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di Franco Buffoni

alla mia ragazzina piaci, passero,
che lei ci giuoca, e a te ti stringe al seno, e ti dà un dito, in punta, se la punti.
e a morderla ti provoca, di scatto, quando che a lei, che è la mia bella voglia, le va che fa uno scherzetto così:
ma sarà il confortino al suo dolore,
che il suo calore, immagino, ci tempera:
ah, poterci giocarti, io, come lei,
da alleggerirmi la malinconia!
tanto già piacque, pare, alla ragazza velocista, la mela doratina:
le ha sciolto gli slippucci legatissimi:.

Ezra Pound, in molte memorabili occasioni, ebbe modo di esporre il proprio convincimento circa la poetica della traduzione come bellezza intravista e recuperata. Ce lo ricorda Massimo Bacigalupo nel saggio “Modernismo e traduzione”, che così si conclude: “Ma per un esempio attuale della fecondità dei moduli modernisti converrà chiudere col Catullo di Edoardo Sanguineti (Galleria, maggio-dicembre 1986), non a caso dedicato ad «E.P., neglected by the young» (che è cita¬zione dal Mauberley). Qui il «Passer, deliciae meae puellae», che si conclude richiamandosi alla cintura della vergine Atalanta, «zonam diu negatam» (ligatam in altri testi), viene così cantato…”

Siamo – chiaramente – al limite estremo della traduzione di poesia come ricreazione, possibile con risultati felici solo allorché ad un vero poeta nella lingua di partenza corrisponde un vero poeta nella lingua di arrivo (lo dice già Leopardi nello Zibaldone). In questo felice caso la traduzione di poesia non è che assorbimento e trasformazione del testo originale; non è – forzando il concetto – che una lunga “citazione” in una lingua straniera. Da questa angolatura ci si sottrae alla impostazione tradizionale che assegna alla traduzione il compito impossibile di una riproduzione totale, e si pone in modo nuovo sia il compito del traduttore sia quello della critica della traduzione.
Assumiamo dunque il Catullo di Sanguineti come esempio paradigmatico della possibilità di riconoscere dignità artistica al testo tradotto; ne consegue la estrema valorizzazione del momento della ricezione del testo tradotto, ovvero della risonanza culturale che una traduzione in quanto testo autonomo – sortisce sul lettore. La “traduzione” di Sanguineti da questo punto di vista è appunto esemplare: viene letta e ricordata, e a sua volta citata autonomamente.
Traduzione poetica, dunque, non come palinsesto nel senso genettiano, ma come risultato di una interazione verbale con un modello classico recepito criticamente e attivamente modificato. In tale concezione intertestuale, il rapporto originale-copia (che implica una gerarchia di precedenza, di maggiore importanza dell’origine rispetto alla copia) acquista un’altra dimensione: diviene dialogico, e non più di rango, ma di tempo. In quanto la traduzione poetica viene a configurarsi come genere letterario a sé, dotato di una propria autonoma dignità.
Nella ormai consolidata convinzione che nessuna opera letteraria possa essere invenzione assolutamente originale (l’assoluto monologismo – concettualmente – equivarrebbe alla incomunicabilità), è chiaro che siamo all’interno di una concezione “aperta” dell’opera. In sintesi, l’autore di Laborintus e di Wirrwarr, con questo suo Catullo ci dimostra che, se in ogni opera letteraria c’è il riflesso di altre opere – e quindi è in corso un dialogo con parole già dette -, non si vede perché questo dialogo non possa trovare ulteriore svolgimento nella traduzione.
Nella prospettiva Catullo-Sanguineti, la traduzione di poesia può essere quindi definita anceschianamente come il rapporto paritario tra due poetiche. Un rapporto che toglie ogni rigidità all’atto traduttivo, facendo accantonare ogni idea di copia, di rispecchiamento, e quindi qualificandolo in tutta la sua dignità di rapporto poietico fra due processi, fra due momenti costruttivi, non fra due risultati definitivi e fermi.
Già nel 1968 Umberto Albini, presentando la traduzione sanguinetiana delle Baccanti di Euripide, osservava come il poeta vi avesse “travasato con sottigliezza di variazioni la terminologia cristiana, introducendo, tra l’altro, beati, comandamenti, fede, misteri gaudiosi, peccati, cappelle delle Ninfe e Sacro sepolcro”. Ma, per nulla scandalizzato, l’illuminato accademico assolveva Sanguineti per ragioni simili a quelle da noi anziesposte: “L’operazione, massiccia, non è arbitraria: intanto gli Atti degli Apostoli con i loro echi e il Christus patiens (utilizzato giustamente per il finale del dramma che ha mutilazioni nel testo euripideo tramandato) con i suoi adattamenti delle Baccanti costituiscono un indiscutibile precedente: e, poi, come riproporre un’atmosfera e una discussione di fede prescindendo dalla tipologia più diffusa?”.
Siamo così a riflettere su Sanguineti traduttore dei grandi classici teatrali ad hoc per la rappresentazione (l’Euripide di Squarzina, piuttosto dell’Edipo tiranno di Sofocle per la regia di Benno Besson nel 1980, piuttosto di Fedra di Seneca per il Teatro Stabile di Roma con la regia di Ronconi nel 1970). E le traduzioni teatrali sono sì traduzioni di poesia, ma anche e soprattutto “copioni” destinati ad essere gridati da un palco alle masse ogni sera. Dice bene lo stesso Sanguineti nella premessa alle Troiane, tradotte nel 1974 per l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (la messa in scena avvenne a Siracusa per la regia di Giuseppe Di Martino): “Anche questa mia nuova prova di traduzione nasce da una precisa occasione scenica”. Per concludere: “Nel corpo degli attori si misura così, secondo l’arco della peripezia, la transizione della parola al fiato”.
Sanguineti, all’epoca, aveva però già teorizzato sul suo tradurre testi classici per il teatro. E nell’introduzione a Fedra (Einaudi 1969), pur senza parlare di intertestualità, con mirabile chiarezza aveva affermato che il teatro “è citazione di testi, in uno spazio concreto, in un tempo immediato, in voci e in corpi”. Compito del traduttore deve dunque essere quello di “procurare parole teatralmente ‘citabili'”. E l’auspicio, per Sanguineti, era allora di riuscire a fare emergere col suo tradurre “un’idea coerente di teatro, di tragedia, di ‘citabilità’ scenica”.
A distanza di quattro decenni (densi come sono stati di diatribe tra i sostenitori di un approccio alla traduzione di tipo strutturalistico – legato alla linguistica teorica – e i fautori del primato della filosofia dell’estetica: tra Mounin da un lato e Steiner dall’altro), Sanguineti mostra di avere visto giusto quando non era affatto scontata la scelta. È infatti istintivo, per lui irrinunciabile – in anni di assoluto predominio linguistico-teorico nell’ambito degli studi sulla traduzione – schierarsi dalla parte di coloro che pongono come condizione prima – per potersi occupare di traduzione letteraria – la riflessione sulla possibilità di tradurre la stratificazione delle lingue storiche.
E diamo atto a Sanguineti, poeta-traduttore, di avere vissuto sin dall’inizio il suo rapporto coi classici – di nuovo: istintivamente – nella maniera che l’estetica contemporanea vede come corretta, ma che cinquant’anni fa veniva dai più giudicata irriguardosa e esibizionistica. L’idea oggi comunemente accettata – e propugnata anche in sede accademica – di classico come “officina”, come laboratorio estetico sempre in funzione, viene infatti da Sanguineti posta in essere senza alcuna esitazione sin dalle prime prove. E con risultati la cui validità nel tempo è possibile oggi verificare.
Riconosciamo anche come sia riuscito l’intendimento – nelle Troiane – di rendere il testo in una lingua di “poesia che tende al lamento”. Sanguineti manifesta il proposito da par suo nella prefazione ricordando, con Benjamin, come nel lamento sia da riconoscere “l’espressione più indifferenziata, impotente della lingua, che contiene quasi solo il fiato sensibile”. Da qui – per l’appunto – la sua riflessione citata in precedenza sulla transizione sul palcoscenico “dalla parola al fiato”. Classico come officina, dunque, ma nella più assoluta lealtà (Sanguineti la chiama ancora ‘fedeltà’) all’ex monumento. Nella prefazione a Fedra, in forma apparentemente ironica (serissima nella sostanza), il poeta appaia l’importanza di tale ‘fedeltà’ a “una buona dose di superstizione filologica”. E a noi oggi piace moltissimo verificare quanto egli fosse – allora – dalla parte di Folena. Oggettivamente. Ma lasciamo parlare Sanguineti: “Perché dovrei nascondere il fatto che, nel corso del lavoro (la traduzione di Fedra, n.d.r.) ogni volta che un passo mi appariva teatralmente debole, ho trovato rimedio – sempre, assolutamente sempre – in una maggiore aderenza al verso antico, in uno sforzo più ostinato di prossimità, e addirittura di calco?”. (Non credo di dovere ulteriormente insistere sulla intrinseca necessità di una differenza di approccio traduttivo tra Seneca e Catullo).
Una caratteristica di Sanguineti poeta, l’understatement, il sapere dire cose serissime in modo apparentemente fatuo o ironico, sgorga all’improvviso anche quando egli riflette sulle proprie traduzioni. Presentando Edipo tiranno, per esempio, afferma: “Per dirla come si dice oggi, i personaggi, più che parlare, sono parlati, e sono parlati dall’oracolo, e sono parlati in oracolese…”. Una boutade, che invece nasconde una profondissima e acuta indagine; il traduttore infatti rivela di essere giunto ad impadronirsi del “meccanismo dell’interpretazione” dell’opera grazie a “una realtà che sta al di sotto di ogni concreto particolare della scrittura originaria”. E aggiunge: “Posso naturalmente sbagliare, ma la grande invenzione di Sofocle, mi pare che possa essere descritta come l’adozione – in questa tragedia tutta fondata sopra la decifrazione e la verifica di un oracolo, e che si apre con l’attesa di una sentenza divina, e che sopra l’attesa di una sentenza divina, inconclusa, viene a concludersi – di un perpetuo stile oracolare. I personaggi, ignari, pronunciano perpetui enigmi, carichi di sensi che li trascendono, e che sono come glosse profetali al vaticinio primario e centrale”. Non credo si possa giungere a definire più chiaramente il lavoro traduttivo se non configurandolo nel processo indispensabile per fare scattare il ‘meccanismo’ dell’interpretazione.
Se fino a questo punto, inevitabilmente, parlando di Sanguineti traduttore, il mio pensiero è andato per contrappunto a Sanguineti poeta, per l’altra grande opera classica da lui ‘tradotta’ – Il giuoco del Satyricon. Un’imitazione da Petronio – è all’autore del Gioco dell’oca e soprattutto di Capriccio italiano (dove persino l’epigrafe è tratta da Petronio) che occorre fare riferimento.
Si è già detto di ‘opera aperta’, e di traduzione come ‘ricreazione’ con riferimento all’Omaggio a Catullo. Si è posto in luce come – per contro – Sanguineti voglia e possa restare filologicamente legato al testo classico quando l’interpretazione lo richiede. E questo è il punto. Laddove il poeta o il narratore Sanguineti ricrea o imita un classico, non compie un’operazione oziosa o narcisistica, bensì ermeneutica, leopardianamente “necessarissima”. Inserendosi in una tradizione che, da Quintiliano a Robert Lowell, trova proprio in Leopardi un solido baricentro teorico e pratico.
Ed è proprio Sanguineti – scrittore niente affatto contraddittorio: soltanto complesso, anche per via della pluralità dei generi verso i quali, nel corso dei decenni, si è volto – che con il massimo della competenza spiega necessità e ragion d’essere dell’imitatio nel saggio “Per la storia di un’imitazione”, premesso nel 1988 all’edizione della prima (1815), seconda (1821-2) e terza (1826) versione della Batracomiomachia (nonché del Discorso sopra la Batracomiomachia).
L’imitazione come “categoria risolutiva”, rileva Sanguineti, “non poteva che nascere dall’impatto di due codici callidamente giocati a specchio, così da stabilire, in corto circuito, una sorta di oggettiva equivalenza translinguistica di sommamente artificiosa naturalezza, tra i moduli di un ‘omerese’ degradato e di un ‘castese’ semplificatamente stilizzato in cifra allusiva. Ed è davvero geniale lo scatto alchemico per cui il codice degli Animali, il Castiano, è trattato come il trasformatore naturale, per il lettore d’epoca, esattamente come per il lettore d’oggi che ne riconosca la cristallizzazione sapientemente manieristica, di quell’epos parodico e derisorio che è la Batracomiomachia, scritta “ad imitazione di Omero e del suo stile”, ma stile fatto ormai Batracomiomachiano…”.
“Soltanto attraverso una simile strategia metaletteraria”, concludeva Sanguineti, “Leopardi poteva davvero aprirsi il varco che lo conduceva dal tradurre all’imitare, ovvero, più precisamente, dalla ‘imitazione sofistica’ a un’opera nuova’. Ed è per questo che il paradosso del tradurre perverrà davvero a sciogliersi nel paradosso dell’imitare. Il resto sono i paralipomeni, un capolavoro misconosciuto: un capolavoro del Leopardiano”.
Va da sé che, sostituendo al termine “Leopardiano” il termine “Sanguinetiano”, tout se tient per chi volesse affrontare Catullo o Petronio nella versione del poeta di Bisbidis.

Ciao, Edoardo, ne avremo di cose da raccontarci finalmente con calma, aspettami all’ingresso… Franco

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7 Commenti

  1. 1) Attendevo con ansia qualche parola su Sanguineti su NI…ero preoccupato dal silenzio generale.
    2)…non c’era miglior modo di ricordarlo se non così. Un saggio al saggio.

    Inoltre: “Va da sé che, sostituendo al termine “Leopardiano” il termine “Sanguinetia¬no”, tout se tient per chi volesse affron¬tare Catullo o Petronio nella versione del poeta di Bisbidis.”…mi sembra una ottima proposta sullo studio dei classici…

    Luciano.

  2. * le traduzioni teatrali sono sì traduzioni di poesia, ma anche e soprattutto “copioni” destinati ad essere gridati da un palco alle masse ogni sera. Dice bene lo stesso Sanguineti “Anche questa mia nuova prova di traduzione nasce da una precisa occasione scenica”. Per concludere: “Nel corpo degli attori si misura così, secondo l’arco della peripezia, la transizione della parola al fiato”.*

    Traduzione poetica, dunque, non come palinsesto nel senso genettiano, ma come risulta¬to di una interazione verbale con un modello classico recepito criticamente e attivamente modificato. In tale conce¬zione intertestuale, il rapporto originale-copia (che implica una gerarchia di pre¬cedenza, di maggiore importanza dell’origine rispetto alla copia) acquista un’altra dimensione: diviene dialogico, e non più di rango, ma di tempo. In quanto la traduzione poetica viene a configurarsi come genere letterario a sé, dotato di una propria autonoma dignità.

    !!! grazie.

  3. QUEL PARALONGILINEO MICROMORFO PATAFISICO
    di V.S. Gaudio

    Nell’Enciclopedia delle Scienze Anomale[FORSE QUENEAU, Bologna 1999], Sanguineti viene ricordato, più che per la cattedra di epigonologia all’Accademia degli Informi, per la “teoria del brancolamento” di cui al suo Giornalino 1973-1975,Torino, Einaudi 1976, che si può riassumere in un mondo in cui i Brancolanti si ritagliano sfilatini,pregustando il companatico delle lapidi future, che, se vogliamo,è patafisico anche questo, un po’ come vuole Jean Baudrillard, insomma non mi va di tirare dentro Laborintus né tantomeno andare a ripescare la mia Lebenswelt[da inviare a Edoardo Sanguineti,datata Pantano di Villapiana 1976, su S/Zdi Roland Barthes, Il Seminario su “La lettera rubata” di Jacques Lacan per averne indicazioni anche fisiologiche sul priapismo, che ebbe un’apparizione in rivista in “Fermenti”, credo(non me ne vorrà Carratoni se non cito il numero,visto che non riesco a trovarne copia)], che faceva parte del lotto, insieme a quella da inviare a Giuseppe Guglielmi,il “novissimo occluso”[Su L’amore dei sessi di Karl Jaspers, il Tantra Asana di Ajir Mookerjee, Ravi Kumar 1971, Roberta di Klossowsky per averne Décuplages], Andrea Zanzotto[sul giubilo trionfale delle oche leggendo Van Hout, O.Ducrot, Erik Stenius; è apparsa, mi pare, in “Lettera” la rivista che negli anni Settanta Spartaco Gamberini faceva a Cardiff], Giorgio Barberi Squarotti[sui miti Winnebago di cui a Paul Radin, i componenti semantici della deissi, “La coperta perduta” del volume XLII della Biblioteca delle Silerchie, 1960 Il Saggiatore], che non uscì nella plaquette de L’ARZANÀ, Torino 1981; mi tira invece questa collocazione nell’Enciclopedia Zanichelli citata, in cui, nella stessa pagina 75, dopo Breton, c’è la “teoria dei brevilinei e dei longilinei”, elaborata da Amintore Fanfani negli anni Trenta,che, sogghignate sogghignate, fa un tutt’uno, è patafisico,eh?, con la mia scheda riguardante Edoardo Sanguineti in “Bazar”[Alimentari, primizie,minuterie erotiche,surgelati, strumenti letterari, carni, bottiglieria, utensili, libri e corpi], Scaffale degli anni Settanta, pubblicato, di questo ho copia e la citazione è completa, Carratoni, nel numero 208 di “Fermenti”, Roma 1993: leggete un po’…

    #
    EDOARDO SANGUINETI.
    Poeta. Scrittore, anche e piuttosto nel senso di Roland Barthes. Bello. Stupendo corpo di fauno:lo proponiamo come “Poeta senza Vesti Indosso” per”Playboy”. Di lui(cioè del suo corpo) hanno detto: “Sessualmente deciso e positivo. Bel fisico,organi genitali potenti”(Gilbert Oakley); “[Sanguineti è] un fauno [che],seduto, lascia dall’uno e dall’altro braccio sfuggire ninfe(Stéphane Mallarmé); “[Sanguineti] guidava la danza corale delle ninfe nella notte,precedendo il mattino e guardando in giro dalle cime dei monti. Diverse storie d’amore si raccontano sul suo conto, in cui egli inseguiva ninfe, spesso con lo stesso risultato che aveva ottenuto Apollo con Daphne”(C.Kerényi). Il corpo sanguinetiano è un testo metafisico, nella accezione di Max Bense, in cui l’assurdo delle figure ridonda sulla pertinenza della connotazione e della denotazione fino a convertirla in impertinenza. Il corpo sanguinetiano è paradigma dello scetticismo e del cinismo: in ciò, stando a Karl Jaspers(cfr. L’amore dei sessi in La mia filosofia, Einaudi 1948), è profondamente erotico: esso esalta l’ebbrezza con una sorta di ludus amoris, quello joy d’amour della cortezia che contrasta la soddisfazione amorosa e che nel trovatore mistico Henry Suso è insieme gaudium e dolor.
    Il corpo del trovatore mistico Edoardo Sanguineti, come paradigma del dolor, ha un “indice di adiposità” magro, una faccia a trottola e un “indice di robustezza di Pignet” molto debole. E’ un longitipo deficiente in merito alla negatività della vita vegetativa: cioè un micromorfo paralongilineo con una sorta di oralità allampanata che ribalta il paradigma del dolor in gaudium.
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franco buffonihttp://www.francobuffoni.it/
Franco Buffoni ha pubblicato raccolte di poesia per Guanda, Mondadori e Donzelli. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). L’ultimo suo romanzo è Zamel (Marcos y Marcos 2009). Sito personale: www.francobuffoni.it
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