scrittura poetica per quanto alle prese con tutti i paletti che il genere imponeva. L’esempio tirato in ballo da Mario serviva invece a definire l’altro punto di vista, certamente più fondativo di questa come di altre narrazioni, ovvero il volere a tutti i costi sapere cosa c’è, cosa è stato, perché quella tal cosa sia successa, capitata a quella persona e non a un’altra, Il gioco di specchi si complica quando quello spettro di luce si apre e a ritroso nel tempo scopre che anche ad altri è successo, e che come in quegli altri casi non v’è una spiegazione. da questo punto di vista permettimi una citazione colta. la citazione colta di Gombrowicz, (introduzione all’edizione francese di Cosmos
Préface de Cosmos (chez Folio, traduit du polonais par Georges Sédir, Denoël)
mais il n’y a rien à craindre, ce sera malgré tout une histoire normale, un roman policier normal, quoique un peu rugueux).
Dans l’infinité des phénomènes qui se passent autour de moi, j’en isole un. J’aperçois, par exemple, un cendrier sur ma table (le reste s’efface dans l’ombre). Si cette perception se justifie (par exemple, j’ai remarqué le cendrier par ce que je veux y jeter la cendre de ma cigarette), tout est parfait.
Si j’ai aperçu le cendrier par hasard et ne reviens pas là-dessus, tout va bien aussi.
Mais si, après avoir remarqué ce phénomène sans but précis, vous y revenez, malheur ! Pourquoi y êtes-vous revenu, s’il est sans signification ? Ah ah ! ainsi il signifiait quelque chose pour vous, puisque vous y êtes revenu ? Voilà comment, par le simple fait que vous vous êtes concentré sans raison une seconde de trop sur ce phénomène, la chose commence à être un peu à part, à devenir chargée de sens…
– Non, non ! (vous vous défendez) c’est un cendrier ordinaire ?
– Ordinaire ? Alors pourquoi vous en défendez-vous s’il est vraiment ordinaire ?
Voilà comment un phénomène devient une obsession…
La réalité serait-elle, dans son essence, obsessionnelle ? Etant donné que nous construisons nos mondes en associant des phénomènes, je ne serais pas surpris qu’au tout début des temps il y ait eu une association gratuite et répétée fixant une direction dans le chaos et instaurant un ordre. Il y a dans la conscience quelque chose qui en fait un piège pour elle-même. »
Traduzione quasi simultanea
“Ma non c’è nulla da temere, sarà nonostante tutto una storia normale, un poliziesco normale, per quanto un po’ ruvido.
Nell’infinità dei fenomeni che succedono intorno a me, ne isolo uno. Mi accorgo, per esempio, di un posacenere sul tavolo (il resto cade nell’ombra) Se quella percezione si giustifica (per esempio ho notato il posacenere perché voglio gettarci dentro la cenere della sigaretta) tutto è nell’ordine. Se ho notato il posacenere per caso, non ci ritorno su, e anche questo va bene. Ma se , dopo aver notato quel fenomeno senza alcuno scopo preciso, ci ritornate su, sono cazzi amari (licenza poetica del traduttore)! perché ritornarci su, se non ha alcun significato? Ah ah! (eh! eh!) allora siginificava qualcosa per voi dal momento che ci siete tornati su? Ecco come, per il solo fatto che vi siate concentrati senza ragione un secondo di troppo su quel fenomeno, la cosa inizia ad essere un po’ a parte, a diventare carica di senso….
-no,no (vi difendete) è un posacenere ordinario?
-Ordinario? Allora perché difendersene se è veramente ordinario?
Ecco come un fenomeno diventa un’ossessione…
La realtà è forse , per sua natura, ossessiva? Dato che costruiamo i nostri mondi associando dei fenomeni, non sarei affatto sorpreso del fatto che proprio all’inizio dei tempi ci fosse stata un’associazione gratuita e ripetuta a fissare una direzione nel caos e ad instaurare un ordine. C’è nella coscienza qualcosa che ne fa una trappola per se stessa.
(perdonate la rapida trad per i non francofoni)
effeffe
la domanda a questo punto che rilancio sia a Mario che ad Alessandro, perché quel panino alla mortadella? anche se Mario lo ha già detto…
@ Yanez: grazie.
@ Nubar: coazioni, appunto. E superficiali, appunto. E allora di che parliamo? grazie comunque dell’attenzione. Sulla necessità dello “scarto” rifletterò.
Il perché della mortadella mi sa che deve dircelo Zannoni, se gli va.
forlani, grazie per le precisazioni. mi scuso per l’attribuzione erronea del pezzo di capello (di mario capello…) a te. capisco la tua risposta solo fino a quando sembri dire che nel romanzo c’è dell’altro oltre all’aspetto limitativo di cui mi lamentavo. non capisco più cosa stai dicendo da dove scrivi “L’esempio tirato in ballo da Mario serviva invece a definire l’altro punto di vista,”. più o meno mi sembra che tu stia giustificando il passo del romanzo in questione (o il suo generale approccio) con l’assunzione di un precetto mimetico: il romanzo è obsessionnel perché la realtà è obsessionnelle, è coatto perché la realtà è coatta etc. ok, è proprio ciò che contestavo. forse lo stesso significa mario con il suo commento per me un po’ sibillino, a parte la promessa a riflettere sulla eventuale necessità di uno scarto. spero venga mantenuta e sarei lieto di conoscere le conclusioni di mario a riguardo. grazie!
ciao
n.a.
@ Nubar: sì, era un po’ sibillino, in effetti (ma dopo il Furlen, che approfitto per ringraziare dello spazio offertomi, la concisione era d’obbligo). Stava solo a significare che, in effetti, quel pezzo è una mimetica descrizione del male (del Male?). Come ci si ponga l’autore, non è in dubbio, leggendo il libro – e il passo seguente (e ho la pretesa, tutto il mio pezzo) – anche se, ovviamente (ovviamente per me, per come intendo il romanzo) non scivola mai nel giudizio esplicito. Quanto allo scarto, sulla sua necessità, in generale, non ho dubbi. Credo però, fermamente, che esista come opzione – che esista l’opzione. Che non sia l’unica posizione possibile. In effetti il mio pezzo contempla la possibilità che si possa, nel momento in cui la si rappresenta per superarla, nella finzione (nella doppia finzione – quella dell’autore e quella della trama), combatterla, la desertificazione del reale.
Come ha giustamente già sottolineato Forlani nel suo intervento, non credo che Zannoni abbia ragionato in questa logica. Quel che gli interessa è raccontare il vissuto, il che non corrisponde necessariamente a una semplificazione della realtà o a un suo ridimensionamento. In Imperfetto non è riscontrabile questa impalcatura nè tematica nè linguistica. I personaggi non sono animati da una finzione letteraria, proprio perchè devono rimanere uomini e non diventare personaggi. Sono disegnati a tutto tondo, sono creature dinamiche, in continua evoluzione nel corso dell’intreccio. Certo, sempre animate da una certa patina ruvida che contraddistingue la mano dell’autore, ma sotto le righe Merisi in primo luogo come protagonista del romanzo è un uomo molto complesso, contiene egli stesso più realtà emotive da cui entra ed esce spesso disorientato, alterna dei tratti forti, quelli che potrebbero ricondurre in qualche modo a un modello stereotipato del personaggio che tende a ridurre all’essenziale le dinamiche socio-comportamentali, a tratti inaspettati. Il tutto varia a seconda dei contesti. Il coraggio di Zannoni è anche quello di rappresentare scene come queste, che potrebbero far pensare alla descrizione di un luogo comune, con personaggi che di comune hanno ben poco.
Sullo scarto tra l’autore e il personaggio dico soltanto che lo ritengo più una possibilità che una necessità effettiva. è una questione di scelta di impostazione.
O forse è una restituzione superficiale semplificatoria e poco illuminante di alcuni meccanismi comportamentali e coazioni culturali. “La realtà”? Leggendo i passi di sopra mi chiedo: è in ossequio a qualche principio di mimesi letteraria che un autore decide di trattare in modo semplicistico le psicologie semplici e semplicistiche dei suoi personaggi? In modo superficiale i principii superficiali dei suoi attori? Chiedere un differente tipo di analisi, uno scarto tra autore e personaggio è peccare di elazione?
@ nubar ach.
dovresti leggere il romanzo prima di parlare di superficialità, e trarre conclusioni leggendo tre righe postate per rafforzare un concetto espresso nella recensione mi pare azzardato.
ma da quello che scrivi e da come lo scrivi, capisco che Imperfetto non sarebbe di tuo gradimento: sono talmente poco intellettuale che ho dovuto decrittare vocabolario alla mano quello che hai scritto nel post; la mia scrittura è semplice, lo confesso, cerco di arrivare dritto al nocciolo senza panegirici inutili, utilizzando parole abusate, cercando di rifondergli nuova forza. ma scrivere semplice vuol dire essere semplicistici?
(scrivo tutto questo, caro nubar, senza il minimo astio, giusto per risponderti)
@mario
bel pezzo davvero. ne sono lusingato.
uff, rileggendo il mio post, mi pare invece che astio ce ne sia.
scusa nubar, è uscito da solo. non voglio assolutamente aprire conflitti.
discorsi sì.
Alessandro, secondo me invece il romanzo potrebbe piacergli. soddisfatti o rimborsati, alla serino, soddisfatti intasco io, rimborsati paga capello
effeffe
@ alessandro: grazie. E scusa se ho usato il tuo romanzo un po’ come pre-testo per parlare di cose su cui rifletto – ma che ho messo a fuoco per l’occasione – da un po’.
Approvo la mozione di Forlani – che peraltro ringrazio per lo spazio offertomi. Rimborso, rimborso (purché Zannoni ci metta del suo, eh.)
caro francesco, il soddisfatti o rimborsati lo usavo come incentivo da buon autoprodotto proprio per vendere Imperfetto uscito la prima volta nel 2006.
quindi, mario, sei in una botte di ferro.
mario e giulia grazie per aver risposto in modo articolato,
in parte confermando la correttezza di alcune mie osservazioni
(mario scrive: “in effetti, quel pezzo è una mimetica descrizione del male”) e in parte ridimensionando la validità della mia critica. sottolineate che la scelta dello “scarto” è una possibilità da non trascurare ma si tratta comunque di una “scelta di impostazione”. sono abbastanza d’accordo con voi! spero comunque che sia stato utile esplicitare la cosa.
ho detto subito che mi basavo soltanto su *quel* passaggio di mario e su *quella* citazione. che comunque qualcosa significa. chissà però che non valga anche in letteratura quello che si è scoperto valere in altri contesti, ossia che da una piccolissima porzione scelta a caso sia possibile giudicare la correttezza di un’opera con alta probabilità di non sbagliare!
alessandro, sei stato simpatico ad aver riconosciuto che un po’ di astio s’era infilato da solo nella tua risposta. io non lo avevo visto, al massimo un po’ di arroganza, ma è il minimo in questi casi! i paroloni nel mio messaggio non li trovo (forse “coazione” è un po’ ricercato?) ma ad ogni modo ti voglio dire che l’anti-intellettualismo programmatico a me sembra una cosa un po’ inutile. scrivere un romanzo è un lavoro intellettuale (ora tu mi puoi dire che scrivi con le budella o cos’altro)
quindi al massimo puoi aspirare ad essere un intellettuale che non usa paroloni. tu chiedi: “ma scrivere semplice vuol dire essere semplicistici?” secondo me no, assolutamente. neanche nel tuo caso ne ho fatto una questione linguistica. la mia domanda era un’altra: nel romanzo troviamo un approfondimento, una analisi, una proposta di spiegazione delle cause dei comportamenti e dei modi di pensare che si manifestano nel dialogo citato? pare di sì, se i tuoi personaggi sono tanto “complessi” (contrario di “sempici”?) quanto scrive giulia guida. e a me fa piacere. allora però forse il tuo romanzo non è “un invito ad accettare la realtà in maniera pragmatica” come ha scritto mario. secondo te quella frase che significa?
ciao!
n.a.
nubar, potresti provare a leggerlo, poi magari ci scrivi sopra due pensieri e me li posti, e dopo possiamo provare a parlarne.
ora come ora, io e te, stiamo parlando di aria fritta.
(la regoletta assurda a cui ti riferisci lasciala agli editor che hanno troppi manoscritti da leggere)
aaaaaaaaaaaargh.
(disarticolato, basico, essenziale)
certo alessandro, potrei provare a leggerlo, poi magari. per ora mi limito all’aria fritta. ti saluto e salutandoti ti dico che con quello che tu chiami “regoletta assurda” mi riferivo a uno dei risultati scientifici più importanti e sorprendenti degli ultimi venti anni. ciao!
n.a.