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Da “L’attimo dopo” di Massimo Gezzi

di Massimo Gezzi

Gelsi

Hai fatto questo semplice gesto con la mano:
l’hai sollevata fino al volto,
l’hai tesa verso il mio finestrino,
mentre guidavo: ho guardato,
e contro la luce caliginosa
della mattina li ho contati,
otto, otto gelsi a chioma aperta
come la coda di un pavone imbalsamato,
in processione lungo la linea
del nostro sguardo, così perfetti
che per un attimo ho scordato
orari coincidenze
e ho rallentato per capire
come mai di otto alberi in fila si possa dire
“guarda che belli!”, come hai detto,
se loro non decidono di esserlo e tutto
è un avvicendamento senza senso,
o se basta un movimento della mano
e un sorriso per fare di otto alberi
in riga un’illusione di riscatto.

°

Tuesday Wonderland

Settembre, si direbbe. O forse una mattina
di metà maggio: il treno, il paesaggio
assopito dell’Oberland, contro il fumo
pesante delle fabbriche, sullo sfondo –
era il solito percorso
da casa alla stazione, cinque minuti
(poco meno), prima di prendere la rampa
di scale mobili che ascende
al cielo grigioazzurro di Länggasse.
Una musica ripetitiva scardinava
la catena degli eventi: la signora
diretta al suo lavoro, come sempre,
il folle barbuto che aguzzava gli occhietti
sbirciando il contenuto delle tasche:
un giorno come tanti, probabilmente martedì.
Il treno rallentò, le porte si aprirono.
Le scale mobili ripresero a salire
al primo tocco di piede.
Le cose restarono tutte quel che erano
l’attimo precedente: la luce fu luce,
gli autobus autobus,
gli aceri gli stessi, con qualche foglia in più.
Eppure sembrava lo sapessero tutti,
mentre tranquilli aspettavano al semaforo
o carichi di spesa, a piedi o in bicicletta,
svoltavano un angolo, e non c’erano mai stati.

°

Ultimo trasloco

Come se ci fosse altro tempo, oltre a questo,
altri giorni per sentire questo freddo
salutare, imparare un’altra lingua,
bussare a una porta socchiusa, entrare –
le processioni sulle auto sul corso, l’intuizione
di un bene nascosto al di là
di tutti i muri e che solo rinunciando
a tutti i muri brillerà
(come la tavola del mare corrugata
dalla brezza scintillava
di origine ai prime raggi dell’alba).

Allora il nostro dovere di uomini liberi
è di contare le finestre illuminate
nel buio. Perché sul confine
tra il paese e la campagna una donna
si è svegliata a ruminare la sua angoscia
(disoccupazione, amore inconfessabile che svelle
la serratura della porta, malattia).
Perché un uomo abbandona
la sua casa una notte e tutti pensano
che è vita, in fondo, quella, è bellezza.

Nei mobili ereditati dai nonni i nipoti
leggono il passato come gli anni
nel legno, accarezzano le assi
e risvegliano il timbro della voce
degli assenti, li invitano nella casa
pitturata di fresco, li sistemano
negli angoli, acquattati
con il viso schiacciato sulle ginocchia a mormorare
la preghiera che il vento ogni sera
chiede al mandorlo, la perfetta consistenza
del tuo sangue che attraversa
ogni singolo millimetro di te,
senza svegliarti.

°

L’amore, i cromosomi

Passo sulla cenere di un fuoco, affondato
in un cratere di carbone. Qualcuno qui
ha incrociato parole, contorni, sospeso
al filo dell’alba che avrebbe
di nuovo sfoderato la bandiera della boa,
la riga dei legni accumulati sulla riva.
Seduto qui vicino, sento ancora il tepore della sabbia,
il benessere che dà, quando è notte,
un corpo più caldo dell’aria e della pelle.
Non ho capito niente più di questo:
ho incontrato e scordato molti uomini
e donne negli anni, ne ho visto maturare
i figli e i tumori, a volte la stanchezza contenuta
nei piccoli particolari apparentemente
privi di interesse, come un capo
vecchissimo dai colori troppo accesi,
o un sedile anteriore troppo ingombro
per essere almeno per ipotesi abitato
da qualcuno. Verranno a questa spiaggia
uomini e bambini: rideranno nella luce,
senza che un no a tutto questo possa essere
un no per davvero: i cadaveri dei granchi
per metà sono già vento, invisibili e reali
come l’amore, i cromosomi.

°

Grottammare

Le generazioni che hanno fatto Grottammare,
gli uomini che ordinatamente hanno issato
le pietre di questo muraglione
a strapiombo – gli inquilini delle case
deserte tutto l’anno, che hanno tolto
gli infissi incrinati per sceglierne di nuovi –
i muratori, che hanno spinto nelle sedi
i cubetti di porfido, gli anziani
che hanno messo a dimora i getti dei cespugli
che adesso impazziscono di bocci.
E a sinistra, questo scarno lungomare
che pare senza limiti, di notte
questo domino di luci che attraversa
i confini regionali, per tutte le persone
che dividono una terra, e davanti a una tavola
conversano, o si ignorano –

al debole silenzio della luna, stanotte,
come vogliono parlare di loro ai passanti,
additare con orgoglio il muro edificato
con le proprie energie, l’agave piantata per gioco
e poi proliferata, il loro passato in questa casa
o in quest’altra, invisibili e muti, convinti
che le cose, alla fine, si ricordino di ognuno,
mentre cade la brina sul balcone e l’autostrada
scompare dentro il tunnel, e in un giro di piloni
risospinge via tutto.

°

Poco prima

Le braci degli sms che si spengono,
la stanza inerme sprangata
in cui tutte le notti affiora una polla
d’acqua e luce, che chiede di sedersi
sul cuscino, a contemplare.
Il sonno atomico che marchia
il materasso delle doghe,
il fondale plasmato dalla notte
a piccole dune. E l’esistenza quotidiana,
fatta di carne e vetri sporchi,
la cenere sottile dell’alba
che scavalca le colline e pronuncia
sulle labbra di ognuno la parola
misteriosa, quella che fa sfilare dalle porte
le sagome instabili dei corpi, poco prima
che scocchi il rintocco sul quadrante
e si popolino di altri le stanze
che occupavamo noi.

°

Il seme del tiglio

Mentre aspettavo l’autobus guardavo
le ondate di semi dei tigli
piovere sull’asfalto dopo un volo
di pochi metri: non attecchiranno,
le ruote delle auto li schiacceranno
in polvere finissima che la terra
assorbirà, con le piogge di settembre.
Mi stupivo del loro ingegno, del piccolo
velivolo naturale che li sovrasta
e li accompagna, nella discesa verso un tempo
che non vedranno mai.
La sera rincasando in automobile
ho sentito qualcosa scivolarmi
dai capelli: e su un braccio mi è atterrato
uno di questi semi, con le ali
acciaccate e il peduncolo piegato.
Peccato che non fossi
un bisonte di prateria, o un’antilope
che a balzi attraversa le montagne:
in uno scatto della corsa avrei deposto
il seme annidato nel mio pelo
in terra fertile. Invece sono un uomo
di città, e a poco è servita
la sua breve traversata, se adesso
abbandono quel chicco sul terrazzo,
sperando in qualcosa di più utile
di me, in un vento.

°

La pioggia non serve

Dicono che lavi, la pioggia di settembre:
i marciapiedi tappezzati di impronte,
gli asfalti anneriti di copertoni
consumati, le foglie impolverate dal sole
o dai fumi del traffico. Ma sporgiti un secondo
dal balcone, dai un’occhiata:
la gronda costipata sta cedendo
sotto il carico dell’acqua,
le castagne selvatiche rimbalzano
a coppie sul cemento compatto. Si bagnano
le scarpe delle donne che rientrano a casa.
La pioggia non serve alla città:
un velo appena più spesso dell’aria
capace di appannare gli abitacoli
e di ingolfare gli incroci, imparagonabile
al fumo rarefatto che si leva
da una forra bagnata, ai primi raggi dell’alba.
La pioggia non serve:
il cemento non assorbe e le antenne
non succhiano l’acqua dalle gronde
(ma il tamburo di gocce sull’asfalto:
chi potrebbe immaginare quella musica, senza?).

°

Mattoni

Se volessi un mattone dovresti prendere
un mattone, per rabberciare una muraglia
o per tappare una buca
in un pavimento a lisca di pesce.

Un mattone: un solido che vive dentro tre
dimensioni, pesa, al tatto sembra
ruvido o poroso, e lasciato ammucchiato
assieme ad altri per lungo tempo fa
da nido a millepiedi, ragni e forbicine.

Un mattone che esiste, che spaccato col martello
fa tac una volta sola, un suono bello,
di mattone, secco, preciso.

Un mattone conta più delle parole
che lo imitano appoggiandosi
una sopra l’altra.

Io con la poesia vorrei fare mattoni.

[Massimo Gezzi, L’attimo dopo, Sossella, Roma 2009.]

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16 Commenti

  1. “Il seme del tiglio” e “Mattoni”, mi sembrano i momenti più riusciti o sono comunque i momenti che preferisco, per mio personalissimo gusto.
    Mi sembrano una spanna sopra gli altri, per leggerezza e precisione, per una più compiuta architettura di pensiero e un’efficace estetica della parola.

    Complimenti,
    Giovanni.

  2. Queste poesie mi piacciono e vi dico il perché. Sono un amante della neoavanguardia ma penso che negli ultimi anni, almeno i produttori di poesia di un certo livello abbiano sempre avuto un certo timore a confrontarsi con un gigante del novecento: Montale. Queste poesie si confrontano col poeta e ho come l’impressione che sia una tendenza che si diffonda sempre di più. Insomma la neoavanguardia, lo sperimentalismo e il “classicismo moderno” giungono a sintesi e davvero si partorirà una poetica del XXI secolo. In realtà la sintesi l’aveva già provata, e c’era riuscito, Montale stesso con Satura, che, a scapito di tutti i più illustri critici, per me “nano” resta la migliore prova del Poeta. Queste composizioni si rapportano con Montale, e lo individuo in piccoli segni: “orari coincidenze”, “riscatto”, “Eppure sembrava lo sapessero tutti […]\,svoltavano un angolo, e non c’erano mai stati”.che (forse per deviazione mentale o passione irrazionale) mi ricorda degli uomini che non si voltano; “ l’intuizione”. Chiaramente non c’è solo Montale. C’è la migliore tradizione del secondo novecento: Sereni mi sembra abbastanza presente: “il fumo pesante delle fabbriche, sullo sfondo”. Questi richiami, coscienti, mi sembrano molto significativi per quello che dicevo proprio all’inizio. È l’inizio di una nuova poetica del secolo? Quanto si rapporteranno i nuovi poeti con il classicismo moderno? Beh a giudicare dalle ultime uscite il rapporto esiste: penso ai “Limoni” che si reincontrano in Inglese (stesso autore del post) ed in Socci. Penso alle poesie di Maccari ed alla raccolta Mondi di Mazzoni di cui Sereni rappresenta certamente un’auctoritas. Per concludere belle poesie e bello stimolo per chiunque voglia scrivere poesie italiane in questo decennio, oggi in una conferenza a Palermo definito “anno zero”.

  3. Grazie Alessandro, sei troppo buono.
    Grazie a Luciano Mazziotta per la sua analisi, precisa e intelligente (anche se non concordo su Satura quale migliore libro di Montale…). Naturalmente il classicismo moderno, non limitato all’ambito italiano (penso a certa grande poesia americana), a me interessa molto. Si tratta di non replicare il già fatto, certo. Di aggiornare la linea facendole intersecare altre linee e soprattutto i problemi del nostro tempo, della nostra storia. A modo mio, cerco di farlo. Non so se ci riesco. Grazie di nuovo dell’attenzione.

  4. @luciano dopo montale (che è pure il titolo di uno studio di critica letteraria – questa stupida scienza bistrattata, che è di carta, non è solo on line o nemmeno tutta orale e convegnarda) non c’è un salto o un vuoto che arrivano al poeta di oggi massimo gezzi. e non è che per accorciare questa distanza bisogna ricorrere all’ultimo montale, per arrivare più comodomente al poeta di oggi. c’è come dici, ma lo dici solo tra le righe, una specie di traghettamento compiuto dai più vecchi fortini, sereni, caproni, giudici eccetera; un traghettamento di quella tradizione e di quell’idea di moderno che prende, come è ovvio e per fortuna, varie direzioni – mai epigonali. e poi ci sono i più giovani, ma meno giovani del poeta di oggi: fabio pusterla, per esempio, che non si può non nominare a proposito del poeta di oggi, massimo gezzi, perchè è un riferimento – questo sì – più vicino. e questa prossimità (e questa distanza, inevitabile in un confronto che si vuole dialettico e per questo ‘coraggioso’) consentirebbe di capire ciò che gezzi dice, fra le righe, sull’importanza di un dialogo che va al di là delle tradizioni nazionali e di appartenenza. e sui rischi e sui limiti dell’epigonismo – specie quando ci si colloca sulla linea – ardua, ardua – del classicismo alto, sì, proprio quello ‘moderno ‘e ‘paradossale’. i rischi dell’epigonismo, insomma.

  5. Sono d’accordo con Sigismondo C. (e il libro di Gianluigi Simonetti ce l’ho alle mie spalle, mentre scrivo queste righe). L’epigonismo è sempre un rischio, ma non solo per chi sceglie la linea, davvero ardua, del classicismo alto. Io cerco di schivarlo innanzi tutto non facendo mistero di preferire una linea (ossia: dei poeti) a un’altra (ad altri), cioè riconoscendo l’esistenza di una tradizione che non può non agire in chi la ama; in secondo luogo, tentando di “rubare” il più possibile e di “imitare” il meno possibile (un po’ come faceva Montale – perdonatemi il confronto, è pour parler – con D’Annunzio o con Sbarbaro); in terzo luogo, sbriciolando quella tradizione, forzandola ad entrare in territori spuri, contaminandola con qualcosa di radicalmente diverso e distante, come propone Sigismondo C. (per fare un solo esempio “nostrano”, il Sanguineti di Reisebilder o di Postkarten per me è un poeta importante); e infine rifiutando ciò che di una tradizione non è ereditabile e spesso neanche condivisibile (e penso per esempio allo stilnovismo o all’angelologia montaliana, visto che si è parlato soprattutto di questo poeta). Quotidianamente mi interrogo sulla riuscita di questo tentativo. Per ora mi sembra reggere, ma probabilmente in futuro non potrò più scrivere poesie come queste. Vedremo.
    Grazie di nuovo a tutti.

  6. @Sigismondo. Trovo molto interessante e ti ringrazio per l’appunto su quanto ho scritto. Non volevo però sostenere il vuoto tra Satura e l’oggi. Solo che oggi al di fuori dell’accademia sento sempre meno parlare di Montale. L’accademia lo studia secondo pratiche accademiche. il fuori lo relega all’accademia. è un cane che si morde la coda. Per questo motivo ho focalizzato l’attenzione solo su quel poeta. Non credo affatto nel vuoto. Concordo con te su Pusterla e sugli altri.
    @Gezzi. Il tentativo di cui parli mi sembra in realtà riuscito.

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