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PorcaMinchiaButtanazza

[eccovi il primo capitolo di un bel libro di un autore che, in un certo senso, è nato proprio su queste pagine virtuali. Il romanzo si intitola L’invenzione di Palermo, Giulio Perrone editore. G.B.]

di Giuseppe Rizzo

PiEmmeBi. Oppure: PmB. Insomma: Porcaminchiabuttanazza. Pensavo che questa si sarebbe venduta come niente. Semplice veloce leggera. Non come le solite maleparole schife che si sentono ancora oggi a Palermo. I palermitani non ci sanno fare con le parolazze. Non le sanno dire. E non le sanno inventare. Prendiamo per esempio arruso. A meno che uno non passi il tempo a leccare più libri che gelati, non arriverà mai a scoprire che arruso sta per finocchio. (A me, per dire, piacerebbe di più che li si chiamasse popòsessuali, ma quella è questione di gusti). Che porcaminchiabuttanazza di parola è arruso? E negghia? E puippu? E metello? Nah, non servono, non arrivano, non si capiscono. Sono, beh, ecco, sono false. Vengono dalla pancia, come i rutti, e io non ho mai sentito dire a qualcuno: signori, è arrivato il momento che io vi dica la verità: e giù rutti, ehr, ehr, ehr.
Comunque.
Porcaminchiabuttanazza mi uscì fuori quando papà arrivò a casa con la notizia che mamma non sarebbe più tornata. Se n’è partì, disse.
Eravamo seduti in cucina, piegati sul braciere per acchiappare un po’ di calura. Erano le sei, e dicembre aveva già colorato il cielo di nero. Restava attaccata a qualche nuvolone grigio la minaccia di una nevicata. Aspettavamo che mamma tornasse da lavoro per mangiare e ficcarci sotto le coperte. Teresina era piuttosto impaziente:
«Ci porterà qualcosa?»
A cinque anni non è che poteva stare lì a preoccuparsi della cena, o del freddo. Nino, a diciotto, invece. Alzò la testa dal secchio con dentro le bucce di fave bruciate e fece l’adulto:
«Che minchia vuol dire che se ne partì?»
Papà litigò con la lingua più del solito:
«Ch-che d’ora in poi ce-ce la dobbiamo vedere tra di no-no noi»
Era nella sua consueta tenuta da protesta – pantaloni sporchi sul culo per via dello stare seduto davanti il portone di qualche politicazzo, maglione bucato dalle sigarette e collo segnato dalle catene. Di base, come mestiere faceva quello: l’incazzofigliodibagasciaprotestante. E l’artista. Anzi, parole sue, l’inventore. L’inventore per ripicchia – parola che gli ho regalato qualche anno fa, visto che le sue proteste spesso finivano a mazzate. Nessuno di noi ha mai capito per ripicchia a cosa, né tantomeno a cosa servissero di preciso le sue invenzioni. E non eravamo gli unici a non capirlo, visto che la gente non aveva mai comprato nessuna delle sue minchiate. Roba tipo ”foto-telefoni” (normalissimi ricevitori con cornici appiccicate sulla cornetta in cui il cliente poteva mettere la foto del caro estinto); “orologi perditempo” (per chi corre troppo dietro appuntamenti stressanti, slogan di papà); o “bilance dimagrenti” (per scimunite presuntuose che s’accontentavano di aggeggi taroccati).
Fondamentalmente, non siamo mai riusciti a vendere nessuna di queste cose. Nino proponeva di vendere papà al primo circo che fosse passato dalle nostre parti, ma non abbiamo mai trovato un impresario tanto asino da correre il rischio. Siccome però non beveva tanto, e non puzzava troppo, mia madre se lo teneva per buono. Noi, più che altro, pregavamo che diventasse normale.
Aveva un banco a Ballarò per il mercato della domenica mattina, ma quello comportava solo due giorni di lavoro a settimana. Il sabato faceva il giro per raccogliere la roba dai cassonetti della munnizza, e la domenica la vendeva al mercato assieme alle sue invenzioni. Il resto della settimana protestava. Ovunque. E contro chiunque. Ma non per tutti. Per se stesso, e per noi: più che altro per toglierci da quel cesso di Fondo Picone. Visto dall’alto del Ponte dell’Ammiraglio, quel pezzo di terra a valle tra il fiume Oreto e la stazione centrale sembrava un cimitero di denti cariati. A certi romantinconi potrebbe illuminarsi il cuoricino pensando che il punto di accesso a quella fogna passa per una via che qualche disgraziato privo di umorismo ha chiamato via Delle anime dei corpi decollati. Molte delle persone che allora abitavano la sponda destra del fiume neanche sapevano che il nome suonasse così per intero. Per tutti noi era via Decollati e basta. E non era altro che la piccola discesa dalle parti di via Oreto che funzionava da anticamera della più grossa porcilaia di Palermo: un’accozzaglia di baracche in lamiera, carcasse arrugginite di automobili, piramidi di copertoni sfondati, catapecchie di fango coi tetti di eternit, stalle fetenti e qualche centinaio di famiglie intrappolate lì dalla mancanza di piccioli e parenti col sangue blu. Mamma ci aveva sempre abitato. Ci era nata in un tempo in cui – diceva lei – ognuno aveva un suo orto, e i cavoli si potevano pure annaffiare con l’acqua dell’Oreto. A giudicare dai suoi racconti, però, già all’epoca del matrimonio con papà, verso i primi anni settanta, l’acqua del fiume era diventata peggio del veleno e alle persone si erano mischiati porci e topi e capre e cani e muli scacazzanti. Noi animali non ne avevamo, però avevamo papà.
L’incazzafigliodibagasciaprotestante la sera che tornò a casa senza mamma sembrava distrutto, straconvinto delle coglionazzate che gli uscivano di bocca. Noi però non ci credevamo, perché per tutta la vita ci avevano insegnato a credere a una sola cosa: FOTTIFONDOPICONE. Questo era quello che dovevamo fare, porcaminchiabuttanazza. E lo dovevamo fare tutti assieme. L’eventualità che mamma se la desse a gambe non era prevista. Ma lui insisteva:
«Ce-ce la possiamo fare».
«Seehh, ce-ce la possiamo fare. Ma chi, ma quando mai!?!», sbottò Nino, prendendo per il culo la sua parlata da balbuzziente, «pocopoco negli ultimi cinque minuti ti sei imparato a lavarti le mutande? A Teresina ce le prepari tu le lasagne cacate che ci piacciono tanto? Ce lo sai che ci devi mettere nella pasta? Cominciamo da lì, amunì, poi non parlo più: ricotta fresca o parmigiano?»
Papà ebbe un giro di broccola. Nino, braccia conserte e muso storto in segno di disprezzo preventivo, aspettava che si impiccasse con le sue stesse mani. La sua domanda non ammetteva sbagli, ma era troppo tecnica per uno che si avvicinava alla cucina solo quando la moglie lo scongiurava di fissare con un’altra vite gli sportelli cadenti. Qualsiasi cosa avesse risposto avrebbe sbagliato. Le lasagne cacate di mamma erano uniche perché nel suo sugo di cotenna non c’erano tracce di formaggio. Teresina vi sempre stata allergica, ma questo era un particolare che a papà sembrava sfuggito:
«Tu-tu-tutte e due ci vanno nelle lasagne. Senò che prìo c’è?»
«Bìh, la creatura a quest’ora già all’ospedale era!»
Nino è un pezzo di malacarne numero uno, non c’è che dire. Però era vero, se tutti noi potevamo permetterci una broccola al posto della testa, era perché mamma era sempre stata nei paraggi di Fondo Picone. Era lei che mandava avanti il circo. Senza di lei ci saremmo seppelliti a vicenda. Ci proteggeva da noi stessi, schivava cazzotti, e la sera tornava a casa tutta intera. Per di più, lavorava – un lavorolavoro, due volte a settimana puliva la casa dei Munafò, signora Luisa e signor Nenè, viale Strasburgo 113, oh oh, mica un lavorodellamichia come quello di papà.
Il mentecappato a momenti esplodeva:
«Vero è?»
Annuii con la testa e gli occhi bassi, ma la vergogna di papà durò poco:
«Ha che chie-chie-chiedono di te al Civico, che ora ce lo faccio io il favore di mandartici».
Nino era pronto a controbattere, ma la vena rossa sul punto di esplodere in fronte a papà lo convinse che forse la situazione era peggiore di quanto immaginasse. Si limitò a compatirlo con un penoso: «Tz tz tz».
Papà s’incazzò ancora di più:
«Annì, com’è la-la parola per tuo fra-fratello?»
Ogni tanto, quando la rabbia gli annebbiava la broccola, perdeva il filo di quello che diceva, oppure non conosceva la parola che andava usata, e così io gli facevo da gobbo.
«Gradasso, tronfio, superbo?», avrei potuto continuare per ore. Nino aveva fatto le scuole dai preti, ma io avevo Nené Munafò per insegnante. Nonsosemispiego. Mio padre chiese conferma.
«Teresì, co-copriti le orecchie», disse a mia sorella. Teresina eseguì e lui mi chiese:
«Qua-qual è meglio per mi-i-inchia piena d’acqua?».
Piegai la testa per fargli capire che quella non c’era verso di tradurla in italiano.
«Sa-sa-sapientino la finisce di fare il tro-tro-tronfio – disse, strizzandomi un occhio – e da-da domani si ri-ri-inizia. Verrà vostra zia ad a-a-a-a…»
«Ammazzarci tutti?», chiese Nino, «vacci a pigliare a tua moglie che è meglio per tutti, va».
In effetti, l’eventualità che zia ci potesse ammazzare tutti era più probabile di quella che si trasferisse da noi per dare una mano.
Comunque.
«I-i-i-i-i-i-», iniziò a balbettare mio padre. Abbassò la broccola a terra, sbatté il pugno sul tavolo e gridò: «Impossibile!»
Nino e io sbiancammo, senza parole e senza fiato. Quell’impossibile non ammetteva repliche. Teresina si sbarattò e iniziò a frignare. La presi in braccio e cercai di farla calmare. Papà, invece, fece cenno a mio fratello di uscire. Si chiusero la porta alle spalle e iniziarono a discutere. Da dietro la finestra li vedevo sbracciarsi e gesticolare, vestire le parole di rabbia e avvilimento.
Papà ne ripeteva in continuazione alcune, e più le pronunciava, più gli si gonfiava la faccia. Ma-ma-macchina, miiiiiitragliata, malacarne erano quelle dopo le quali si mordeva sempre la lingua. Nino invece sembrava preoccupato da quello che poteva succedere nei prossimi giorni:
«Come ce lo spieghi ora agli sbirri? Quelli nienteniente ci vengono a rompere i coglioni a noi ora».
«Bìh, e chi ci penza per ora a quelli. Il penziero a quei disgra-gra-graziati ce l’ho. Cani fitusi!»
«Lasciali stare a quelli. Meno ci abbiamo a che fare meglio è. Ormai la malaminchiata noi ce la dobbiamo sucare».
«Nonzi, non fi-fi-finisce qua, parola di Saro Tirone».
«Bìh, e che ci vuoi fare?»
«’Sti mangiafranco, i cani se li de-de-devono spolpare».
«Siamo rovinati. Rovinati siamo. Solo tua cognata ci mancava».
«Quella anzi ci vuole, lasciala stare».
«Rovinati».
«Finiscila».
«Ma qualcuno s’è fatto vedere, almeno?»
«Subito».
«E allora?»
«Dice che do-do-dobbiamo stare calmi. Mi fannodicono: non su-su-successe niente. Niente, la minchia, gli facciodico io. Tuttecose si sistemeranno, mi fannodicono loro».
«E come?»
«Muah, mangiapane a tradimento!»
«Ma tu ce lo chiedesti perché?»
«Perché e percome. Ma quelli so-so-solo una cosa ripetono: sbaglio ci fu».
«Ma chi te lo disse?»
«Calò Agliorna»
«U zu Calò?».
«Eh».
«Apposto siamo, siamo apposto».
Nino girò i tacchi e fece per rientrare. Papà cercò di frenarlo con un «ouh!», ma ormai non lo stava neanche più a sentire.
«Ci-ci-ci penzo io», gli gridò alle spalle.
Ninò entrò, scosse leggermente la testa in direzione di me e Teresina, poi si strinse nelle spalle e andò a rinchiudersi nella stanza che dividevamo tutti e tre. Poco dopo, da dietro la porta, sentii che iniziava a piangere. Io e Teresina andammo a dormire nel lettone dei vecchi. Era freddo, e papà non si decideva a rientrare.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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