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Karagoez

di Rinaldo Censi

“La biologia dell’ombra non è stata ancora studiata”: Karagoez (Yervant Gianikian, Angela Ricci Lucchi)

Il salone è perfettamente ammobiliato. Moquette, carta da parati in tinta: quadri e cornici dorate. Qualche vaso, porcellane finissime e addobbi floreali. Al centro del salone, sopra a un tavolo di legno pregiato, non emerge solo un lampadario composto di ferro e cristallo; svetta piuttosto uno strumento meccanico, simile a una macchina da cucire Singer. Nell’aria, l’odore di chiuso (tendaggi di velluto davanti alle finestre) si sposta con un movimento d’atomi simile a un’onda, e si scontra con la luce artificiale prodotta dalla macchina in funzione. Questa macchina non tesse stoffe pregiate, ma, grazie a un meccanismo non dissimile, srotola una pellicola all’interno di un corpo meccanico fatto di ingranaggi e bielle, come il cuore di un orologio. La fonte luminosa – costituita da una lampada elettrica a incandescenza – disegna una piramide che circoscrive un rettangolo sulla parete. Raccolti intorno a questa luce, un gruppo di borghesi (l’abito impeccabile, la posa composta) si appresta ad assistere ad uno spettacolo casalingo: le cinéma chez soi! – sponsorizza il manifesto della casa di produzione Pathé Frères. 1912, per la gioia dei grandi e la felicità dei piccoli (come sottolinea la pubblicità), ecco qua sul tavolo di casa il Pathé “Kok”: un “gallo” è meglio di una macchina da cucire. Il design è in fondo simile. L’apparecchio non necessita di particolari installazioni. Girando la manovella, una dinamo produce autonomamente elettricità. La pellicola è larga 28mm e permette di fissare un’immagine di 14x19mm. Non male se si pensa che la pellicola 35mm muta arriva a fissarne una di 18x24mm. Perfide e intelligenti le perforazioni: tre per ogni fotogramma su un lato e solo una dall’altro. Impensabile rovesciare il film. In più, la pellicola è di sicurezza (diacetato di cellulosa, “non-flam”), questo non provoca nessun ritorno di fiamma. Le famiglie possono dormire sonni tranquilli.

Pathé “Kok”: al costo di 325 franchi ci si aggiudica un proiettore e alcune vedute. Al costo di 70 centesimi al giorno ci si può procurare un programma di un’ora. Un’ora di vedute in affitto. (Istruttivo – educativo – ricreativo: lo svago ideale per la famiglia) Così la pubblicità del manifesto d’epoca. Per il catalogo delle vedute e per informazioni, rivolgersi presso: Pathé Frères, 14, rue Favart, Parigi[1].

Con questo apparecchio relativamente costoso la casa Pathé si lancia alla conquista di un pubblico più agiato. E malgrado il successo ottenuto in Francia, Inghilterra e Stati Uniti d’America (Pathéscope) la ditta sembra disinteressarsi al progetto. Troppo simile al prodotto standard, affermano. Poco luminosa la lampada di cui è provvista. Questo non permette di proiettare l’immagine secondo le potenzialità che il formato permette. Il “Kok” in fondo è un formato da salone; non un formato ridotto, piuttosto il primo formato sicurezza. E i Pathé cercano per questo un formato da “camera”, ridotto, in miniatura: baby, appunto. Il Pathé-Baby 9,5mm si fa strada nel 1922: sotto le feste di Natale. È un formato di sicurezza, la cui immagine (6,5×8,8mm) farà concorrenza al 16mm Kodak, in commercio solo qualche mese più tardi (7,5×10,4mm). Il rapporto immagine-superficie del supporto è, da questo punto di vista, imbattibile. Unica pecca la perforazione unica, centrale. Nel 1924 la Pathé mette in commercio una cinepresa 9,5 (una cinepresa da tasca, potremmo dire) provvista di pellicola invertibile, messa anch’essa in commercio dalla casa madre: unico supporto per la ripresa e la proiezione, operazione resa possibile grazie a un particolare processo di sviluppo stampa. Sarà questo che permetterà al 9,5 di sfondare nel mondo intero.

Anche Dziga Vertov utilizza la 9,5mm per filmare la Russia e mostrare i materiali agli abitanti, percorrendo il territorio sui “Treni della rivoluzione”.

Il gallo – simbolo della casa Pathé – si tramuta qui in pulcino che esce dall’uovo. E mentre questo pulcino impertinente fa capolino dal guscio, noi interrompiamo questo excursus tecnico, piuttosto noioso. Non siamo archeologi: meglio, l’archeologia ci interessa, ma da un altro punto di osservazione. Oppure: più vicini a Bouvard e Pécuchet archeologi, anche noi ci annoiamo in fretta[2].

Pathé-Baby 9,5. Il gallo e il pulcino: il 35mm e il 9,5mm appunto.

Yervant Gianikian, Angela Ricci Lucchi:

Nasce il primo microfilm, si memorizza per il futuro una gran parte di quello che fino ad allora era stato compiuto nel campo del cinema. Vengono effettuate riduzioni di generi e sottogeneri, dal documentario primitivo, di viaggio, scientifico, antropologico, al breve film di fiaba, di trasformazione, al lungometraggio di finzione. (…) I film si spediscono come cartoline postali, come pacchetti di campione senza valore. Sotto questa forma entrano nelle case come giocattoli, l’immagine proiettata sulle pareti è simile ad una nuvola. Il cinema diventa Home-Movie, oppure viaggia sui treni della rivoluzione con Dziga Vertov. O verso lontane missioni religiose in Oriente. Il film a trucchi, la ‘Passion’ sfarfalleggia nelle navate delle chiese, il film porno va a prendere posizione nei casini. Le cineprese 9,5 anticipano di decenni le teorie del Super 8[3].

I film entrano nelle case come fossero giocattoli. Le immagini vengono proiettate sulle pareti: tutto questo potrebbe risultare idilliaco, fanciullesco. E forse lo è davvero. Come se la nostalgia dei bei tempi avesse posato una leggera patina di fiabesco su ogni cosa, mentre una manina intinge una madeleine nel tè. Ma tutto questo – nondimeno – può produrre odio: l’odio del Pathé-Baby, appunto:

Je ne parlerai pas du Pathé Baby de l’enfance, de son merveilleux petit bruit de clapet, ou d’un grignotement de petit souris accompagnant le défilement d’images sautillantes, les saccades de mille petites catastrophes: toupies brisées, chutes d’escaliers, pantalons repliés en accordéon sur les souliers; en somme la bobine en yo-yo des films ainsi amenuisés, réduits à notre faille d’enfants[4].

Ma allora come avvicinare la questione? Formato ridotto, urla isteriche dei fanciulli. Il punto è un altro, come segnalano i Gianikian:

Per le loro minuscole dimensioni i film, nei contenitori di latta neri, prendono posto accanto ai libri negli scaffali. Accanto agli universi racchiusi nelle pagine si posano i film, altre miniature in movimento della realtà. Oggi le immagini non più proiettabili per l’usura del supporto e del decadimento fisico sono materiali di una rêverie con lente d’ingrandimento. Le immagini vengono ripercorse, rimesse in moto improbabile, rallentato come memoria e sogno, copiando uno per volta i fotogrammi, ingrandendo con un’altra cinepresa il già ridotto. I materiali si legano tra loro e si ricostruiscono attraverso le tele di ragno di analogie[5].

Il ronzio del proiettore Pathé-Baby è dunque lontano. La pellicola negli ingranaggi, trapassata da un roditore meccanico (o da un macinino da caffè) resta solo un ricordo d’infanzia. Le immagini 9,5mm oggi non sono più proiettabili. Sono immagini sfinite, uscite dal circuito d’uso. Sono resti di un mondo d’infanzia, isterico. Sono scarti di diacetato invertibile, corrotto, corroso, ammuffito, rigato. (Nulla di più facile: il deterioramento della perforazione va a intaccare le immagini contigue. Il trascinamento alternativo via griffa acuisce il rischio di aggressione sulla pellicola).

Diciamo dunque: sono materiali desueti, dimenticati in qualche soffitta, o in cantine umidicce. Che farsene? Perché occuparsene? Dai surrealisti in poi, prende piede questa caccia alla trouvaille, all’object trouvé. È qualcosa che nota acutamente Walter Benjamin nel suo grande testo sul surrealismo:

[Il surrealismo] per primo si imbatté nelle energie rivoluzionarie che appaiono nelle cose “invecchiate”, nelle prime costruzioni in ferro, nelle prime fabbriche, nelle prime fotografie, negli oggetti che cominciano a scomparire, nei pianoforti a coda, negli abiti vecchi più di cinque anni, nei ritrovi mondani, quando cominciano a passare di moda. Quale sia il rapporto di queste cose con la rivoluzione – nessuno può saperlo più esattamente di questi autori. Come la miseria, non solo quella sociale ma anche e altrettanto quella architettonica, la miseria dell’interno, le cose asservite e asserventi si rovescino in nichilismo rivoluzionario, – prima di questi veggenti e astrologi non se n’era accorto nessuno[6].

L’energia rivoluzionaria si può nascondere nello scarto, nelle cose “invecchiate”, inutilizzate. Che farsene? Rendere loro giustizia. Come? Usandole. Si racchiude qui – per quanto mi riguarda – il nocciolo della questione legata al cosiddetto Found Footage. Materiale pellicolare scaduto, dimenticato (amnesia dell’archivio). La questione è complessa. Alcuni studiosi hanno cercato di sbrogliare la matassa. Tra questi: Jay Leyda, William C. Wees, Nicole Brenez e Pip Chodorov, Yann Beauvais, Christa Blüminger.[7]

Ciò che importa, ciò che mette in movimento questo materiale trovato, questi stracci, questi pezzi di pellicola è proprio quello che potremmo definire un diritto d’uso, il loro reimpiego. Perché non avvicinare qui il diritto d’uso ad una dimensione del “volere” artistico? La storia viene messa in movimento, le immagini vengono aperte, ricevono nuova luce. È quello che pensava Alois Riegl:

Quando maturò in lui la teoria del Kunstwollen non erano gli artisti come tali a interessare Riegl, quanto la storia dell’arte anonima. La sua preoccupazione era rivolta alle più anonime fra tutte le epoche stilistiche: l’arte del mondo tardoantico e dell’epoca delle migrazioni, considerate fino ad allora come epoche di decadenza e di sostanziale debolezza creativa. Riegl sostiene, com’è noto, che la valutazione negativa di queste epoche artistiche nasce dalla tirannia dell’estetica normativa, i cui criteri non sarebbero applicabili a oggetti nati sotto una costellazione estetica affatto diversa. Ogni epoca, ogni fase evolutiva ha la propria scala di valori, e quella che appare come inettitudine o povertà è solo un diverso orientamento del “volere” artistico[8].

Questo diverso “volere artistico” (definiamolo così), piuttosto anonimo, corrisponde al perimetro, al ghetto in cui la critica cinematografica normativa ha infilato con sprezzo il cinema cosiddetto sperimentale. Questo diverso ”volere artistico” ha spinto Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi ad occuparsi di pellicole Pathé Baby. Recuperando materiali, ritrovando scatole di pellicole perfino in sagrestie, hanno creato una sorta di archivio in rovina, ma non solo per il gusto dell’archivio in sé, per vedere invece cosa si nascondeva al suo interno. L’oggi con i materiali di ieri, spiegano spesso i Gianikian (“Nous entrons dans l’avenir à reculons”, affermava Paul Valery nel 1932 – Discours de l’histoire).

Nel 1977 entrano dunque in possesso di questi materiali, da cui nascerà il loro Karagoez. Questi materiali sfiniti vengono osservati con l’aiuto di una lente d’ingrandimento. Non esiste modo di proiettare le pellicole. Il salone e la cameretta del fanciullo sono sparite. Del cinéma chez soi non resta che un nastro graffiato e aggredito dal tempo. Non resta che l’ombra. Un teatro d’ombre, appunto.

Karagoez. (Gioco delle ombre). Dopo essere stata la prima e forse l’ultima camera. Camera o macchina della memoria. Essa riscrive il cinema, che si riprende allo specchio, con l’autoscatto. Getta lunghi sguardi di struggimento e quegli “oggetti parziali” che esistono per lei, all’interno del fotogramma. Fotogramma: luogo “etichetta” o supporto atto alla nomenclatura o alla catalogazione in generale, dove le immagini si prolungano, si estendono si trasferiscono, al di fuori delle loro situazioni, si uniscono per contatto, contiguità, approssimazione, giustapposizione, aderenza, congiunzione, prolungamento, tensione, estensione, frattura lineare e longitudinale. Trattenendo, ritardando la lettura del fotogramma, testo melanconico, la camera offre la conoscenza[9].

La camera del fanciullo – la camera (la macchina da presa). Questi materiali 9,5mm sono stati studiati, annotati, descritti, fatti propri. Ma cosa contenevano le scatole di quest’archivio? Pellicole di finzione (numerose produzioni Albatros), tra gli altri: Carmen (Feyder), Der Heilige Berg (Frank, con la Riefensthal – 1926), L’argent (L’Herbier, 1926), Casanova (Volkoff, con Mozzuchin – 1927), Messalina (Guazzoni, 1923), Varieté (Dupont, 1925), La proie du vent (R. Clair, 1926), Il canto dell’amore trionfante (prod. Albatros, 1925), L’Assassinat du Duc de Guise (Film d’Art Pathé, 1908). Alcuni film non segnalati nelle filmografie ufficiali, come La Flambée des Rêves di J. De Baroncelli (1925).

Questo il piccolo inventario redatto da Yervant Gianikian, che annota: “Ho esaminato centinaia di film, migliaia e migliaia di metri di materiale di finzione ritenuto marginale, perciò difficilmente reperibile e spesso le copie in 35mm e gli originali sono andati distrutti. Gli stessi film sopraccitati (a parte L’Assassinat du Duc de Guise) sono film quasi di secondo piano non certo dei capolavori del periodo muto e, e questo mi interessa, sono film quasi completamente sconosciuti”[10].

E poi vedute, documentari: il terremoto a Kyoto nel 1922. Viaggi esotici. Una donna giapponese al risveglio, la mattina. Esperimenti scientifici: cinematografia subacquea (un uomo e uno scafandro). Film sulla magia, fiabeschi, la camera dei giochi di una bimba: una riduzione di Cappuccetto rosso, con un cane lupo al posto della nonna (c’è qualcosa di osceno in questi fotogrammi… o forse è l’idea di infilare sulla testa del cane lupo una cuffietta e una camicia da notte che mi risulta insopportabile alla vista).

Lavoro certosino su dettagli: si entra, si penetra nel fotogramma, rifotografandolo via camera analitica. Uno alla volta. Il materiale viene trasferito via “camera analitica”, subisce uno spostamento, prende un nuovo senso: del fotogramma, del quadro, i Gianikian trattengono ciò che più li interessa; qui, l’attenzione è portata su dettagli minimi, microscopici, a volte invisibili ad occhio nudo[11]. Si tratta soprattutto di ingrandimenti di gesti, posture femminili. Qual è il ruolo della donna in questi materiali d’epoca?

Intervallo pubblicitario – Abrégé d’une histoire du cinéma

Après des périodes grises pendant lesquelles la technique se perfectionne, le cinéma, qui a abordé timidement un pseudo-naturalisme éphémère, atteint brusquement son véritable âge d’or en réalisant les premiers films matérialistes de l’école italienne (avant-guerre et début de la guerre). Je parle ici de l’époque grandiose du cinéma hystérique avec Francesca Bertini, Gustavo Serena, Tulio Carminati, Pina Menichelli, etc…, […].

Les acteurs vivaient réellement ces films, d’une façon continue et impudique que le vantard humour contemporain ne tolèrerait plus. C’était alors, dans toute sa splendeur, le savant  exhibitionnisme féminin. Je me souviens de ces femmes à la démarche vacillante et convulsive, leurs mains de naufragées de l’amour tâtonnant le long des murs, le long des corridors, s’accrochant à tous les rideaux, à tous les arbustes, de ces femmes au décolleté perpétuellement glissant des épaules les plus nues de l’écran, par une nuit ininterrompue de cyprès et de rampes de marbre.  A cette époque transitoire et turbulente de l’érotisme, les palmiers et les magnolias étaient matériellement mordus, arrachés avec les dents par ces femmes d’une complexion fragile et pré-tuberculeuse qui n’excluait pas des corps modelés avec audace par une jeunesse précoce et enfiévrée.

C’e dans un de ces films intitulé La Flamme, qu’il était possible de voir Pina Menichelli toute nue dans un costume en plumes qui représentait un hibou et cela pour l’unique raison manifeste de justifier, le crepuscule venu, une toute primaire et lamentable ccomparaison et une flamme – celle de l’amour – qu’elle venait d’allumer de ses mains fatales devant les yeux en ruines, incommensurablement cernés d’onanisme garanti, de Gustavo Serena qui, à partir de ce moment, ne faisait plus d’autres mouvements que ceux, indispensables, automatiques et dépressifs, qui lui permettaient la descente progressive et saccadée dans l’eau du lac, jusqu’à l’épanouissement des cercles concentriques et habituels qui rétablissent le calme des eaux, après le suicide, apologue du film. Gestes automatiques et dépressifs, comparables seulement à ceux de Guillaume Tell vieux, ébloui par toute la lumière cuivrée du soleil couchant, de Guillaume Tell déjà prêt de la mort, les genoux ensanglantés, les yeux noyés de larmes, marchant encore, une paire d’oeufs sur le plat (sans le plat) posés négligemment sur son épaule[12].

Ripresa

Abrégé dunque. Riduzione. (I film in 9,5mm sono spesso “riduzioni” dei film in 35mm – Il Napoléon di Gance, per esempio… ma come si fa a vedere il Napoléon in una cameretta?) Compendio di una storia del cinema. È anche questo Karagoez – molto prima delle Histoire(s) di Godard: un gesto artistico e insieme una messa in movimento della storia del cinema e dei suoi materiali.[13] La donna come “bellezza fatale”, il cui corpo è costretto a produrre desiderio, i cui gesti sono spesso riconducibili a questa catena significante che somiglia a un giogo (donna fatale, donna perduta, oppure – faute de mieux – madre).

Trasferimento di dettagli nascosti:

Riprendo la pellicola Casanova, all’interno del rettangolo di 9mm e mezzo isolo un particolare di due millimetri: il cuore dipinto sulla guancia della ballerina. Ne L’Argent una mano apre una porta e io vi entro ad annotare una donna fasciata di raso che si sposta piano verso una testa. I contorni dell’immagine sono da una parte una pelle di zebra e dall’altra un pannello dipinto anch’esso zebrato[14].

E poi le mani di Emil Jennings. Parti anatomiche. Parata di corpi, di sguardi, di gesti rallentati enigmatici.

Di Varieté (filmato da Karl Freund), Yervant Gianikian scrive:

Accentuo i particolari avvicinandomi maggiormente agli oggetti e ai loro contrasti. Al Winter-Garten si contrappone il baraccone ambulante di Jennings. Il pubblico proletario, le ballerine sciatte, la calza rotta della pianista. Uso per i corpi gli analoghi procedimenti degli oggetti, isolando volti, occhi, labbra, gesti[15].

Il lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi è qualcosa di simile a un esperimento senza verità? È una sorta di esperimento di de-creazione, ma per far vedere le cose da un’altra prospettiva. E se Avicenna propone la sua esperienza dell’uomo volante, smembrando nell’immaginazione il corpo in pezzi, in parti anatomiche, solo per provare che anche in queste disjecta membra un uomo può affermare “io sono”, o se Condillac dischiude alla sua statua di marmo l’odorato e questa non diventa altro che “odore di rosa”, allora anche questi dettagli di corpi, questi occhi, queste mani, questi pezzi di pelle rallentati in un teatro d’ombre hanno un significato, pur celandolo enigmaticamente. Possiedono un’altra verità, più nascosta.

Scienziati? Antropologi? Storici? Biologi? Artisti? Filmmakers. Come Warburg, i Gianikian stanno lavorando a una “scienza senza nome”. Testi storici, letterari, diari, memorie e dettagli d’emulsione al microscopio: granulosità della pellicola. “La biologia dell’ombra non è stata ancora studiata”, scrive Andrej Belyj, da qualche parte, in Pietroburgo.

Ma è Angelo Maria Ripellino a chiosare:

Nonostante i legami con la realtà, il romanzo di Belyj è una rassegna di spettri, un teatro d’ombre, un “Karagöz” verbale. Vi si aggirano schiere di larve e di misteriosi profili, spore fosforescenti germogliate da inganni e cavilli, da assurdi incastri mentali, proiezione di incubi, lèmuri da lanterna magica. Nelle pagine di Peterbúrg Belyj si rivela un costruttore di automi, di androidi di nebbia, un Vaucasson delle nebbie.

Alle accolte di streghe, di golem, alle mandragore degli scrittori romantici egli sostituisce una flottiglia di omuncoli raziocinanti, di bambole a molla, il cui meccanismo è incrinato da orrende lacune logiche. Maschere di caligine su gambine d’uomo, queste parvenze si assottigliano a volte a siluette filiformi, a tracciati di rilucenti puntini. “Ombre funeste”: e purtroppo “la biologia dell’ombra non è ancora stata studiata”[16].

Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi sono tra i pochi ad aver preso quest’ombra sul serio. Questa parte d’ombra, funesta, perché dalla parte del lutto, della perdita. L’ombra di alcune immagini svanite, scadute, chiuse in scatole nere, nella calma e la quiete sonnolenta degli archivi.


1 La Pathé mette in commercio anche una macchina da presa amatoriale 28mm, sempre con pellicola di sicurezza. Malgrado gli sforzi di Pathé, e malgrado alcune differenze meccaniche, più i costi elevati, la pellicola “non-flam” non ebbe il successo sperato e non interessò il mercato professionale. Per queste notizie facciamo riferimento a Manuel du cinématographe de salon, Paris, Compagnie génerale de phonographes, cinématographes et appareils de precision, anciens Établissements Pathé Frères, 1912. Cfr. Vincent Pinel, “Le salon, la chambre et la salle de village: les formats Pathé”, in J. Kermabon (a cura di), Pathé. Premier Empire du cinéma, Paris, Centre Georges Pompidou, 1994, pp. 197- 98.

[2] G. Flaubert, Bouvard e Pécuchet, Milano, Mondadori, 1993 (si veda il IV capitolo). Oppure – forse, semplicemente –  insieme a Michel Foucault irridiamo l’origine, l’epoca dorata… ci piacciono le irregolarità. M. Foucault, “Nietzsche, la genealogia, la storia”, in Microfisica del potere. Interventi politici, Torino, Einaudi, 1977, pp. 29-54. Si veda anche Arlette Farge, De lieux pour l’histoire, Paris, Seuil, 1997, pp. 82-96.

[3] Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, “Das Lied von der Erde”, in Catalogo della 50° Mostra Internazionale del Cinema, La Biennale di Venezia, 1982. Citiamo da S. Toffetti (a cura di), Yervant Gianikian, Angela Ricci Lucchi, Firenze, Hopefulmonster, 1992, pp. 92-93.

[4] Jean Louis Schefer, “Pathé Baby”, in J.L. Schefer, Figures de différents caractères, Paris, P.O.L., 2005, p.199. Ma insomma che cosa odia Schefer? “Je n’aimais pas le Pathé Baby et m’ennuie de nouveau au souvenir de quelques séances avec d’autres enfants. La verité est que le cinéma m’a tout d’abord désespéré par ce qu’il montrait et par les conditions de projection. Hystérie des enfants aux matinées du jeudi à Auteuil Bon Cinéma: cris d’enfants pour Laurel et Hardy, les Deux Nigauds, Charlot, déchaînements nerveux devant ces images d’hommes tristes, pauvres et sales; j’etais simplement épouvanté par cette indecente ou ce que j’entendais dans les hurlements d’enfants enfermés dans cet enfer scolaire”. Lo choc per Schefer giungerà più tardi, con Sciuscià, ma questa è un’altra storia. Cfr. J.L. Schefer, L’uomo ordinario del cinema, Macerata, Quodlibet, 2006.

[5] Yervant Gianikian, Angela Ricci Lucchi, op. cit., p. 93.

[6] W. Benjamin, “Il Surrealismo”, in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Torino, Einaudi, 1973, p. 15. Che farsene degli scarti? Si veda pure un famoso passo che riprendiamo dal libro sui “Passages”: “Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ricca di spirito. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensí per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli”. Cfr. W. Benjamin, “Teoria della conoscenza e del progresso”, in Parigi, capitale del XIX secolo. I «Passages» di Parigi, (a cura di G. Agamben), Torino, Einaudi, 1986, p. 595.

[7] J. Leyda, Films beget Films, New York, Hill and Wang, 1964; W.C. Wees, Recycled Images. The Art and Politics of Found Footage Films, Anthology Film Archives, 1993; N. Brenez, P. Chodorov, “Cartographie du found footage”, Exploding, Hors Série, 2000 (testo contenuto nella pubblicazione che accompagna il film di Ken Jacobs, Tom Tom the Piper’s Son, Re:voir, Paris, 2000); Y. Beauvais, “Du Recyclage”, terzo capitolo contenuto in Poussière d’image, Paris, Paris Expérimental, 1998, pp. 67-96;  C. Blüminger, “Cultures de remploi – questions de cinéma”, in Trafic, n. 50, Paris, P.O.L., estate 2004.

[8] O.  Pächt, Metodo e prassi nella storia dell’arte, Torino, Boringhieri, 1994, p. 126.

[9] Y. Gianikian, “Karagoez”, in S. Toffetti (a cura di), op. cit., p. 81. Esiste una precedente versione di Karagoez, filmata in 8mm. Un’edizione diversa da quella conclusa tra il 1979-1981. E’ un’edizione terminata nel 1977. Le immagini 9,5mm rifotografate erano intervallate da altre inquadrature: composizioni di frutta, oggetti, un piccolo indiano, paesaggi e fotografie in trasparenza (lavoro di sovrimpressione). La prima “camera analitica”, il suo prototipo, è stato dunque ottenuto tramite una stampatrice ottica e una cinepresa 8mm. Il film, in questa versione, è stato proiettato in Inghilterra, in alcune università. Questo progetto è una sorta di “ponte” tra la vecchia produzione dei Gianikian e la nuova strada intrapresa a partire dal film su Lombroso, che ricopre un ruolo cruciale nella loro filmografia. La proiezione del film era accompagnata da essenze di profumi sparsi nell’aria: un “gesto d’arte”, una vera e propria “performance olfattiva”. Karagoez (8mm) è l’ultimo “film profumato” dei due filmmakers. Ringrazio Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi per queste delucidazioni. Le possibili imprecisioni sono naturalmente di chi scrive.

[10] Ibidem, p. 83.

[11] Trasferimenti, spostamenti, ingrandimenti? Un secondo montaggio. Vedo nel loro operare qualcosa di simile al lavoro fotografico di Medardo Rosso. Rosso prende una foto, l’ingrandisce, la corregge, la rifotografa, poi ingrandisce nuovamente, a volte cambia il supporto della stampa: “Si capisce che abbiano perfino dubitato che un Rosso fotografo esistesse: perché pensavano allo scatto. Ma non è lì. Rosso non girava col treppiede sulle spalle, stava in camera oscura, nello studio o nella stanza di albergo, a ritagliare, incollare, e a coprire di tempo le cose. La foto di partenza è come la terra per la scultura, anche vile poteva andare bene. La trova, se ne appropria e comincia il processo delle stampe. Una specie di ready-made, molto aiutato”. Si veda il bel libro di Paola Mola, Rosso. Trasferimenti, Ginevra-Milano, Skira, 2006, p. 15.

[12] S. Dalí, “Abrégé d’une histoire critique du cinéma” (1932), in Babaouo, Barcellona, Ediciones liberales, 1978, p. 24-28.

[13] Siamo nei pieni anni ’70. Il gesto artistico legato alla “performance” dei primi film profumati incontra la storia del cinema. Lo studio di questi materiali apre alla loro possibile  “metastoria”. Ci riferiamo ovviamente a Hollis Frampton, “Pour une métahistoire du film: notes et hypothèses à partir d’un lieu commun” (1971), in L’écliptique du savoir. Film, photographie, vidéo, Paris, Centre Georges Pompidou, 1999, pp. 103-111.

[14] Y. Gianikian, op. cit., p. 88.

[15] Ibidem, p. 89.

[16] A.M. Ripellino, “Pietroburgo di Belyj: un poema d’ombre”, in Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968, p. 191.

Una prima versione del testo (qui leggermente modificata) è stata pubblicata sulla rivista “Cinergie”, n. 14, settembre 2007.

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1 commento

  1. Grazie!
    Bellissime suggestioni e riferimenti

     

     

    Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un’apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui sono condannati ad essere mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch’esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m’invade tutto l’orrore della necessità che mi s’impone, di diventare anch’io una mano e nient’altro.

     
    [ L. Pirandello Quaderni di Serafino Gubbio Operatore ]
     
    ,\\’

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Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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